RACCONTO: LA FORMICA CHE CREDEVA DI ESSERE DIO di Massimo Di Nocera

Nel laboratorio di ricerca della facoltà di biologia c’era un puzzo di scaffali impolverati misto a quello degli studenti impregnati dagli umori delle loro camere doppie. La routine era quella solita, con il via vai di persone in cerca di un ruolo esistenziale da colmare con un dottorato o un buon voto all’esame.
Si era fatto pomeriggio inoltrato e oramai la giornata andava scemando verso gli aperitivi nei bar della zona universitaria. Solo nel piccolo stanzino dedicato allo studio degli insetti era ancora a lavoro Marco, un ricercatore con contratto triennale a mille e cento euro al mese.

Il giovane dottore si applicava allo studio del movimento delle formiche e a tale scopo si era costruito, con la collaborazione di un suo amico ingegnere aero-spaziale, una tavolozza ad alta sensibilità sensoriale, una specie di touchpad estremamente suscettibile al tocco, capace di tracciare persino il percorso di un insetto appunto. Utilizzando un formicaio artificiale posto ai margini della sua sensibile lavagna, era intento a studiare le varie direzioni percorse dagli insetti in caso di ostacoli, presenza di cibo o pericoli.
In numero di una per volta le formiche venivano posizionate e lasciate poi libere di dirigersi come volevano, mentre il novello scienziato prendeva appunti e studiava il tracciato che appariva proiettato sullo schermo del suo computer.

La sera era calata e la stanchezza si iniziava a percepire fin nelle ossa, ma restavano solo altri due campioni da analizzare per concludere la prima fase del lavoro, così Marco si decise a procedere per quello che doveva essere lo sprint finale di un esperimento che oramai andava avanti da sei mesi.
Con cautela rimise al suo posto il piccolo insetto nel formicaio, accuratamente isolato da due vetrini che formavano un corridoio a porte scorrevoli, poi lasciò uno spiraglio fra il primo e il secondo per permettere l’entrata di una nuova avventuriera a sei zampe.

Fino ad allora era stato necessario eseguire questa operazione con molta velocità per evitare che un gran numero di formiche si riversasse fra i vetrini, ma questa volta solo una si era intrufolata e lo aveva fatto lentamente con una strana immobilità da parte delle altre. Questo era già insolito, ma lo fu ancor di più quando l’insetto si posizionò al centro dello schermo dove guardava stupito il ricercatore.
Passò qualche minuto prima che la formica si muovesse di nuovo e quando lo fece il piccolo stanzino del laboratorio fu come proiettato nello spazio, in un’immensità senza confini.
Gli occhi di Marco erano fissi sul monitor quando dal tracciato poté leggere le parole:

IO SONO DIO

Aveva fuso si disse, era tempo di andare a casa o ad ubriacarsi, ovunque ma doveva uscire da lì. Lasciò tutto com’era, il computer, le apparecchiature, la luce, si tirò dietro la porta e si tuffò di corsa per le scale, poi fuori dal cancello di ingresso e via per strada. Trovò qualche amico, era un po’ sconvolto e glielo fecero notare, si rilassò bevendo una birra e chiacchierando di tutto e niente. Rincasò presto, doveva dormire, a stento si lavò i denti e crollò sul materasso.

Il mattino arrivò presto, aveva dormito male e qualcosa lo disturbava. Fece comunque colazione al bar sotto l’università, salutò tutti ma lui era altrove con la testa, poi salì in laboratorio ed anche lì i soliti convenevoli con i colleghi. Si quietò solo quando riuscì a rientrare nel suo stanzino e vide tutto acceso come lo aveva lascito la sera prima e lo schermo del computer pieno di scarabocchi. Una formica solitaria passeggiava sul suo touchpad. Fu tentato di rimettere l’insetto fra gli altri, ma qualcosa lo fermò, allora liberò in fretta una scatola per le puntine da disegno e lo sistemò lì. Si infilò la scatolina in tasca e uscì.

Passò la giornata al fiume, mangiando un panino e osservando la piccola amica formica gettarsi sulle briciole che le faceva cadere intorno. Gli sembrava normale a guardarla, era tutto un avanti e indietro e zig e zag, si poteva diventar matti sul serio a seguire quel ritmo frenetico. Si fece l’ora del tramonto e per un po’ il giovane dottore rimase ad osservare l’astro che calava dietro la collina. Poi si decise per tornare in laboratorio, ripetere l’esperimento e togliersi ogni dubbio. Era stato un brutto scherzo dello stress si diceva ed ora bisognava andare avanti con la vita reale.

Arrivò quando per i corridoi dell’istituto c’erano solo gli addetti alle pulizie.
Varcata la soglia del suo studio si chiuse a chiave dall’interno. Annotò tutto come da prassi, posizionò quello che doveva posizionare, controllò che tutto funzionasse regolarmente e infine facendo un bel respiro tirò fuori dalla scatola l’insetto.
Ebbe inizio l’esperimento. Questa volta Marco non aveva gli occhi fissi sullo schermo, ma li spostava dal monitor al touchpad in attesa della normalità o dell’assurdo.

E dopo pochi secondi l’assurdo lo distrusse, tutta la sua vita era ora a un punto di non ritorno, oltre la scoperta per puro prestigio accademico, oltre la struttura sociale del quale era parte, della filosofia, della biologia, oltre tutto il conosciuto.
La formica aveva disegnato con il suo percorso un cerchio perfetto e ora era immobile come a fissarlo.
Allora l’uomo pianse, per un tempo lunghissimo, fino a perdersi in un vuoto silenzioso, in una notte che era già una nuova vita.
Poi ripresosi si alzò dalla sedia sulla quale era sprofondato, rimise l’insetto nella scatolina, se la infilò in tasca e uscì.

Alla fermata del bus lo sguardo scivolò su un adesivo religioso appiccicato a un lampione che proclamava: “Tutto è Dio”.
Era l’alba quando arrivò a casa dei suoi genitori. Si fece prestare la macchina dal padre per andare qualche giorno nella vecchia casa di campagna lasciatagli dal nonno.
Un’ora dopo era già fra gli ulivi e le vigne in cui aveva giocato da piccolo nelle Estati dell’infanzia, quando tutto il mondo è gioco.
Entrò in casa, l’odore era di umido, spalancò le finestre e il Sole tornò a splendere.

Cercò dei fogli di carta, giornali vecchi, libri e una forbice. Trovato quello che cercava si mise a lavoro. In pochi minuti aveva davanti un alfabeto completo in piccoli quadratini di carta. Lo posizionò per bene su un tavolo, poi prese la formica dalla scatolina e la mise di fronte alle lettere. Implorante Marco iniziò a fare domande sulla natura umana, il destino, la vita e la morte.
Lentamente l’insetto si avvicinava a una sillaba, poi a una vocale, mentre il giovane attentissimo prendeva appunti. Dopo pochi minuti l’insetto si fermò e sul taccuino del dottore si potevano leggere le parole: “Cucina un dolce”.

Questa volta tutto era di una follia esilarante, non di quella che urla disperata, ma dei matti che ridono per niente ovunque e comunque. La formica fece come per scalare il tavolo verso il basso e lui si adoperò per richiuderla nella scatolina. Fece un lungo giro per la campagna, era primavera inoltrata e la natura offriva uno spettacolo di colori meraviglioso, fatto di api in cerca di polline sui fiori, di uccelli canterini da albero in albero e migliaia di formiche che facevano le formiche, almeno in apparenza. E poi una lepre, orme di cinghiali, lucertole, falchi, corvi, merli, passeri, pesci nel lago, farfalle, mosche, cani, gatti. Quanta vita c’era tutta intorno.

Si diresse al paese, nessuno lo salutava perché era cresciuto ed erano passati molti anni, ma lui si ricordava di molti di loro.
Entrò in salumeria, anche lì c’erano gli stessi di un tempo, moglie e marito, solo più bianchi e grigi. Comprò quello che credeva fosse il necessario per preparare una torta e se ne tornò a casa.
Ci mise molto impegno, mescolò gli ingredienti, versò il tutto in una teglia e accese il forno elettrico, ma il risultato fu un disco piatto e crudo. Forse però la formica avrebbe gradito lo stesso, così apparecchiò nuovamente sul tavolo alfabeto e torta e fece scendere l’insetto dalla scatolina. I movimenti furono veloci e Marco dovette affrettarsi a prendere appunti sul taccuino, ma non c’erano dubbi, il messaggio era: ”Rifalla”.

Come cavarsela e poi perché?
Fece per allontanarsi, ma si ricordò della formica, allora prese una scatola più grande, di quelle da scarpe e la mise lì in compagnia di un pezzetto di mela.
Uscì di nuovo, questa volta diretto al supermarket a qualche chilometro dal paese. Comprò da mangiare, qualche birra e un preparato per dolci istantaneo con il quale non avrebbe fallito.
Era già pomeriggio quando tornò alla casa di campagna, si cucinò qualcosa di veloce che mangiò mentre leggeva le istruzioni sul retro del preparato per pasticceria.

Poi si mise all’opera, fece tutto come ordinava la ricetta, ciò nonostante il risultato era mediocre. Si sottopose lo stesso alla prova e questa volta si organizzò con due bigliettini sul tavolo con le scritte “Sì” e “No”. Liberò la formica inclinando la scatola e il verdetto fu negativo.
Marco non era certo meravigliato della risposta, lo sapeva, iniziava a capire.
Se ne andò a passeggiare ancora per i campi, uscendo dalla proprietà di suo nonno e avventurandosi per i sentieri che percorrendoli tornava a ricordare. Allora si delineò un’idea e passò per la terra di Carlo che aveva le mucche e prese il latte, poi andò dalla signora Teresa che aveva le galline e le api e che gli dette uova, miele e buoni consigli per cucinare le torte.

E poi su alla torretta dove macinavano ancora il grano a pietra, dove trovò Stefano, vecchio compagno di infanzia, che nel frattempo si era sposato e aveva avuto due figli.
E così di posto in posto prima del tramonto fu di ritorno con le mani che reggevano un sacco carico di ben di Dio.
Era felice, aveva una gioia e una purezza nel cuore come non gli capitava da bambino.
Lieto si mise a preparare il suo dolce, ma questa volta accese il forno a legna. Il fuoco alimentato da fascine odorava di alloro. Finalmente fu tutto pronto per infornare, l’attesa fu breve, le pietre erano ben calde, il profumo si sprigionò per tutta la casa, era pronto. Rosso in volto di una vitalità ritrovata, Marco si sedette un po’ in veranda a godersi le stelle e i suoni della campagna. Poi sereno se ne andò a dormire.

Il mattino venne dolce, la casa aveva ancora quel buon profumo della sera prima.
Il giovane fece colazione con due fette dell’ottima torta preparata, poi prese il restante e la scatola e si avviò per il campo. Arrivato al pino sulla collina poggiò il dolce in terra e liberò la formica.
“Questo è per te” le disse, “grazie di tutto”.
L’aria del mattino era fresca, la gioia gli riempiva il cuore e si sentiva di nuovo in pace con se stesso e col mondo.
Lo sguardo ricadde sulla torta e una fragorosa risata gli salì dalla pancia vedendo le centinaia di formiche che banchettavano col dolce ai suoi piedi.

 

Autore: Massimo Di Nocera
Messo on line in data: Giugno 2012