LAMIA E LILITH DI KEATS di Redazione

I molteplici aspetti della donna in Keats

Uno dei capolavori del Romanticismo inglese è rappresentato dal poema intitolato Lamia, di John Keats. Un capolavoro, poiché nella figura della protagonista si addensa una tradizione millenaria che rispecchia le diverse fasi del ruolo della donna nelle tempo e nello spazio. Leggere Lamia e studiarne i retroscena culturali, significa aprire cuore e mente ad un panorama sorprendente che fornisce spunti di riflessione singolari e, al tempo stesso, importanti per comprendere meglio la “storia della donna” e della sua valenza nel mondo.

Nella prefazione all’opera, la Norton Anthology of English Literature definisce la figura di Lamia come risalente all’antica demonologia: “Ella era un mostro dalle fattezze umane che rapiva gli esseri umani e li rendeva sue prede”. Ma il termine, nei secoli, ha assunto le più svariate sfumature e le più disparate accezioni: da quelle più diaboliche e negative del mondo classico a quella più romanticheggiante dipinta da John Keats.

La Lamia originariamente identificava una serie di figure non umane: una strega che succhia il sangue dei bambini, una seduttrice maligna, una specie di civetta, un pesce, ecc… Il suggerimento che deriva dal Women of Classical Mythology rimanda alla figura mitologica di Lamia nell’antichità greca:

Le lamiae erano figure semi umane e semi animalesche, terribili rapitrici di bambini, affascinanti fantasmi che, con sensualità strategica, adescavano giovani uomini nei loro letti. Lì esse si rinfrescavano succhiando il sangue fresco ed innocente delle loro vittime per poi terminare il pasto divorando la loro carne”.

Secondo il mito originale, Lamia era la bellissima regina della Libia che riuscì a conquistare il cuore di Zeus. Questo scatenò le ire di Era, che si vendicò uccidendo i figli nati dall’unione di Lamia con Zeus. Distrutta e umiliata, Lamia si ritirò in una grotta e cominciò a sfogare il suo dolore divorando i figli appena nati di madri umane, solitamente succhiando il loro sangue alla stregua di un vampiro. Questi atti demoniaci presto trasfigurarono la bellezza divina di Lamia che, dal canto suo però, non perse mai l’abilità di tornare nel suo aspetto originario per sedurre gli uomini da lei presi di mira e berne il sangue.

Filostrato, in Vita di Apollonio, narra di uno studente di Apollonio – Menippo – innamorato di una bellissima e ricca donna che si presenta a lui inizialmente attraverso un’apparizione. In questo modo ella gli suggerisce dove si trova e come egli può raggiungerla. Ma, quando Menippo ne parla con Apollonio, questi lo avverte che, con ogni probabilità, la donna non è altro che una lamia, ovvero una sorta di vampira devota ad Afrodite che seduce gli uomini per poi divorarli. Le lamiae, all’epoca, erano quindi spaventosi spiriti che uccidevano bambini e seducevano uomini durante il sonno.
Il nome Lamia è associato, quindi, a diverse tradizioni di geni femminili malefici: a una delle figlie di Positone che, unitasi a Zeus, generò la Sibilla libica; a una figlia del libico Belo, anche lei amata da Zeus; nel Medioevo la lamia incarnava in senso generico la strega, la megera o l’incantatrice benefica. Nella tradizione della Cappadocia, invece, il Culto di Lamia fa riferimento alla prima sacerdotessa del culto di Lilith, detta anche la Madre Oscura.
L’estrema somiglianza tra la definizione che vuole Lamia come un mostro abile nel trasformarsi in una splendida donna e la figura di Lilith non è affatto accidentale: entrambe personificano l’immagine caratteristica della “femme fatale” o del “la belle dame sans merci”, archetipi particolarmente cari alla tradizione romantica. Lamia appare così come trasfigurazione romantica dell’archetipo di Lilith.

La figura di Lilith, similmente a quella di Lamia, sottende diverse tradizioni ed è presente in molteplici racconti.
La prima comparsa del suo nome avviene nel mito Sumero, dove ella rappresenta una figura demoniaca di sesso femminile, che abita luoghi appartati nel Giardino della dea sumera Inanna, il cui nome significa “Regina dei Cieli”, precursore del babilonese Ishtar.

Lilith è, quindi, anche chiamata “la Donna Oscura” ed è associata alle civette o ad altre creature della notte. Una lastra babilonese, poi, la raffigura come una bellissima donna alata, con piedi animaleschi e artigli d’uccello.
La leggenda narra che Inanna – dea dell’amore e della guerra – piantò un albero chiamato huluppu, con la speranza di farne il suo trono e letto; esso, infatti, avrebbe rappresentato l’infinito potere della dea e la sua femminilità. Ma Lilith si appropriò dell’albero e ne fece un simbolo delle paure di Inanna. Fu l’eroe Gilgamesh a spodestare Lilith e a permettere a Inanna di riconquistare il suo trono.

La figura di Lilith è comunque meglio conosciuta nella tradizione ebraica, come prima moglie di Adamo. Il mito la vuole nata assieme a lui dalla “polvere della terra” e diventata, poi, sua prima moglie. Ella appare subito come figura estremamente capricciosa e caparbia e, rifiutate le proposte erotiche del marito e di soggiacere inerme sotto al suo corpo, lo abbandona. Per questo viene cacciata dal Paradiso, alla stregua di Lucifero (in questo senso Lilith è figura associata al male e demoniaca) ma, prima che Dio crei Eva, Egli le invia tre angeli per convincerla a tornare da Adamo. Lei rifiuta l’invito e, per questo, Dio la maledice sentenziando che ogni giorno muioano100 bambini della sua progenie. La vendetta di Lilith per la maledizione subita sfocia, così, nel rapire ed uccidere bambini umani; ed ecco da dove deriva l’accezione alternativa al suo nome di “Civetta gracchiante” o “Creatura della notte”.

Lilith è quindi menzionata nella Bibbia: quando il dio ebraico Yahweh minacciò la distruzione del regno di Edom, la “creatura della notte (…) restò in quel luogo e ne fece il suo rifugio” (Libro di Isaia, cap.34 v. 14). Da qui ella eredita il suo ruolo di ambasciatrice di lunghi periodi di desolazione e di paura. Sempre nel mito ebraico, Lilith incarna anche la figura dell’incantatrice senza scrupoli che rende succubi gli umani inducendoli, durante la notte, a sogni strani per poi succhiarne il sangue al fine di auto-rigenerarsi.

Attraverso secoli di formulazioni e riformulazioni della figura demoniaca, oggi Lilith è archetipo di tutte le donne dal carattere deciso che, pur confidando nella propria abilità sessuale, rifiutano di subordinarsi ai loro uomini e preferiscono abbandonare i loro comodi talami (il Paradiso), pur di non soggiacere alle volontà altrui. Questo dimostra che, sebbene le origini mitologiche di Lamia e Lilith siano diverse, esse si mescolano in modo quasi complementare: entrambe sono dotate di poteri sensazionali, come terribili incantatrici e demoniache al tempo stesso.

Nell’opera di John Keats, fin dalle prime pagine, Lamia viene presentata nel suo corpo di serpente, che è il pesante involucro della sua precedente esistenza di essere umano. Keats non dice esattamente perché Lamia sia intrappolata nelle sembianze di un anfibio ma, verso la fine del testo, fa intendere una sorta di maledizione indotta da un dio. Lamia non viene mai etichettata come “maligna” e/o immorale; anzi, ella appare come una dolcissima donna innamorata, intrappolata in un corpo che non le appartiene. Il lettore, di conseguenza, è portato a provare una profonda simpatia per la protagonista, se non addirittura empatia, grazie alle parole estreme e intense dell’abilissimo suo creatore. Gli aspetti negativi e demoniaci di Lamia non scompaiono del tutto e sono lì, dietro le quinte, come una minaccia che grava sulle sue spalle. Il suo aspetto fisico è sgradevole e la scrittura lo pone in rilievo, come fosse un terribile marchio per una colpa passata da espiare. Ma tutto ciò passa in secondo piano rispetto alla densità di emozioni che Lamia fa traspirare da ogni suo gesto o parola. Lungo le curve della pelle ruvida e attraverso i colori forti del corpo martoriato, ogni cellula sembra risuonare del dolore che dilania la povera protagonista e dell’amore che la distrugge, risucchiandole l’ossigeno.

Il racconto è intriso di una ricca simbologia che rimanda a elementi e a collocazioni paradisiache. Questo è manifesto nella storia della splendida ninfa che ha fatto perdere la testa a un dio. Subito, infatti, ella incontra Hermes, angosciato dalla scomparsa della sua amata ninfa. È stata Lamia ad aver nascosto la naiade da sguardi indiscreti che avrebbero potuto dissiparne la bellezza. Ed è in cambio della restituzione della fanciulla che lei riesce ad ottenere dal dio le sue sembianze umane, necessarie per ritrovare Licio, il giovane di Corinzio.
Lamia parla ad Hermes col cuore in mano, dicendogli: “Ero una donna prima (…), permettimi di esserlo di nuovo, per una volta sola, ridammi le mie sembianze umane e ridonami il mio antico fascino. (…). Io amo un giovane di Corinzio. Oh, t’imploro! Restituiscimi le mie sembianze di donna e conducimi lì dove lui si trova!”. E, nello scambio che segue l’incontro con Hermes, ella agisce come una vera e propria dea: profonde il suo angelico respiro sul corpo magnifico del dio e gli dona la vista della ninfa, ricordando l’atto che accompagna la nascita di Adamo attraverso il fiato divino. Perfino la ninfa richiama la figura di Lilth, grazie ai suoi capelli “decorati con ornamenti soprannaturali”. Non dimentichiamo che Lilith è famosa per trarre forza e potere dai suoi capelli.

Lamia è ricondotta così al suo archetipo greco da un lato, e dall’altro a Lilith come prima moglie di Adamo: “(Lamia) sembrò in un istante una specie d’elfo pentito, l’amante del diavolo, il diavolo in persona”. I tre termini in successione richiamano la leggenda di Lilith nella fonte babilonese: l’aggettivo “pentito” rimanda alla figura di Lilith e alla sua punizione inflitta da Dio; l’espressione “amante del diavolo” richiama il ruolo di Lilith come moglie del Demonio e la definizione di Lamia come “il diavolo in persona” si riferisce ai testi dello Zohar, dove Samael e Lilith sono descritti come le due metà del male.
Ironia della sorte vuole che Licio, a differenza del lettore, non sappia che la sua amata non è una “vera donna”. A differenza di Lilith, ella sembra perfino non discendere da alcuna stirpe e da nessun seme. Per questo l’autore la paragona a una “ricca orfana” che, pur non avendo un padre, è stata dotata di una bellezza senza pari.

Ogni cosa in Lamia viene portata all’estremo, dalla scrittura che la racconta, alla descrizione della sua bellezza che risulta eccessiva ed eccedente al tempo stesso: Lamia suscita lacrime negli occhi degli uomini che la guardano e, durante la sua esistenza come serpente, tutta la natura si inchina al suo passaggio, perfino l’erba appassisce sotto al suo corpo. L’unione tra Licio e Lamia è fortissima, descritta a tinte estreme, potentissima. L’amore si nutre della loro reciproca e intensa gelosia e, quando Lamia viene svelata da Apollonio, ella svanisce nel tempo portando con sé anche il suo amato Licio.

Lamia incarna anche una doppia valenza, simile a quella di Lilith che “dà la nascita a cento bambini al giorno e ne uccide in un giorno altrettanta centinaia”. Lamia è una vergine, ma molto esperta nei giochi d’amore. L’autore la chiama “vergine”, ma allo stesso tempo “sensualissima”, le sue parole sembrano sgorgare attraverso “miele bollente” e la sua canzone è “fin troppo dolce”. Eppure ella è definita “dolce e amara”. Ogni qualità della donna-serpente è amplificata e contrastante; forse per questo confonde la mente di Licio che ne resta profondissimamente stregato. Lui, infatti, le confessa da subito che non potrà mai fare a meno di lei, perché la sua presenza lo colma e la sua assenza sarebbe peggio che provare “centinaia di seti” tutte assieme. Licio è consapevole che morirà assieme a lei e che il solo ricordo di lei è in grado di ucciderlo. L’uno diventa prolungamento dell’altro: è come se Lamia, avendo chiesto indietro un corpo che non le apparteneva più solo per amore di Licio, leghi a sé il suo amato in una sorta di incantesimo reciproco. Avendo la presenza di Licio indirettamente rievocato la vita a Lamia, la vita di Lamia si fonde magicamente con quella di Licio, fin oltre la morte.

Significativo è il collegamento che sorge tra la figura di Lilith e quella di Lamia attraverso l’uso dei nomi, identificati come luogo di forza e di potere: se Lilith riesce a liberarsi dall’oppressivo Adamo pronunciando il nome sacro di Dio e le partorienti a proteggere i loro futuri nascituri dalla grinfie di Lilith scrivendo i nomi dei tra angeli Snvi, Snsvi e Smnglof sui loro letti, allo stesso modo Licio interroga Lamia sul suo nome la cui importanza è rafforzata dalla reticenza della fanciulla a svelarlo. Licio, infatti, le dice:

Sono certo che tu abbia un nome dolcissimo
sebbene, in verità, io non te l’abbia mai chiesto
Poiché penso che tu non sia una comune mortale
ma discendente di una progenie celeste
E così continuo a credere
Potrebbe mai un nome comune
rappresentare un corpo così abbagliante?

Lamia, a questo punto, elude ingegnosamente la domanda e rivelerà il suo nome solo parecchio tempo dopo.
Il nome è il mezzo principale di espressione della donna-serpente. Esso agisce come un involucro sottile ed etereo ma allo stesso tempo palpabile e penetrante, attraverso il quale ella emana la luce del suo Io più profondo, quella che solo un occhio esperto e un animo sensibile sarebbero in grado di intravedere sotto alle sue fattezze animalesche. Quando, il giorno del suo matrimonio, il filosofo Apollonio entra nella sala regale e la chiama per nome: “Lamia!”, la sua bellezza comincia ad appassire e lei appare come “mortalmente pallida”. Gradualmente la sua luce si estingue, man mano che Apollonio parla con Licio, suo allievo prediletto; fino al momento in cui il filosofo, crudelmente, appella la fanciulla come “serpente”.

La parte finale del poema, quindi, simboleggia un movimento di lenta e dolorosa rivelazione della vera identità di Lamia. Apollonio agisce come specchio deformante e allo stesso tempo ferocemente realistico, la cui voce rimanda l’immagine del vero corpo di Lamia in essa riflesso. Così, se Goethe nella sua poesia Die Braut Von Korinth riformulò la figura di Lamia semplicemente cancellandone la natura di “mangiatrice di bambini”, John Keats ne trasformò la profonda essenza. Pur serpente ed evocatrice del male nelle prima pagine, ella cambia pelle di secondo in secondo, facendo trasparire quanto di più bello, dolce e divino nasconde sotto le squame. Incantatrice e seduttrice di uomini, non fa del suo corpo un mezzo di conquista fine a sé stessa ed, anzi, mescola bellezza e fascino col sottofondo della sua voce che, meravigliosa, disarma ogni cosa.

 

Autore: Redazione
Messo on line in data: Giugno 2005