RACCONTO: IL MIETITORE di Giovanni Soriano

Partendo da uno degli innumerevoli piccoli paesi che si susseguono lungo la Riviera degli Ulivi e seguendo una mulattiera che si insinua contorta lungo le pendici del monte Baldo, con notevole perseveranza e un po’ di fortuna si può raggiungere un antico borgo medievale abbandonato. In pratica si tratta solo di poche case in rovina e di una minuscola chiesa con qualche antico affresco.
Durante l’epoca oscura delle invasioni barbariche, quelle case tanto ben celate e inaccessibili servivano come estremo rifugio ai pescatori della costa quando gli eserciti stranieri scendevano dalle Alpi portandosi dietro devastazioni e morte oltre al flagello della peste.

In un afoso pomeriggio d’estate Giovanni Soriano, compositore ormai vecchio e di fama incerta, decise di incamminarsi proprio su quella mulattiera, determinato a rivedere quel borgo sperduto che tante volte aveva raggiunto da solo nelle sue scorribande infantili. Dopo circa mezz’ora di marcia senza pause, dovette sedersi su un muretto che costeggiava il sentiero per riprendere fiato.
Quando era ragazzo riusciva ad arrampicarsi fino al borgo abbandonato in meno di venti minuti, ma adesso l’età cominciava farsi sentire: era diventato lento e bolso e la mancanza d’allenamento lo faceva sudare copiosamente.

Appena l’ansito si fu calmato, prese a guardarsi attorno. La luce del sole pomeridiano lo colpiva in pieno viso costringendolo a ripararsi gli occhi con la mano. Se ne stava seduto proprio sul limite di un uliveto e l’odore dell’origano impregnava l’aria coprendo ogni altro sentore.
Provò un moto di rabbia frustrata contro quel suo vecchio corpo così indocile e fragile, sempre pronto ad arrendersi dinnanzi al minimo sforzo. Gli intellettuali sono una brutta razza: per una vita intera trascurano il loro fisico salvo poi infuriarsi se, al momento del bisogno, esso cede alla fatica. Soriano aveva sempre avuto un pessimo rapporto con quel suo disgraziatissimo involucro di carne: non gli aveva mai concesso né tempo né cure particolari e, inoltre, se ne era sempre un po’ vergognato trovandolo sistematicamente pieno di difetti.

Ma c’era anche un’altra cosa che lo disturbava: la consapevolezza vaga che in quel piacevole pomeriggio, in mezzo a tanta silenziosa quiete, si sentiva decisamente fuori posto; un vero importuno. Gli ulivi immersi nel verde, il sentiero scosceso, il vento leggero che gli sfiorava la faccia: tutti questi elementi che tanto armoniosamente si fondevano fra loro, di lui non sapevano proprio cosa farsene. Una voce senza suono nella sua testa lo incitava ad andarsene e, dato il suo ostinato diniego, gli faceva provare un sottile disagio, una odiosa sensazione di estraniamento.
Tutti i muscoli dolenti del suo corpo esausto parevano urlargli contro: “Vattene!… L’infanzia è finita da quarant’anni e qui non hai più niente da fare! Torna alla tua casa in città, alle tue sottili sigarette che ti rendono ogni giorno più fiacco, al gatto viziato e grassoccio che fa le fusa, alla tua musica ineseguita…”

In effetti non solo l’infanzia era finita, ma la vita non era neanche mai cominciata. Da sempre pesava su di lui una specie di maledizione.
Gli tornarono alla mente ogni sorta di ricordi penosi e che non teneva per niente a rivangare: di fatto, tutta la sua esistenza non era stata altro che un penoso calvario ed una sistematica fuga dal consorzio umano.
I suoi coetanei lo avevano deluso e avvilito finché, pieno di rancore, si era rifugiato fra quattro pareti riducendo i contatti con l’esterno al minimo indispensabile. Non conosceva nessuno che potesse vantare una carriera tanto fallimentare quanto la sua, una sequela ininterrotta di disastri sistematici.

Colmo di disgusto verso se stesso ed il mondo intero, si levò in piedi di scatto e prese ad imprecare a bassa voce come gli capitava spesso di fare quando era di cattivo umore.
Mugugnò qualcosa come: “Patetico!… Patetico e grottesco!…”
Se almeno non ci fosse stato quell’odore pungente di origano! Ma l’aria ne era tutta impregnata; l’origano sovrastava ogni altro odore aumentando il suo disagio. Tuttavia, dato che l’ostinazione era un altro lato poco piacevole del suo carattere, decise nonostante tutto di continuare l’escursione e si rimise in cammino, ignorando testardamente i muscoli dolenti delle gambe. Ricordava che al centro del borgo abbandonato c’era una fonte con una grande vasca di pietra nella quale un rubinetto d’ottone faceva sgorgare in permanenza un fiotto d’acqua pura e gelida proveniente dalla cima del monte. Bere da quella fonte sarebbe stato il premio per l’ardua salita che si era imposto.

Con un fazzoletto si asciugò il sudore e riprese la marcia in salita, a testa bassa e con lo sguardo fisso a terra. Arrancò ancora per un po’ e poi si dovette arrestare per un’altra pausa: il sentiero era veramente scosceso ed ostico, buono a malapena per i muli e i contadini del posto.
D’un tratto percepì una folata di vento gelido che lo investì in pieno facendolo rabbrividire. Alzò lo sguardo al cielo e vide un ammasso di cirri informi che avanzavano rapidi da settentrione: il tempo stava cambiando. Altre volte, in alta montagna, aveva assistito a repentini mutamenti atmosferici; ma qui, ai piedi del Baldo, la cosa era a dir poco insolita. Gli venne in mente che se alla partenza si fosse premunito d’un bastone, si sarebbe risparmiato gran parte dello sforzo estenuante che stava ora consumando le sue forze. Troppo tardi per i ripensamenti, troppo tardi per cambiare strada: la sua auto era lontanissima, da qualche parte, laggiù a valle; la vita era passata come un’ombra dolorosa e lui l’aveva sprecata nel rancore e nell’isolamento, litigando con gente meschina che lo aveva snobbato e calpestato.

Poi vi fu l’urlo: tremendo e gutturale, quasi un ululato, come la voce d’un reietto che si levasse dal fondo delle tenebre.
Soriano si guardò attorno, spaventato e smarrito. S’avvicinò al bordo del sentiero e scrutò giù verso la scarpata che digradava fra gli uliveti immersi nel più profondo silenzio. C’era qualcosa come una macchia scura che si muoveva fra gli ulivi.
Non riusciva a vedere bene a causa degli occhiali appannati e dunque li tolse e pulì le lenti col fazzoletto. Quando li rimise a posto riprese a scrutare con una certa apprensione: una figura vestita di grigio camminava in mezzo agli ulivi trecento metri più in basso.

 

Aveva un’andatura curiosa: avanzava compiendo giravolte assurde per poi riprendere la direzione abituale. Di certo doveva essere stato lui a lanciare quell’urlo disumano dato che il paesaggio circostante, per quanto si sforzasse di scrutare, era completamente deserto.
Non riusciva però a comprendere il significato di quel grido: se lo sconosciuto avesse voluto spaventarlo di certo era riuscito nell’intento, ma per il momento non sembrava essersi ancora accorto della sua presenza. Continuò a fissarlo per qualche minuto mentre lui proseguiva nella sua marcia assurda: ogni tanto s’arrestava di colpo, restava impalato per un attimo e poi si girava di scatto per avanzare di qualche metro nella direzione opposta, quindi si arrestava di nuovo e compiva un’altra giravolta.

Doveva essere pazzo.
Oltretutto Soriano non riusciva neanche a scorgerne bene i lineamenti: sulla testa portava un cappuccio grigio come il vestito o un cappello largo che gli copriva la faccia quasi interamente. Giovanni era più che mai indeciso su come comportarsi, non voleva tornare indietro per timore di incrociarlo e, d’altronde, non se la sentiva neanche di continuare la salita fino al borgo con quell’inquietante compagnia alle costole. Anche se non era disposto ad ammetterlo, quel tipo gli incuteva un disagio istintivo.
A un certo punto lo vide sparire fra le fratte: intuì che doveva aver raggiunto il sentiero e che presto se lo sarebbe trovato dinnanzi.
Decise di nascondersi.

Avanzò ancora per un tratto finché scorse un cancelletto rustico quasi divelto oltre il quale si stendeva l’ennesimo spiazzo coltivato a ulivi. Il cancello s’aprì senza difficoltà e Soriano si inoltrò nell’uliveto. Si distese fra 1’erba folta in un punto dal quale poteva tenere d’occhio la curva del sentiero.
Restò immobile ad aspettare, ma non accadde nulla. Dovette fare appello a tutta la sua pazienza perché in realtà avrebbe preferito scapparsene lesto scendendo il crinale della collina anche a costo di rompersi il collo ma, più forte della paura, la curiosità quasi morbosa di vedere in faccia quel tipo lo costrinse a restare.

Nel frattempo il cielo s’era riempito di nuvole e rade gocce di pioggia cadevano ora su di lui. Il temporale era ancora al suo inizio, ma già gli abiti gli si stavano impregnando d’acqua.
I minuti passavano lenti come secoli: Soriano stava ormai per cedere e fuggire quando in lontananza si udì il rombo soffocato d’un tuono e, subito dopo, dalla curva del sentiero sbucò fuori 1’essere grigio.
Giovanni sollevò la testa quel tanto che bastava per osservare e scorse qualcosa che non si sarebbe mai aspettato di vedere: quell’uomo, o qualunque entità fosse, indossava una specie di lunga tonaca stracciata e consunta con un cappuccio che gli copriva il volto. Avanzava deciso, ma subito s’arrestò e prese a volgere lentamente il capo da destra a sinistra e viceversa.
Alla fine si bloccò puntando dritto verso di lui ed alzò la testa di poco, appena un palmo, ma abbastanza perché Soriano potesse scorgere quello che c’era sotto.

E sotto non c’era nulla, soltanto una cavità vuota.
Poi Soriano lo vide alzare verso il cielo le ampie maniche della tonaca seguendo il moto di inesistenti braccia e udì nuovamente il suo urlo più stridulo, gutturale e violento che mai.
Subitaneo e improvviso, un dolore lacerante in mezzo al petto gli fece reclinare la testa nell’erba.
Mugugnò qualcosa come: “Brutto bastardo, ho capito chi sei!…”
Poi il dolore al petto si fece più acuto e si propagò rapidamente al braccio sinistro. Riuscì solo a pensare alle sue pillole contro l’angina che aveva scioccamente dimenticate nell’auto. Subito dopo sui suoi occhi calò un velo rossastro mentre un alito gelido gli sfiorava le guance sudate.

Dopo aver attraversato uno sconfinato oceano di tenebre, si destò finalmente da un torpore greve come una montagna. Gli sembrò d’essere rimasto incosciente per secoli interi. Mentre la sua volontà lottava ancora contro l’inerzia, percepì ancora distintamente quel disgustoso odore di origano.
Con inaspettata facilità si levò in piedi e subito scorse un corpo inerte steso nell’erba accanto a sé.
La sua faccia gli era vagamente nota: quella barba grigia, gli zigomi scarni e gli occhi vitrei dietro gli occhiali dalle spesse lenti gli ricordavano qualcuno che doveva aver conosciuto in qualche vita passata. Per quanto lo riguardava, rammentava vagamente che gli era stata donata una vecchia tonaca sgualcita. Adesso doveva mettersi in cammino, doveva trovare un’altra anima esausta a cui concedere lo stesso dono.
Era ormai notte fonda, nel cielo sgombro di nubi una candida luna piena pareva indicargli la via fra gli uliveti senza fine.
Sentendosi leggero e pieno i forze, decise di lanciare un grido alla luna.

 

Autore: Giovanni Soriano
Messo on line in data: Giugno 2012
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