MOSE’, LA CABALA E I SUOI SIMBOLI di Paolo Petitto

 

Non esiste altro mondo fuorché il mondo spirituale.
Quello che noi chiamiamo mondo sensibile è il Male
nel mondo spirituale.
Franz Kafka

 

Quando Mosè, il grande iniziato ebreo, scese dal monte Sinai con le sue enigmatiche tavole, forse esitò nel mostrarle al suo popolo. Da una parte v’era il sospetto che esso potesse fraintenderle; dall’altra egli era consapevole del fatto che senza un’ulteriore spiegazione era pressoché impossibile decidere a cosa alludessero con quei precetti apparentemente così chiari e – in tutti i sensi – lapidari.

Dunque l’insegnamento segreto di Mosè, di colui che aveva conosciuto l’Egitto da padrone ed ora Israele da profeta e fondatore, fu trasmesso da lui ai settanta anziani ebrei affinché essi lo tramandassero di generazione in generazione. Qabbalah (è questa la traslitterazione più corretta dall’ebraico) significa semplicemente “tradizione”, ma si presume la tradizione per antonomasia, la tradizione di vera conoscenza che, per via orale, è giunta fino agli ebrei contemporanei. Tutti sanno che le tradizioni, per quanto protette da vari e a volte ingegnosi riti, inesorabilmente cambiano. O, peggio, si deteriorano, fino a tradire il messaggio originario. Ora, è sempre arduo investigare le volontà altrui, specialmente se tali volontà si ritengono occulte o comunque destinate a pochi. Il paradosso di ogni disciplina esoterica si rivela in modo lampante nello studio della Qabbalah: più ci si concentra sulla lingua ebraica e sui suoi fonemi misteriosi, più il legame che esiste tra parola e parola, tra versetto e versetto, tra maestro e discepolo appare come un enigma irrisolto. Io non conosco la lingua ebraica, la lingua parlata – si favoleggia – dagli stessi angeli per la sua bellezza e per la sua capacità di evocare lo spirito; eppure, i pochi suoni che ho avuto la ventura di ascoltare mi richiamavano verità perdute, sepolte sotto la polvere del tempo.

Insomma, Mosè avrebbe tenuto per sé e per pochi adepti le verità, o meglio le nozioni più importanti attraverso le quali interpretare il Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia, la Torah, il sapere essoterico), che anche i cristiani sono costretti a rileggere non senza un brivido metafisico. Molte infedeltà riguardano le traduzioni (come nel caso della celebre costola di Adamo, nel testo ebraico in realtà il cuore, o dell’altrettanto celebre mela del Genesi, mai nominata nell’originale,anche perché è più probabile che l’albero intoccabile fosse un fico), ma più numerose sono quelle che ci narrano del tentativo di scoprire il vero significato del mondo attraverso il linguaggio, quello stesso linguaggio con cui Adamo conosce le cose e gli esseri attorno a lui nominandoli per la prima volta. Il linguaggio ha un valore sacro che noi moderni abbiamo quasi del tutto perduto in quanto, invece di considerare la parola come evocativa, la consideriamo mero strumento dei nostri desideri o, peggio, della nostra brama di potere.

 

Gershom G. Scholem ha ipotizzato che la Qabbalah sia nata nella Francia meridionale, nell’età in cui i Catari diffondevano il loro credo. Dunque per lui si sarebbe verificata una sorta di osmosi tra le due dottrine, che non a caso si propongono essenzialmente come interpretazioni della Bibbia. Con la Qabbalah nasce una nuova bibbia, sebbene essa non confuti quella originaria (ma qual è poi il Libro Sacro Originario?): i cabalisti affermano che esistono cioè due possibili letture, una destinata al popolo ed una destinata agli iniziati. A dire il vero, se dovessimo esaminare la storia delle interpretazioni cabalistiche da Isacco il Cieco in poi, dovremmo ammettere che, più che proporre nuove interpretazioni, essi cercano tutti i possibili nomi di Dio, degli angeli e dei dèmoni che paiono nascosti nel testo, nomi che consentono di dominare il mondo e l’uomo. La Qabbalah è un’interrogazione continua. Si pensi che il valore numerico della parola uomo, in ebraico, è lo stesso della parola domanda, come a sottolineare che l’essenza della nostra condizione risiede nel chiedere, nel pregare, nel provocare persino. Ora, il cabalista può creare o distruggere un mondo, può creare o distruggere un golem. Può dar vita a una zolla di terra o staccarla dal suo contesto, renderla cioè in-significante, tramite il potere della parola, del flatus vocis, del Verbo che acquista senso solo se qualcuno glielo dà.

Abūlāfiya sosteneva che esistono tre vie per l’elevazione spirituale: la via ascetica (negativa), la via filosofica (di poco migliore) e la via cabalistica, la quale si serviva della scienza della combinazione delle lettere (hok-mat ha-tseruf); lo Zōhar, l’opera più importante della mistica ebraica e testo canonico della Qabbalah, ci fa sapere che Adamo, prima di assaggiare il frutto che lo perderà, aveva tracciato sul volto le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico: in seguito il loro ordine, sconvolto, sconvolgerà a sua volta il suo essere morale.

Come gli gnostici e lo stesso Kierkegaard, i cabalisti credono in un Dio straniero, di fatto inaccessibile alla mente umana, una sorta di Infinito (Ēn-Sōf) che non si lascia nominare né afferrare dalle filosofie razionalistiche dell’Occidente: si rappresenta l’Altissimo, che ama le perìfrasi, con le quattro lettere IHWE (Iawhé, Jeovah), di cui solo gli iniziati sanno l’esatta pronuncia. Se e quando l’Infinito si degna di apparire ai mortali, esso diventa Shěkīnāh, l’aspetto femminile di Dio che crea il mondo e si lascia vedere dagli uomini solo prima di morire. L’Infinito si dispiega attraverso i primi dieci numeri, le dieci emanazioni o intelligenze pure, le Sephirôt, non molto diverse dalle Idee di Platone, che danno un senso alla dialettica tra essere e non-essere.

Le Sephirôt sono le sfere o attributi divini di cui parla la Qabbalah, che possone essere considerate simboli esoterici a pieno titolo, in quanto esse non solo rappresentano il mondo, ma lo ricreano di continuo attraverso nuove e a volte inaspettate relazioni. Dico esoterici perché coloro che ne conoscono o almeno ne intuiscono la vera essenza se ne servono – se così si può dire – ai fini di accorciare, senza ridurlo, il proprio cammino verso la verità. Come scrisse Rudolf Steiner, filosofo iniziato a più di un mistero, «la scienza occulta non impone a nessuno una verità, non proclama nessun dogma; indica una via. Chiunque – forse però soltanto dopo molte incarnazioni – potrebbe trovare questa via da solo; ma ciò che si acquista con la disciplina occulta abbrevia il cammino.» [1]Non a caso quella ebraica è una delle lingue più belle ed evocative che si abbia la fortuna di ascoltare: gli angeli stessi l’hanno adottata.

 

I dieci simboli sefirotici sono:
1) KETER, Corona Eccelsa
2) CHOKHMAH, Sapienza
3) BINAH, Intelligenza
4) CHESED, Amore
5) DÎN, Giustizia (Giudizio severo)
6) RACHAMÎM, Pietà
7) NEZACH, Eternità
8) HÔD, Maestà
9) JESÔD, Fondamento
10) MALKÛTH, Regno.

 

Nel simbolo dell’albero l’En-Sof rappresenta la linfa vitale e le radici, mentre le Sephirôt i rami. Ma l’uomo stesso diviene, anzi è un simbolo, per cui l’albero sefirotico si trasforma apparendo come testa, braccia, sesso e piedi dell’Adamo celeste, modello dell’Adamo terrestre. La stessa preghiera, per i cabalisti, assume un’importanza che va al di là della supplica o dell’inno: essa cioè diviene un tentativo di provocare le dieci Intelligenze che stanno a metà strada tra l’uomo e Dio.Mediante il nome del Creatore, la preghiera modifica positivamente l’ordine del mondo in quanto restaura l’assetto cosmico primigenio, la tradizione che si è spesso tentati di non seguire, per spirito di rivalsa, di rivolta o, peggio, per intenzioni malvagie.

I simboli più importanti della Qabbalah sono dunque quelli che hanno a che fare con le Sephirôt: il poeta catalano Juan Eduardo Cirlot [2] ha messo in luce il tentativo di identificare tali simboli del potere divino con le divinità mitologiche, ma io penso che essi valgano di per sé, quali ipostasi che acquistano significato solo quando vengono “messe alla prova” dai desideri e dai peccati dell’uomo. Il simbolismo della Qabbalah è complesso e quasi impenetrabile, anche e soprattutto per chi conosce l’ebraico, in quanto il suo linguaggio è al tempo stesso tanto palese da apparire invisibile e tanto oscuro da svanire. Ecco perché alcuni esimi studiosi e filosofi del Rinascimento, come Pico della Mirandola, credevano di riconoscere nel sistema cabalistico la sintesi migliore del simbolismo comune a tutte le grandi religioni, un simbolismo che consentiva di interpretare simbolicamente il Numero di Pitagora non meno delle Sephirôt. La Qabbalah pertanto è una teologia simbolica in cui non solo le lettere e i nomi sono simboli delle cose, ma anche le cose rappresentano emblematicamente le idee divine.

 

Éliphas Lévi, un cabalista dell’Ottocento, considerava la Qabbalah una specie di algebra della fede, e nella sua visionaria erudizione fuse i suoi simboli con quelli della magia, fino a credere che si potesse creare una sintesi universale: solo grazie alla Qabbalah tutto avrebbe una spiegazione ed ogni antitesi può essere superata e conciliata. È una dottrina che vivifica e feconda tutte le altre; non distrugge nulla, anzi offre una ragion d’essere a tutto ciò che è. In questo senso secondo Lévi la vita e la morte, l’anima e il corpo ritornano a una condizione loro propria, a patto che ci accetti la verità fondamentale secondo la quale tutto muore perché tutto vive: se fosse possibile eternare una forma si fermerebbe il divenire e saremmo di fronte all’unica vera morte. Questo dunque è il compito della Qabbalah: restaurare la tradizione di verità che considera il movimento (leggi: la creazione) un’emanazione della divinità stessa.

«L’anima senza corpo sarebbe dappertutto, ma in misura talmente ridotta che non potrebbe agire da nessuna parte; sarebbe perduta nell’infinito e assorbita e come annientata in Dio. Pensate ad una goccia d’acqua dolce racchiusa in una sfera e gettata in mare; finché la sfera non si rompe, la goccia d’acqua rimarrà della sua vera natura, ma se si rompe provate a cercare la goccia d’acqua in mare». [3]

 

Un esempio di come le Sephirôt possano essere ancora vitali come simboli ci viene dal romanzo Il pendolo di Foucault di Umberto Eco [4]. I tre protagonisti, redattori editoriali della Garamond, finanziata da un istituto di  psicologia, sono alla ricerca di quel cammino abbreviato di cui parlava Steiner: sia Jacopo Belbo, “spettatore intelligente” e pessimista dal sarcasmo melanconico, sia Casaubon, il narratore che si laurea in filosofia benché sia definito “barbaro” dai compagni per la sua incredulità, sia Diotallevi, devoto lui sì alla Qabbalah, ma sostanzialmente ateo, di un’indulgenza intellettuale che può apparire persino offensiva, tutti e tre i protagonisti sono coinvolti in una ricerca cabalistica incentrata sulle dieci Sephirôt, le quali si manifestano nei modi e nei tempi più diversi e sorprendenti, quasi che le fantasie degli gnostici del II secolo dopo Cristo o la storia dei Templari, quella dei Rosacroce o quella di qualsiasi gruppo esoterico abbia operato sulla terra, non fossero altro che diverse epifanie delle Idee divine.

 

 

Il sincretismo è tipico dei cabalisti e in genere degli iniziati, ma Eco non fa che  metterlo in ridicolo, così come la pretesa d’interpretare ogni simbolo come fosse un’illuminazione in miniatura.


«Il problema – dice a un certo punto Casaubon – non è trovare relazioni occulte fra Debussy e i Templari. Lo fanno tutti. Il problema è trovare relazioni occulte, per esempio, tra la Cabbala e le candele dell’automobile» [5]

Sempre per una sorta di sfida intellettuale e ironica, Belbo farà corrispondere infatti alle dieci Sephirôt le dieci articolazioni dell’automobile che compongono l’albero-motore (l’Amore, ad esempio, sarà la frizione e la Giustizia diventerà il cambio…).

Gershom Scholem, il fine storico, traduttore e interprete della Qabbalah, avrebbe sorriso sia del tentativo romantico di eternare i simboli cabalistici rendendoli archetipi senza tempo, sia del tentativo di Eco di criticarli in modo razionalistico: soltanto coloro che si avvicineranno alla mistica ebraica con l’atteggiamento consapevole di non svelare il mistero del Verbo potranno forse penetrare, quasi senza accorgersene, nel tempio della Verità. Forse.

 

Autore: Paolo Petitto
Messo on line in data: Dicembre 2006
Apparato iconografico a cura dell’Autore.

 

Note

[1] Il filosofo austriaco non si riferiva soltanto alla Qabbalah, naturalmente, ma anche a tutte le altre vie, come l’alchimia, la gnosi, l’ermetismo, la magia, la gnosi e l’aritmosofia, che raggiungono in modo iniziatico la verità. O pretendono comunque di farlo.
[2] Dizionario dei Simboli (1962), Milano, SIAD, 1986, pag. 435.
[3] Eliphas Lévi (pseudonimo di Alphonse-Louis Constant), Storia della Magia (1859), Torriana (FC), Orsa Maggiore Editrice, 1993, capitolo VII (La Santa Cabala), pag. 85.
[4] (Milano, Bompiani, 1988) A dire il vero Eco non scrive dei romanzi, bensì delle enciclopedie, necessariamente erudite, sotto forma di romanzo. Ma non è questa la sede per discuterne.
[5] Pag. 300. Chi parla è Casaubon; alla pagina seguente Belbo dirà che l’albero delle Sephirot si basa sul principio secondo il quale ciò che è sotto è come ciò che è sopra, principio-base dell’ermetismo, che si trova anche nei frammenti eraclitei.