RACCONTO: UNA VITA SPRECATA di Mafalda Frungillo

Nino era completamente apatico. Doveva andare al lavoro. E questa era una cosa che faceva senza obiettare e, comunque, anche in casi eccezionali. Non vi rinunciava. Era qualcosa che faceva tutti i giorni, dal lunedì al sabato compreso e lo faceva meccanicamente e meccanicamente quel giorno aumentò il passo per non perdere il treno che lo avrebbe portato da Bande Nere fino a… ci avrebbe pensato dopo se scendere a Cadorna, o a Loreto, o addirittura a Precotto. Poteva percorrere parecchie diverse vie per andare al suo stupido lavoro: stupido lavoro che però lui non giudicava tale, perché non lo giudicava affatto. Si lavora per tirare avanti e lui lavorava con grossi sforzi per tirare avanti: la paga era quella di un miserabile, agli ultimi gradini della scala sociale. In fabbrica, ripeteva sempre gli stessi gesti, che duravano poco e la cosa peggiore era che pensava continuamente a quel che stava facendo. Non sapeva a quei tempi, poverino, che dopo venti e più anni, l’avrebbero sbattuto fuori senza un perché e lasciandolo proprio in un’età che, se non sei buono per quello che stai facendo, allora non sei buono neanche più per imparare nulla.

Per andare al luogo del lavoro, invece, non ripeteva mai la stessa strada, decideva man mano quale percorrere, tanto sarebbe sempre comunque arrivato e quindi, meglio decidere sul momento, perché era un uomo che viveva costantemente solo del presente. E il suo presente era lasciare costantemente sua moglie a casa ammalata in un letto. Non si fermava mai a pensare ciò che era Lauretta prima di ammalarsi e che un giorno sarebbe morta, perché così avevano detto i dottori. Sua moglie era solo ammalata, non esisteva un prima, non esisteva un dopo. Punto e basta. Non sapeva che quella larva, sorprendendo tutti, un giorno, avrebbe ripreso a vivere, sarebbe ridiventata una tiranna, avida di denaro, che avrebbe tenuto in pugno troppe persone, compreso lui, che avrebbe ancora seminato discordie e cattiverie, che non si sarebbe mai decisa a dargli un figlio e neppure la fedeltà.

A Cadorna proseguì. A Loreto non scese. A Pasteur si accorse di uno strano individuo. Questo si era alzato da un sedile non molto distante, per andare alle porte per scendere. Nino lo fissò. Non l’aveva visto prima, né salire, né dov’era seduto. Lo vide mettersi una mano nella tasca dei pantaloni per prendere il fazzoletto e vide che nel farlo, senza accorgersene, lasciava cadere un foglietto piegato. Poteva dirglielo. Non lo avvertì. L’istinto gli suggerì di aspettare che scendesse per rubare: tanto era solo un po’ di carta. Osservò meglio la sua vittima e non ci capì nulla. Era un uomo femmina, o una donna maschio? I vestiti, unisex, troppo larghi per dedurre. Il volto informava ancor di meno. Capelli rasati: poteva essere un maschio. Nessun pelo di barba: poteva essere una femmina. Mah!

Lo strano individuo, ignaro, scese, allora prese veloce da terra il foglio e, incurante dei presenti di cui non si rendeva più conto, se lo mise in tasca. Voleva assaporare bene il momento eccezionale capitatogli: era solo un foglio di carta, ma ne era convinto, doveva contenere qualcosa di veramente straordinario, che forse, poteva persino essere utile, per qualche misterioso motivo, nientemeno che alla polizia. Chissà perché, ma Tonino si era fatto questa idea così bislacca.

All’angolo di viale Monza con via Rucellai, attese molto per salire sull’autobus, nonostante ciò, non cedette alla tentazione di aprire il biglietto. Solo salito sulla 44, quando si mise comodo, si sentì sicuro e tranquillo tanto da poter curiosare nella sua refurtiva, anche perché qui era circondato da persone che non sapevano che quel foglio fosse rubato, non sapevano che quel foglio né era stato scritto da lui, né era stato scritto a lui, quindi ora poteva essere nella sua intimità e allora, lo tirò fuori dai pantaloni e lesse:

Monca di raggi,
riflette la luce del suo sole
sul putrido stagno lunare,
immutabile pregiudizio negli uomini.
Nelle viscere
un gambero pignolo
mantiene ripuliti
i segreti accessi:
rifugi incantevoli
per chi non ha paura.

Era una scrittura infantile, sembrava quella di un ragazzino sui dieci, undici anni ed era una poesia. Non capiva più niente. Era come se gli avessero fatto una doccia gelata. Si sentiva interdetto. Osservò meglio il pezzo di carta, un foglio strappato da un quaderno a quadretti, in alto era un titolo: La luna. Non riusciva a capire. Perché l’uomo femmina, o la donna maschio, aveva scritto quelle parole? Erano sue o le aveva ricopiate, da qualche libraccio? Che cosa volevano dire?

Rilesse daccapo e sentì un gran fastidio allo stomaco, fino ad avere un conato. “Putrido stagno lunare”, e vide uno stagno nell’oscurità in un silenzio pauroso, ma non riusciva a scorgerlo bene, bisognava stare attenti a non finirci dentro, sentì una forte puzza… che schifo!
“Un gambero…”, e immediatamente la scena cambiò. Immaginò una vasca enorme piena d’acqua come quelle che ci sono nelle pescherie per il pesce vivo, piena di grossi gamberi. Il loro colore perlopiù era bruno verdastro, ma a un certo punto la sua attenzione venne attirata da uno ancora più grosso, che si era arrampicato fin quasi sul bordo della vasca. Tonino non riusciva a staccare lo sguardo da quella bestia, e più la fissava, più vedeva cambiarne il colore della corazza, sempre meno verde, sempre più bruno, poi il bruno si trasformò in rossastro, e poi in rosso, come se fosse cotto, ma era vivo, vivissimo: muoveva le zampe e anche le sue sottili antenne, faceva molta impressione e cosa peggiore, se ne stava per uscire dalla vasca.

Ma ancora non era finita, Tonino immerso nella sua scena, osservò bene i suoi occhi e con certezza si accorse che quel gambero, sempre più rosso, aveva fra le chele maggiori rimasugli di qualcosa di morto, anzi più precisamente, qualcosa di decomposto.

Rabbrividì ancor di più. Adesso però basta, per lui la luna era solo la luna, il satellite della Terra e basta. E soprattutto, soprattutto non era monca. Scese dall’autobus e si diresse verso un cestino verde. Si fermò e quasi tremante dalla rabbia, strappò il foglio in tanti piccoli pezzi. Voleva essere sicuro che nessuno prendesse più in mano una simile storia e si augurava in cuor suo che non ne esistessero altre copie. Ripensò agli occhi di quell’essere viscido e adesso si accorse che avevano uno strano bagliore. Quella poesia era… la porcheria di un folle. E istintivamente, gli vennero alla mente tutti quegli schifosi scarafaggi di cui la sua casa, era piena. Nino non arrivò a capire che non si trattava della luna in cielo, bensì di una luna a lui sconosciuta, quella dei tarocchi: una filosofia che insegna a guardare la realtà colorandola di fantasia.

 

Autore: Mafalda Frungillo
Messo on line in data: Marzo 2010