RACCONTO: LA POETA di Mafalda Frungillo

Agata era il suo nome di battesimo. Nata nelle campagne lombarde, in una zona dove si produce del buon vino e dell’ottimo spumante, crebbe in una famiglia dove la povertà aveva il pregio di nascondere l’atroce severità dei genitori. Lottò una vita contro i suoi, non tanto per le proprie decisioni prese, quanto per le proprie decisioni cambiate. Era un’irriducibile e lo fu per tutta la sua breve vita.
I tarocchi li scoprì tardi, dopo una vita di sbagli, dopo una vita di disapprovazione da parte di suo padre e di sua madre. A ventisette anni, decise: Farò la cartomante. I suoi amori infiniti la portarono alla miseria peggiore e decidere di fare quel lavoro non fu facile per lei che lo aveva sempre ritenuto un mestiere da poveracci che dovevano inventarsi qualcosa per non morire di stenti (come del resto fu per lei!).

Sua madre, che non aveva mai visto nulla di buono nella figlia dopo che questa aveva abbandonato l’università di giurisprudenza, le disse: “Tu, con quelle carte finirai un giorno, in mezzo alla strada”. Agata ne soffrì per tutta la vita, ma chi se la sente di condannare una madre che non poteva capire il percorso di una figlia difficile, e quindi non poteva vedere chiaro che questa era la vera vocazione di Agata? Fortunatamente Agata vinse. Lei divenne i tarocchi, i tarocchi divennero lei. Nella sua vita, non aveva mai conosciuto una passione così sconvolgente, così duratura e così sempre diversa.

All’inizio si buttò anima e corpo in un mondo fantasioso al massimo, senza badare più a null’altro; dopo, però non molto presto, diciamo dopo circa dieci anni, si accorse di essere dipendente: le sue festività, le sue vacanze non duravano più di ventiquattr’ore. Dovette rendersene conto, perché ragionando capì che la colpa non poteva essere tutta delle clienti se era arrivata a ciò. Allora, decise di abbandonare qualcosa, ma assolutamente non i tarocchi. Si mise a scrivere articoli, e ne fece parecchi, ma nessuno li volle. Neppure quello in cui descrisse ciò che lei definiva la ‘sindrome di Macbeth’. L’idea era giusta e per questo lo riporto come Agata l’aveva scritto, intitolandolo: Macbeth, vittima di profezie.

Macbeth, e qui citava a quale edizione facesse riferimento, perché era una donna estremamente precisa, vittima di profezie, così potrebbe sembrare, ma in realtà non è altro che un pessimo consultante che si distrugge con la propria forza. La sua tragedia scaturisce dal suo comportamento e morendo, maledice “demoni impostori”. Sembrerebbe che le streghe lo abbiano cambiato. Avremmo un Macbeth sincero quando afferma: “Se la mia sorte vuol ch’io diventi re, ebbene: la sorte può incoronarmi senza ch’io muova un dito”… (E’ bene chiarire che tutte le frasi riportate, lo erano nella loro lingua originale e a piè di pagina, vi erano le note con la traduzione in italiano)… e un Macbeth confuso dalle predizioni quando inizia a concepire l’idea del delitto.

Al primo incontro con le streghe, gli viene fatta una sola predizione rispetto al futuro. E’ la terza strega a parlare: “Salute a te, Macbeth, che sarai re nel futuro”. La prima lo saluta con il titolo che gli spetta. La seconda, dicendo “… Salute a te, Thane di Cawdor!” annuncia qualcosa che il protagonista non sa ancora, ma è già decisa. Dice, in effetti, Duncan a Ross nella scena precedente: “Il Thane di Cawdor non tradirà più la nostra amicizia. Sia condannato a una morte immediata. E del suo titolo si saluti Macbeth”. Il protagonista si adegua a pensare e ad agire in funzione di quel “sarai re nel futuro”.

Nulla di più sbagliato… eppure molte persone sono affette dalla “sindrome di Macbeth”. Si accostano all’occulto nella maniera sbagliata. Non interessa loro il presente o il percorso per arrivare al futuro, interessa solo sentire dire che una tal cosa succederà e la predizione serve per calmare le angosce. Non solo questi dimenticano di vivere la quotidianità, ma immergendosi in quel “sarà così”, non fanno neanche nulla per fare in modo che “sarà così”. E’ ovvio che tutto questo non può che arrecare danni, anche perché qualora pure si avverasse ciò a cui aspirano, sarà una realtà ben diversa da quella immaginata e pur sempre una realtà “imprevista”.

Naturalmente chi è affetto da tale sindrome pone sempre le stesse domande per le stesse risposte e cerca di influenzare il cartomante, affinché risponda come desiderato. Quindi, una previsione, positiva o negativa che sia, conoscerla è veramente deleterio. I tarocchi servono per aiutarci a sviscerare il presente occulto, servono a costituire un mezzo di informazione e d’insegnamento. Servono a portarci alla riflessione e non a farci trovare un appoggio per le nostre colpe. Ci sono persone che in una determinata situazione sanno benissimo come comportarsi, ma ciò si scontra con il loro desiderio, allora interrogano i Tarocchi solo per sentir dire questo, allora sono liberi di agire “senza colpa”, perché tanto “era scritto nel destino”.

Banquo interroga le streghe sulla propria sorte e queste rispondono: “… men grande di Macbeth, e più grande!”, “… non così felice, e più felice tuttavia!” e “… padre di re, pur se tu re non sarai”. Subito dopo istintivamente Macbeth, definendole “oracoli imperfetti”, non chiede precisazioni su questa apparente contraddizione, bensì vuol sapere di più sul suo divenire un giorno re, accetta così delle profezie, quel che vuole.

Una delle colpe del personaggio è di non chiarire i propri desideri. I messaggi divinatori lo gettano in uno sballottamento di pensieri contraddittori e giunge persino a definire le profezie: “This natural soliciting”. Nessuno l’ha sollecitato, è una scusa che si è trovato lui! Non ha preso l’occulto come guida, bensì come mezzo, anche se a un tratto lo assale l’angoscia di essere stato usato. “Sul mio capo esse hanno posto una corona sterile, e nella mia stretta uno scettro infecondo che dovrebbero, entrambi, essermi strappati da una mano straniera, poiché nessun figlio nato da me potrà succedermi. Se è così avrei contaminato il mio spirito per la discendenza di Banquo, per coloro avrei ucciso Duncan, dispensatore di grazie, e avrei versato il rancore nella coppa della mia pace! Tutto questo l’avrei dunque fatto solo per loro? E avrei concesso il mio gioiello eterno al comune nemico dell’uomo soltanto perché diventassero dei re, perché la discendenza di Banquo salisse al trono?

La riflessione in Macbeth avviene nel momento sbagliato ed è povera. Si preoccupa tardi sul fatto che qualcuno della discendenza di Banquo possa diventare re. Eppure le streghe l’avevano detto al primo incontro! E reagisce peggio: sbaglia strategia, secondo le profezie non Banquo costituirebbe pericolo, bensì la sua discendenza. Non ha posto alcuna domanda con lo scopo di capire. E se dopo il primo incontro gli rimane almeno la confusione (non si conosce affatto: quando asserisce dopo l’omicidio di Duncan: “S’io fossi morto appena un’ora innanzi che questo fosse accaduto, avrei pur potuto dire d’aver vissuto una vita felice. Ché da questo momento non c’è più nulla di stabile in questo mondo mortale; tutto non è che vanità! La gloria e la grazia sono morte. Il vino della vite è tutto spillato, e possiamo menar vanto più solo della feccia rimasta in cantina”, crede di mentire, ma dice la verità), dopo il secondo dà tutto per scontato e a suo favore. Gli alberi non possono assolutamente spostarsi. Gli uomini non possono non nascere da donna. Nessuna riflessione a seguito di tali apparenti assurdità. Eppure proprio quando le parole divinatorie suonano troppo strane, è necessaria una maggiore concentrazione. Maledice le profezie che dicono e non dicono, ma questa è la loro natura, incompleta e ambigua. Il cartomante legge, ma non è sempre in grado di capire, per il presente e per il passato può, a volte, aiutarlo il consultante, per il futuro lo svolgersi degli avvenimenti. D’altro canto il consultante spesso non è in grado di porre le domande, perché fa parte del problema, e dunque il cartomante deve assumersi anche questo compito e in questo Macbeth è giustificato: nessuno l’aiuta.

Questo articolo non fu accettato, almeno quello in cui paragonava la figura del cartomante al Siddharta di Hesse ebbe un’eco maggiore. Qualche soldo glielo portò. Distrutta, Agata pensò di abbandonare questa infida strada. Non avrebbe più scritto dei tarocchi, ma, idea migliore, avrebbe provato a scrivere dai tarocchi. E divenne, all’età di trentasei anni, poeta. Guardando le figure tirò fuori poesie. La prima che creò, fu fatta dall’osservazione (e dalla conoscenza dei significati) del giudizio. La intitolò La gioia e le venne così:

Muoia la noia
e venga la gioia.
Di vivere,
di guarire,
di morire.
Perché,
comunque,
l’eterno continua.

E questa credo che sia stata la più positiva delle sue creazioni. Invece in un momento di euforia, perché questa donna era o troppo allegra o troppo triste, scrisse quest’altra, Il Mago.

Io sono il mago.
Io sono il prestidigitatore.
Dammi le tue allucinazioni,
i tarocchi
e i tuoi occhi.
Mischio le carte
Con quel che tu mio hai dato,
ed ecco il risultato:
i desideri si realizzano.
Io sono il taumaturgo.

Mentre con il matto ritornò nell’incertezza della sua infanzia. Già la parola scelta per il titolo non è del tutto felice: Impotenza.

Brama e ansia,
il vuoto,
e poi, di nuovo,
il delirio.
ancora,
come quand’ero bambina,
il muro vola.

Il passaggio dall’infanzia alla madre fu breve, e allora nacque nella sua testa La Papessa.

Sola,
lontana,
assente,
si nasconde
a guardare
e
con una punta di cattiveria,
aspetta.

Il passaggio dalla madre alla morte fu ancora più breve.

Mille lampi d’energia.
Un milione di pensieri
che si accavallano.
Il trip.
Mi sfiorano.
Cerco di afferrarli.
Insisto.
Si spezzano.
Li perdo.
Una miriade di volte.
Il delirio finale.
Nella voragine.
Il buio.
la paura.

Invece, in almeno altre due occasioni, abbinò l’arcano con una persona reale e con una qualche opera d’arte. Successe per la diciassettesima carta e per la terza. La Stella,

Limpida,
ovunque sincera
con il suo sorrisino
a pieghe.

E l’Imperatrice.

Due occhi incastonati
in un volto, blu
un naso appuntito,
rosa
infinite labbra rosse.
il magnetismo
dell’irripetibilità dell’anima.

 

Ad un certo punto formulò un nuovo pensiero, prenderli tutti in fila, dal primo all’ultimo, mettendo il matto fra il giudizio e il mondo, come fanno pochi autori, e creare racconti. Così ne fece subito uno.

Nato sotto il segno del cancro, era un uomo speciale, ma anche molto polemico con tutti. Il padre aveva deciso per lui nel lavoro e gli fece intraprendere la strada del rappresentante. Girò così per ogni città. Invecchiando tutto cambiò: la ditta presso la quale lavorava fallì, la moglie lo tradì e chiese pure il divorzio. Una depressione lo colpì e lo allontanò dai figli. Abbandonato da tutti, vinse una superschedina, dalla gioia impazzì e presto morì. Per la sua tomba, misero le sculture dei quattro evangelisti, un capolavoro costosissimo, pagato dai parenti che lo avevano abbandonato, usando una piccolissima parte dei soldi ereditati da lui (che erano quelli vinti con la superschedina).

Entusiasta, ne scrisse subito un altro.

Un uomo molto distinto incontrò una donna bellissima, all’estero. La sposò e con lei ritornò in patria. Soldi e salute proteggevano la coppia che si dava a vere follie nel lusso, ma un giorno lui che era partito solo per motivi di lavoro, ebbe un incidente e morì. La consorte che aveva anche parecchi amanti, visse tale perdita con enorme dolore fino quasi al suicidio, ma un nuovo amante molto sognatore la salvò, insegnandole una strada diversa: quella delle sostanze inebrianti che le permisero di fuggire la realtà e di finire la sua vita senza considerare più la sua vedovanza.

Poi pensò bene di fare un racconto, mischiando le carte. E venne questo.

La morte della madre gli permise di prendere una decisione senza più indugiare: partire lontano, lasciando tutti i suoi debiti insoluti e alla ricerca di una donna che lo capisse e che lo aiutasse a sanare la sua tragica situazione finanziaria. La trovò e con l’inganno la sposò. Il lavoro l’aveva arricchita e per questo lui si sacrificò volentieri. Ma un castigo a lui arrivò, perché questa donna era piena di disturbi mentali, bisognava seguirla come si fa con una bambina e oltretutto aveva un figlio che aveva tenuto nascosto prima delle nozze, a cui aveva già intestato i suoi averi. Le rimanevano poche briciole, e quindi il nostro amico si ritrovò a vivere accontentandosi di un piatto di minestra, o poco più che pagava caro con la sua libertà.

Volle provare allora a leggere in tal senso una configurazione regale. La mise sul tavolo e la trascrisse sul suo quaderno. La chiave di lettura divenne il titolo: La solitudine. Da tutti gli altri arcani maggiori venne fuori il testo.

Lei era una ragazza di buona famiglia, benestante, dove si dava molto peso alla religione e alle tradizioni. Un’educazione dove le regole erano importanti, l’avevano ben formata. Era il gioiello dei suoi genitori. Non aveva voluto studiare, ma per lei questo era un particolare secondario, perché era modesta e si accontentava di fare l’impiegata nella ditta di sua madre e dei suoi nonni, che un giorno sicuramente avrebbe ereditato. Lui invece era un rivoluzionario, un innovatore che nella vita, cercava la novità e che non appena tale sensazione spariva, lui lasciava perdere. Alle spalle una vita piena di donne e di vizi. Non aveva un lavoro fisso, ogni tanto capitava qualcosa, per il resto del tempo si faceva mantenere dai suoi. Si incontrarono e fu subito amore. Da bravo maschio la portò subito a letto. Lui godette, lei no e rimase così per tutta la loro vita comune. Lei passiva, lui superattivo, lei imparò a vivere per attenderlo. La sposò e le portò via la ditta che fece diventare sempre più importante, specie alla morte della suocera. Lei lo sposò per rimanere chiusa a casa, senza mai lamentarsi. Le aveva portato via tutto, ma lei era la donna più felice della terra. Più il marito le toglieva, più era sicurissima di non poter chiedere di più alla vita. Poi un giorno, successe qualcosa di inspiegabile: fu sorpreso in maniera eclatante, sulla sua automobile, con una giovanissima segretaria, mentre compieva atti inequivocabilmente osceni. Fu subito scandalo, ma la moglie non commentò, non disse una parola, andò a dormire tranquilla come tutte le sere, ma non si risvegliò mai più, perché prima di coricarsi aveva ingerito una dose letale di psicofarmaci, che poi risultarono rubati alla sua amica del cuore.

Dopo questo breve racconto, le tornò la voglia di scrivere poesie e ne scrisse una che però, rileggendola le parve essere un elenco di situazioni scollegate fra di loro. Così era davvero improponibile, ma non trovava la soluzione, non sapeva come metterla a posto. Preferì metterla da parte e non scrivere più per circa un anno. All’improvviso, avvertì il bisogno di riguardare quella sua opera un po’ maledetta. Con qualche correzioncina qua e là, l’elenco sparì e il risultato fu grande. Il titolo era La Torre, perché dedicata all’arcano che molti considerano essere il più brutto.

Mentre l’uomo della strada veniva turlupinato,
sua moglie si riproduceva strappandosi il figlio dal corpo,
perché l’amore ha perso tutto il suo magnetismo,
e il padre vince sui suoi figli.
La guida s’è ridotta a un vecchio rimbambito,
e per questo l’innamorato ha tradito,
s’è sentito forte ed è partito,
ma senza saper condurre
il mezzo che ha deragliato: una sciagura,
ma i magistrati se ne fregano. Sono corrotti.
Il solitario non trova più pace nella sua solitudine,
perché l’ago del destino s’è fermato sulla disgrazia:
la violenza più abietta dilaga,
l’incatenato si è liberato ed è fuggito,
richiamato dalle sue vittime putrescenti
che nell’oscurità
sono sorvegliate da guardiani miopi,
e il male se la gode.

Un’opera un po’ strana, ma era contenta di averla scritta. Ora pensò di ritornare a scrivere qualche raccontino. E pensò di farsi dettare qualcosa da un gioco diverso, a forma di stella, sempre usando tutti e ventidue gli arcani. Ne venne fuori questo:

Una malattia lo aveva lasciato esausto, non sarebbe più guarito, avrebbe avuto bisogno per rimanere in vita continue cure e medicinali. Era messo male. In certi momenti avrebbe voluto essere morto. Il suo invece, era un amaro destino: sarebbe vissuto molto a lungo, appeso a un filo. Non se lo sarebbe mai aspettato, e fu una vera sorpresa, quanta forza aveva nell’utilizzare le poche risorse esistenti in lui, senza neppure trovare mai l’appoggio dell’amore di una donna.

Arrivata al perché del gioco, Agata lesse: “In questo momento le cose ti vanno ancora bene, ma tu sei malata!

Non capiva. Cosa c’entrava con il suo racconto. Questo non poteva essere il motivo per cui aveva scritto queste poche righe. Eppure la Temperanza accanto al Diavolo, le suggeriva solo la malattia. Il Mondo, assicurava che ancora le cose andavano bene, ma non dava sicurezza per il futuro, e non le veniva in mente nessun altro significato. Agata pensò: fantasia perversa? E qui iniziò la fine della sua vita. Non trovava più pace, rileggeva parecchie volte La Torre, cercandovi qualche profezia benevola. Si chiedeva come mai finisse con quel … e il male se la gode, senza dare neppure un barlume di speranza? Era un’opera incompleta, ma nello stesso tempo capiva che non si potevano aggiungere altri versi. Così la lasciò. E molto vivacemente pensò di farne la trama di un romanzo. Un romanzo d’orrore. L’idea le piaceva. Inoltre, si fissò che non le sarebbe potuto succedere nulla di così grave, o meglio nulla di mortale, finché l’opera non fosse stata interamente scritta.

Nonostante questo pensiero consolatorio, non tutti i momenti erano buoni. Sì, qualche sintomo fastidioso l’aveva, ma si convinceva che facesse parte dell’aver paura, per cui quando poteva, reagiva non pensandoci. I sintomi si aggravarono e non guardare in faccia alla realtà divenne sempre più difficile. Adesso aveva bisogno che qualcuno, al di fuori di lei, le dicesse: Tu stai bene, non hai nulla, perciò decise di andare a confidarsi con il suo medico: un cancro biondo, così cauto e gentile nel dire le cose, così contro l’uso indiscriminato delle medicine e di qualsiasi esame di laboratorio. Era proprio quello che occorreva per lei. Non le avrebbe fatto perdere inutilmente del tempo, ma quando andò al suo studio, le cose non andarono come aveva voluto immaginare, perché fu immediatamente inviata a fare la visita specialistica in un istituto per la cura dei polmoni. Il risultato fu disastroso: tumore.

Il tumore, la Luna. Peggio ancora al polmone: la solitudine. Come la solitudine? Perché? Viveva sola nella sua casa, ma non era mai stata sola. Aveva le sue clienti che la cercavano a tutte le ore, anche in piena notte, aveva avuto un sacco di uomini: il marito, un uomo stupendo nel carattere, che lei aveva lasciato, perché stanca di vivere in simbiosi, ma in qualche maniera il legame continuava anche ora e lui era sempre pronto ad accompagnarla ovunque. Davanti al tribunale, non si erano neppure separati, anche se, rimasta libera dal marito, si era subito data da fare e per anni era stata molto bene con un uomo del centro Africa, stupendo nel fisico, sempre molto disponibile sessualmente, e questo lo aveva piantato per colpa di un uomo senza nulla di interessante, né bellezza, né professione, un impiegato delle poste, che però conosceva perfettamente la lingua latina. Naturalmente una storia del genere non poteva durare e fortunatamente finì. E non rimase neppure ora sola. In ultimo aveva trovato Andrea.

Troppo giovane, troppo mammone, troppo geloso, troppo fedifrago. Anche se all’inizio questi difetti la portavano a vivere la storia con entusiasmo, era perfino ringiovanita e tornata a ostentare la propria femminilità. Poi, poi, poi… lo mollò… ma ora doveva vincere sulla solitudine, non perché la sentisse, ma perché aveva preso atto della sua profonda solitudine. Richiamò subito Andrea, in fondo era il meno peggio. Lo trovò occupato fra gioco d’azzardo e donne e con una nuova fidanzata ufficiale, giovane, carina e con una chioma che le arrivava sul sedere. Andrea sentita la sua vecchia fiamma, vecchia in tutti i sensi, non esitò a mollar tutto, compreso la “bellissima”, mandando a monte un matrimonio che non avrebbe avuto nulla di buono, per tornare a stare con lei.

Agata stava di nuovo meglio. Non sarebbe morta, avrebbe vissuto ancora tantissimi anni. Andrea l’avrebbe aiutata, l’avrebbe seguito in tutti quei luoghi e quelle feste che lui adorava. Inoltre, lei avrebbe scritto il romanzo sulla Torre. Il secondo motivo era il più importante, per questo non sarebbe morta. E persino i sintomi della malattia erano diminuiti. Agata aveva confessato ad Andrea di essere malata, ma senza raccontare la verità. Aveva paura di spaventarlo, non però di perderlo. Lui dal canto suo, pur credendole, prese la cosa seriamente cercando di esserle più vicino possibile. Rinunciava volentieri con lei alle sue cattive abitudini. In effetti, bisogna dire, che quando erano assieme, lui non l’aveva mai tradita, e neppure correva a giocare d’azzardo. Sembrava veramente che fossero due uomini diversi, e uno dei due Andrea l’aveva costruito per Agata con molta dedizione e senza bugie. Ora, di nuovo insieme, la vedeva diversa da come la ricordava, anche se erano stati distanti solo un paio d’anni.

Era carica di gioia, piena di vita e mai stanca. In realtà Agata stava cercando di ingannare chi… non sapeva neanche lei chi. Andrea era al settimo cielo. Per la fine dell’anno, volevano festeggiare, perché fosse di buon auspicio per il loro amore, ripreso da tre mesi. La cartomante chiese al suo giovane amico di portarla dove vi fosse molta confusione e trasgressione, e il ragazzo trovò un luogo che faceva proprio al loro caso. Il mattino del 31 dicembre, il tempo era stupendo, il cielo un grigio meraviglioso, che rendeva le foglie dei sempreverdi di una tonalità ancora più aspra. Quel grigio che promette, senza poi necessariamente mantenere, neve. Agata, in quei colori, lasciava correre la sua anima. Era stata in centro e poi nel parco. Mentre lentamente camminava, aveva visto a terra un foglia rossa e si ricordò quando, vari anni prima, aveva percorso un lungo viale d’alberi con rami ancora carichi di foglie di un rosso vivace. Questo era successo in un novembre, mese dei morti. E benché, gli alberi perdano le foglie ogni autunno, lei una tale occasione la visse una volta sola.

Si sentiva veramente bene. Incontrò parecchie persone che conosceva e chiunque, quel giorno, la trovò solare, sembrava quasi che avesse dieci anni di meno. Anche Andrea ebbe una simile sensazione quando andò a prenderla per uscire a festeggiare. Lei lo accolse con un sorriso sincero che le proveniva dal cuore. Aveva messo un vestito chiaro, sul nocciola, e aveva faticato a trovare scarpe e borsetta della stessa tonalità, ma ce l’aveva fatta. Il risultato piacque al suo fidanzato, perché Andrea ci teneva all’eleganza e al lusso. Prima di portarla fuori, la guardò a lungo, l’abbracciò, l’accarezzò e le baciò il collo. La riallontanò da sé per osservarla nuovamente e considerò, con un po’ di preoccupazione, quanto fosse dimagrita, anche se grassa non lo era mai stata. Non disse nulla, ma si lamentò per l’eccessiva scollatura e la leggerezza del tessuto, non per gelosia, anche perché lui era un tipo che quando aveva una donna, ci teneva a mostrarla agli altri senza porre limiti, ma non trovava giusto che una persona che non era neppure del tutto guarita da una brutta polmonite girasse così. Le sue proteste non servirono però a nulla. Arrivarono in quello strano locale, un posto quasi irreale, specie per Andrea, ma che pensava andasse bene ad Agata. C’era un gran miscuglio: uomini e donne, ricchi e non, mascherati e non mascherati, e prezzi quasi a portata di tutti. E poi una gran folla. Camminavano mano nella mano, quando Andrea sentì Agata chiamare qualcuno:
– Black!
– Agata!
– Ti ho visto io per prima!
– Non vuol dire niente.

Andrea si voltò di scatto, impaurito. Guardò quel Black, capendo subito che doveva essere un soprannome, perché lo vide vestito di nero, da capo ai piedi. (In effetti aveva indovinato, era per questa sua abitudine che lo chiamavano così, e questo succedeva anche quando era giovanissimo). Avrà avuto più o meno la stessa età di lei, aveva i capelli grigi, era un fisico asciutto ed era alto una spanna più di lui. Andrea si stava confondendo.

– Non vuol dire niente che mi hai visto tu per prima.
– Vuol dire, vuol dire…
– Intanto, tu sei sparita da parecchio tempo…
E Black guardò l’altro. Andrea era completamente fuori di sé. Lei non gli aveva mai parlato di questo tizio. Come era possibile che fosse accaduto ciò? La gelosia lo stava rodendo.

Black era bello. Con tratti marcatamente maschili. Agata lo conosceva da oltre venti anni, avevano fatto il liceo assieme e anche parte dell’università. Non erano mai stati innamorati uno dell’altra, forse perché sin dagli inizi della scuola, si era stabilito fra di loro un patto tacito di fratellanza. Nonostante ciò, c’era stato un momento in cui Black avrebbe voluto almeno un’avventura, ma il desiderio non si realizzò perché Agata non gli cedette, preferendo schiacciare il proprio desiderio a favore del loro patto. Agata era ben conscia di subire il fascino di quell’uomo, perché provava una gioia prorompente davanti al fatto che lui non trovasse una donna fissa.
– Questa notte sarà la mia notte. Ho portato con me la rivoltella… Posso spararti?
– Sì, Black, sparami!

Andrea era esterrefatto, si sentiva un cretino, davanti a questi due che pensavano a giocare come adolescenti. Riuscì solo a farfugliare un:
– Questi scherzi non si fanno!
Ma loro neanche si accorsero che aveva parlato.
– Sparami Black!

E lui sparò.
Il proiettile ignorato le attraversò un polmone. Andrea vide in una frazione di secondo crollare il suo grande sogno e con sé sbriciolarsi la propria giovane vita. Per anni gli rimase nelle orecchie l’urlo bestiale di morte di Agata. Un urlo straziante. Ci volle parecchio, prima che si rendesse conto che quel grido non era stato della sua fidanzata, che in un baleno era caduta a terra, con il suo bel vestito nuovo, sporco di sangue, e che perdendo i sensi, la sua gola aveva emesso un flebile sibilo, bensì era di Black, che pure il dolore stava accasciando a terra.

 

Autore: Mafalda Frungillo
Messo on line in data:  Giugno 2010