RACCONTO: ROSSO PORPORA di Graziella Caropreso

La casa era lì, i permessi erano tutti pronti, l’architetto, il geometra, l’impresa edile, ma soprattutto Lucrezia fremevano per dare l’inizio ai lavori. C’erano voluti ben due anni per avere tutte le carte pronte, con la burocrazia lentissima che c’è in queste cose e la pazienza, sempre meno, della diretta interessata, si era arrivati finalmente al punto di poter cominciare.
La mattinata soleggiata, l’aria fresca di primavera e la squadra pronta al lavoro, lasciavano presagire un buon inizio. Lucrezia era arrivata in anticipo, praticamente al sorger del sole, aveva addirittura saltato la colazione per l’eccitazione; si aggirava per le macerie, i muri pericolanti e la vegetazione infestante che per mezzo secolo aveva potuto campare in pace, fino ad oggi, fino all’arrivo della ruspa, già parcheggiata sulla stradina. L’entusiasmo non mancava di certo, la fantasia nei due anni d’attesa aveva galoppato; Lucrezia aveva visto e rivisto svariate volte nei suoi sogni, di notte come di giorno, la sua casa completamente ristrutturata, nei minimi dettagli; aveva immaginato tante volte anche l’arredamento, il giardino con le piante e tutti gli arredi al loro posto. Si era vista leggere un buon libro sotto al pergolato d’uva, giocare coi cani sul prato e via dicendo…

Adesso la guardava in silenzio. Entrò dalla porticina in cortile che tante volte aveva varcato, scavalcando sassi e rovi; la luce era poca e le ragnatele tante, come al solito, andò a sbatterci il viso mentre passava sotto l’arco che portava in una grande stanza, scese qualche gradino della scala in pietra, che intendeva ricostruire con le vecchie pietre, recuperate lì intorno. Tutto sarebbe dovuto tornare agli antiche splendori: una vecchia casa colonica, con tanta vita dentro e fuori, vita di campagna. Chissà com’erano le persone che avevano abitato lì, in paese nessuno li conosceva, neppure le persone più anziane che ricordavano tanti fatti accaduti sulle colline. Era chiaro che qualcuno vi aveva abitato molto prima, ma tutto sembrava abbandonato da tempo immemorabile, quando Lucrezia, in una delle sue passeggiate nei boschi, vi si era imbattuta.
VENDESI, il cartello attaccato alla catena parlava chiaro: quel “bel di Dio” era in vendita; pur malridotta, emanava un fascino incredibile, camminando lì intorno si poteva sentire un alito antico, come una voce che la chiamasse, all’interno della costruzione.
Lucrezia ricordava di aver avuto timore nell’entrare, sembrava che il tetto (o ciò che ne restava), potesse crollare da un attimo all’altro. Rischiando, decise di entrare ugualmente e quando si trovò di fronte i colori porpora del panneggio, le colonne giallastre sbiadite, rimase folgorata! Si trovava davanti ad un antico affresco, molto rovinato, difficile percepire la scena, ma con una torcia forse si sarebbe visto un po’ meglio. Da quel momento, non ebbe più pace, la frenesia con la quale compose sul cellulare il numero dell’agenzia immobiliare, la ricordava ancora oggi: continuava a invertire i numeri sulla tastiera, sbagliando, per ben tre volte, le tremavano le mani e il cuore batteva forte.

Storia vecchia, ormai aggiudicata la casa e trascorsi i tempi tecnici di queste cose, oggi finalmente la vita era a una svolta. Tornò alla macchina a prendere il telefonino che sentiva suonare all’impazzata. L’architetto annunciava il suo arrivo in lieve ritardo, il traffico sull’autostrada era rallentato da un incidente, contava di arrivare entro una mezz’ora. Lucrezia pensò, “il tempo di un caffè al bar in paese”, la colazione saltata si stava facendo sentire.
All’angolo della piazza il camion dei muratori era fermo, dentro al bar li trovò tutti intenti a far colazione prima dell’inizio dei lavori. L’accolsero sorridendo e prendendola un po’ in giro per l’evidente ansia dipinta sul volto. L’atmosfera scherzosa fu rotta da una vecchietta che entrando nel locale chiese insistentemente “di quale colore fossero le tende”. Non capendo il senso della domanda, tutti la presero per una svitata e non le badarono più di tanto; finiti i caffè, i muratori partirono alla volta della casa per iniziare la prima giornata di lavori. Lucrezia rimase ad attendere l’architetto per recarsi insieme sul posto. Una strana inquietudine però l’aveva pervasa, la vecchietta, le si era fatta vicina e a bassa voce, continuava a farfugliare di colori della stoffa, di tende, di panneggi…
Lucrezia non voleva fastidi, oggi proprio no, oggi era il gran giorno, non poteva perdersi in sciocchezze del genere. Uscì dal locale e si incamminò per la strada dove sperava di incontrare al più presto la macchina dell’architetto, invece da una finestra le cadde addosso un panno steso ad asciugare. Lo raccolse, suonò il campanello per avvertire dell’accaduto ma non rispose nessuno, così lo legò alla maniglia della porta d’ingresso e riprese il cammino.

Malgrado il piccolo incidente, tutto filava liscio; la Panda verde dell’architetto spuntò velocemente da dietro la curva, Lucrezia si sentì sollevata, fece cenno di fermarsi e Antonio scese, scusandosi ancora per il ritardo. Non importava, ora la squadra era al completo, si poteva finalmente ripartire e recarsi alla casa. Risalirono sulle rispettive auto dirigendosi verso la casa, la giornata serena si era intanto offuscata, il cielo diventato biancastro, e salendo per la collina una nebbia sempre più fitta li colse di sorpresa. Era piuttosto insolito per la stagione quel cambiamento di clima repentino, dopo il secondo tornante si aprì uno spiazzo, uno spiazzo? E da quando lì la strada si allargava? Possibile che avessero sbagliato? No, non era possibile, l’avevano percorsa così tante volte, anche con la nebbia; addirittura con gli occhi chiusi, Lucrezia non si sarebbe mai persa in quella strada. Parcheggiarono le macchine, si guardarono in faccia sbigottiti, eppure la strada era quella, fino al secondo tornante non c’erano proprio dubbi. Il camion dei muratori doveva per forza esser passato da lì, ma dove era proseguito? L’architetto, a rischio di passar per stupido, decise di fare uno squillo al capocantiere per capirci qualcosa, ma si accorse che da lì il cellulare non prendeva, anche Lucrezia provò spostandosi qua e là, ma niente da fare, non c’era segnale.

I due si avviarono a piedi per un breve tratto, come a voler ignorare l’accaduto, sperando di svegliarsi all’improvviso da uno strano sogno.
“Avete visto di che colore sono le tende?” Entrambi si voltarono di scatto: la vecchietta del bar era lì, riproponendo la stessa questione del colore di certe tende, le chiesero chi fosse e cosa intendesse dire con questa domanda. La tipa strampalata si definì un’abitante dei boschi senza scendere in altri particolari, disse che era interessata al colore di un tendaggio rappresentato sull’affresco dentro una vecchia costruzione… Disse che anche a loro avrebbe dovuto interessare molto la questione, anzi che proprio loro erano i diretti interessati.
Lucrezia e Antonio, a questo punto veramente sgomenti e anche un po’ spaventati, la assecondarono: se si riferiva all’affresco della casa di Lucrezia, i panneggi che si intravedevano erano di color porpora. La vecchia arretrò con uno sguardo sorpreso sul viso, Lucrezia e Antonio sempre più scossi, chiesero spiegazioni, stavolta con una certa veemenza. La vecchia dunque si decise a raccontare una storia incredibile: quasi quattrocento anni prima la zona era ricoperta di alberi di nocciolo, li si usava per vari scopi; tutti coltivavano questo albero per usi alimentari e non solo. Si diceva di una fanciulla dalle abitudini un po’ inusuali per l’epoca, non che fosse considerata una strega, ma veniva comunque guardata con sospetto per il suo rifiuto a maritarsi, essendo di gradevole aspetto e di umili origini, aveva rifiutato tutti i giovani che le si erano proposti e, nessuno ne capiva il motivo, soprattutto perché la ragazza di buona indole si adoperava nel borgo per aiutare la gente. Conosceva l’arte di preparare tisane e infusi miracolosi per la cura di tante malattie, cosa che deponeva a suo favore, ma che entrava in contrasto con la sua ostinazione a rimanere zitella.

La sua casa era, come molte altre, circondata da noccioli, ma i suoi alberi non erano quelli usuali, bensì avevano una strana forma: i rami si contorcevano in modo incredibile, sembravano serpenti e pur essendo ben produttivi di frutti come gli altri, quell’aspetto insolito insospettiva la gente, che non ne aveva mai visti di simili. Il padre della ragazza infatti non originario di quella zona, li aveva piantati lui stesso al suo arrivo in paese tanti anni prima; poi era morto di vecchiaia e sì che era vecchio davvero, molti dicevano ultracentanario, ma forse si trattava di una diceria. La ragazza, rimasta sola, non si era persa d’animo e aveva continuato la vita di sempre, compiendo da sola tutti i lavori e cavandosela davvero bene. Coltivava moltissime erbe officinali per fare i suoi medicamenti e se ne andava in giro dispensandoli a tutti in cambio di niente, sempre adornata di collane fatte con le nocciole di quegli strani alberi…
Lucrezia e Antonio sgranavano gli occhi a sentire quei racconti, ma la vecchia continuò: pare che un giorno la fanciulla fu vista correre in paese con addosso una veste rosso porpora, e che non rispondesse ai richiami e ai saluti di nessuno, correva velocissima e prese la direzione del bosco fino ad inoltrarvisi, sparendo fra alberi e cespugli, sparendo per sempre.
La casa, rimasta disabitata, andò lentamente in rovina, le erbe crebbero a dismisura, le edere si attaccarono ai muri e ai rami contorti dei noccioli, che negli anni seccarono; nessuno la abitò più e col passare dei decenni il bosco si riappropriò di quella zona. Pare che un paio di secoli dopo un enorme incendio devastò tutta la collina e la vallata: non riuscirono a domarlo che dopo giorni e giorni, la gente lasciò le case e i campi e non tornò più in quella valle di desolazione. Tutto fino all’inizio del ‘900 quando ormai dimenticate le tracce dell’accaduto, molti contadini e pastori si riappropriarono delle vecchissime case, e gli antichi borghi ripresero vita. I noccioli furono sostituiti da altre piante, principalmente si coltivava la vigna o si lasciava a pascolo per le capre.

Ora che la vita di campagna era tornata di gran moda, la maggior parte di quelle cascine, fienili o altre costruzioni rurali erano state già adibite ad abitazioni di lusso, si vedevano piscine, giardini raffinati o agriturismi che erano sorti come funghi. A quel punto Lucrezia ebbe un capogiro, si sentì mancare, tutto vorticò intorno a lei ed Antonio fece appena in tempo a sorreggerla, per non farla cadere a terra di schianto.
Un ronzio forte di insetti la svegliò, in primavera era normale, con tutti quei fiori selvatici di campagna, senza inquinamento, era pieno di farfalle, bombi e sdraiata nell’erba Lucrezia era stata svegliata da quei piacevoli rumori. Accanto a lei il capocantiere le sfoderò un sorriso da pubblicità, “Allora come va la bella addormentata?” Lucrezia ci mise qualche attimo a rendersi conto della situazione: doveva essere il primo pomeriggio, la temperatura mite di primavera e l’erba tenera, avevano favorito il suo sonno. Tutti l’avevano lasciata dormire in pace, mentre la squadra aveva iniziato i lavori, si alzò frastornata ed entrò nella casa, nel salone dell’affresco si girò attorno un paio di volte, ma non c’era proprio nessun affresco; uscì di corsa cercando Antonio per avere spiegazioni e dalle fronde di un nocciolo dai rami contorti, vide sventolare un panno rosso porpora. Il vento rafforzatosi lo fece volare portandolo via in alto nel cielo, dove sembrava proprio un grande uccello che se ne volasse via da lì per sempre, avendo trovato pace; Lucrezia tornò indietro lentamente raccogliendo fiori di tarassaco, aveva sentito dire che era una pianta dalle molte qualità curative; se ne appuntò anche qualcuno sul vestito rosso porpora.

 

Autore: Graziella Caropreso
Messo on line in data: Maggio 2006