RACCONTO: IL CANE di Marica Petrolati

– Mamma, perché hai lasciato la porta aperta questa notte?
Linda Fish afferrò distrattamente la scatola dei cereali, versandone una buona parte nella tazza davanti a sé, poi mentre aggiungeva il latte iniziò a passare mentalmente in rassegna la lunga lista degli invitati per il pranzo di Natale: cavolo, avrebbe dovuto passare tutto il pomeriggio in cucina, e chissà poi se sarebbe stata in grado di preparare tutto a dovere. La madre di Ted avrebbe criticato ogni cosa a puntino, già le pareva di sentirla.
“Cara, perché non hai lasciato cuocere di più il brodo? Sarebbe stato più buono. E l’arrosto? Era quasi bruciato mia cara. “
Gesù, come detestava quella donna!  Perché le nuore dovevano sopportare tutte le angherie delle suocere? Non era giusto, come le sarebbe piaciuto assestarle un bel calcione nel grosso didietro che si portava appresso!
Dunque, il tacchino era pronto sul ripiano per essere farcito, la verdura…
– Mamma, ti ho chiesto perché hai lasciato la porta aperta questa notte!
La tovaglia! Doveva assolutamente ricordarsi di mettere quella che le avevano regalato i genitori di Ted per il matrimonio! L’ultima volta si erano offesi a morte!
– Mamma!
Il piccolo Mark, sei anni compiuti la settimana prima, batté con foga la piccola mano sul tavolo: la tazza dei cereali sussultò pericolosamente, quindi una grossa chiazza di poltiglia gialla si allargò sul tavolo.
– Oh, Mark. Guarda cosa hai combinato! Cosa c’è? Cosa stavi dicendo?
Mark fissò gli occhi in quelli della madre. Quella mattina erano stranamente arrossati, e adesso che Linda li osservava meglio poteva anche scorgere sul viso paffuto e roseo del figlio due profonde occhiaie bluastre.
– Che c’è Mark, non stai bene?–  la mano scivolò automaticamente sulla fronte del figlio: no, non aveva febbre.
– Sto bene, voglio solo sapere perché hai lasciato la porta aperta questa notte.
– Di quale porta stai parlando? – domandò mentre cominciava a pulire la vistosa macchia dalla tovaglietta per la prima colazione – Non capisco tesoro…
Oddio, la tovaglia! Si era dimenticata di mandarla in lavanderia! Non avrebbe potuto adoperarla per quella sera: l’ultima volta che l’aveva usata ci aveva rovesciato sopra del vino rosso ed ora giaceva spiegazzata e sporca in qualche cesta della biancheria da lavare. Che stupida! Ted si sarebbe arrabbiato terribilmente!
– Mamma – la mano di Mark arpionò con forza quella di Linda – non devi lasciare la porta aperta. Non voglio che entri più.
Linda si fermò accantonando per alcuni istanti il problema della tovaglia e si concentrò sul dolore che sentiva alla base del polso: Mark la stava stringendo con una forza tale che poteva sentire le piccole unghie affondarle prepotentemente nelle carne. Abbandonò la spugna nella chiazza di latte mista a cereali e liberò la mano dalla stretta del figlio. Osservò il polso arrossato e segnato da quattro piccole mezzelune.
Rimase in silenzio per alcuni istanti cercando di fare mente locale: Mark stava tentando di parlarle da un buon quarto d’ora di una porta aperta.
– Non voglio più che entri.
Fissò ancora gli occhi del figlio, gonfi e arrossati come se avesse pianto, e finalmente comprese che qualcosa non andava. Allora un campanello d’allarme iniziò a suonare in una zona remota del suo cervello, un allarme che suonava raramente, e che non sarebbe mai scattato per una stupida tovaglia o per una suocera acida.
No, quel campanello reagiva solo con Mark. E adesso era in funzione.
Linda accostò la sedia a quella del figlio, cercò di piegare le labbra in modo da ricavarne qualcosa simile ad un sorriso, poi gli prese la mano fra le sue.
– Scusami tesoro, non ho capito cosa mi hai detto. Adesso la mamma ti ascolta. Di che porta stai parlando?
La manina di Mark sgusciò via dalla sua presa e si alzò per indicare qualcosa alle sue spalle.
– Quella– disse seccamente.
Linda si voltò ad osservare la portafinestra della cucina: le tende candide, i vetri lindi, la maniglia di ottone lucida all’inverosimile. La solita portafinestra insomma.
– Dici che la mamma ha lasciata aperta la portafinestra Mark?– domandò cautamente.
Il visetto di Mark si spostò ripetutamente dal basso verso l’alto.
– Si, mamma. Ieri sera. L’hai lasciata aperta.–  aggiunse in un tono che pareva non ammettere repliche.
– Mark, quello che dici mi sembra strano. Lo sai che io e papà controlliamo sempre tutto la sera prima di andare a letto. Ieri sera ricordo benissimo di aver chiuso a chiave la portafinestra. E poi se fosse rimasta aperta l’avremmo sentita sbattere con tutto il vento che ha tirato stanotte.
Mark alzò le spalle, quindi ripeté:
– Era aperta.
– Va bene, era aperta. – si arrese Linda – e poi cosa è successo?
Mark rimase in silenzio: i suoi occhi si posarono dapprima sul frigo, poi sul camino, quindi tornarono a fissare la porta finestra.
– E’ entrata una persona.
Nella testa di Linda il campanello di allarme alzò di dieci toni il volume: ora le pareva di sentirlo squillare in ogni angolo della cucina linda ed ordinata.
– E’ entrata una persona? – ripeté come un automa. Il solo pronunciare quella frase, le provocò un lungo brivido di terrore lungo la schiena.
Mark annuì.
– E… e poi cosa è successo?– fu l’unica cosa che le riuscì di dire, poiché la sua mente stava già elaborando le infinite possibilità che l’intrusione di un estraneo nella propria abitazione comportava.
– E’ venuto in camera mia.– la voce di Mark era ridotta ad un flebile sussurro. Linda si chiese per quanto tempo suo figlio avrebbe resistito prima di scoppiare a piangere: gli occhi erano lucidi e carichi di lacrime.
– Era un uomo Mark?– quando la frase le uscì dalla gola, provò una strano dolore.
– Si, un uomo. Era… – la voce s’incrinò – era brutto e… – una lacrima gli scivolò lunga la guancia – tutto coperto… di fango. Puzzava, mamma, puzzava di cattivo.
Mark si fiondò fra le braccia calde ed accoglienti della mamma, ed iniziò a singhiozzare convulsamente. Linda lo strinse forte, accarezzandogli la folta testolina di capelli scuri, attese che il respiro del bambino tornasse regolare, quindi sputò fuori la domanda che le stava attanagliando l’anima.
– Cosa ti ha fatto, Mark?
Alzò il visino del figlio verso il suo: voleva guardarlo negli occhi per essere sicura che non mentisse.
– Non mi ha fatto nulla mamma. Ma ho avuto tanta paura–  le ultime parole si persero nel pianto. Linda sgonfiò i polmoni da tutta l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento ed il risultato fu un lungo sospiro di liberazione.
Scostò Mark da sé e piegò ancora le labbra nel tentativo di sorridere.
– Tesoro, probabilmente hai fatto solo un brutto sogno. Solo di questo si è trattato.
– Mamma, quell’uomo…– iniziò Mark.
– Tesoro, succede a volte che si facciano degli incubi. Nessuno può entrare in casa senza che mamma e papà se ne accorgano. Nessuno può farti paura, né tanto meno del male quando dormi nel tuo lettino e ci siamo noi a proteggerti.–  ecco si, era stata dolce ma decisa al tempo stesso, abbastanza convincente.
– Mamma, quell’uomo…– continuò Mark.
Linda gli strinse la mano:
– Mark, la nostra camera è di fianco alla tua. Se fosse entrato qualcuno in casa ce ne saremmo accorti , non credi? Probabilmente tutte le patatine che hai mangiato ieri ti sono rimaste sullo stomaco ed hai fatto solo un brutto sogno. La persona che hai visto in camera tua esisteva solo nel tuo incubo tesoro. Anche alla mamma a volte succede di sognare brutte cose, ma poi passa tutto e il…
Il campanello in soggiorno squillò interrompendola. Sbirciò l’orologio da polso.
– Deve essere papà. Su fa il bravo bambino non pensarci più. Ora vai ad aprire la porta e fammi un bel sorriso d’accordo?
Mark scivolò giù dalla sedia, la fissò per qualche istante e poi corse fuori dalla cucina.
Non le sorrise.
Linda si alzò in piedi, si passò una mano nei capelli arruffati e ripiombò col pensiero nel gravoso problema della tovaglia.
Gesù, avrebbe dovuto metterne un’altra in tavola, magari quella con i ricami di pizzo che piaceva tanto al padre di Ted, si forse alla fine non avrebbero nemmeno fatto caso a quella stupida tovaglia se solo fosse stata abbastanza brava da metterci sopra quanta più roba poteva. Magari avrebbe potuto far preparare dalla fioraia una bella composizione di fiori freschi, solo che avrebbe dovuto decidere tutto in fretta altrimenti…
Si fermò di botto con la spugna in una mano e la tazza di Mark nell’altra.
Rimase per alcuni istanti immobile con lo sguardo fisso sul pavimento della cucina: sulle mattonelle bianche spiccava una vistosa traccia di fango secco. Il cuore le si fermò per qualche istante nel petto: la traccia aveva la spaventosa forma dell’impronta di una grossa scarpa. Mosse un passo avanti, lentamente: davanti alla portafinestra c’era un altro piccolo grumo di fango.
Posò la tazza e la spugna nel lavabo ed aprì la porta finestra: una ventata d’aria gelida la investì. Sulla maniglia trovò della terra secca. Sul gradino esterno c’erano due marcate impronte fangose. “E’ entrata una persona.”
No, non poteva essere. Ricordava benissimo di aver chiuso lei stessa quella porta la sera innanzi. E non era stata forzata. Quindi nessuno sarebbe potuto entrare.
Eppure…
E se ricordava male? Se distrattamente avesse solo creduto di chiudere a chiave?
“Si, un uomo. Era tutto coperto di fango. Puzzava mamma, puzzava di cattivo.”
– Lin! Tesoro, ho preso il vino.– la voce di Ted si avvicinava minacciosamente alla cucina.
Afferrò la spugna dal lavabo e pulì via frettolosamente le impronte dal gradino esterno, richiuse la portafinestra e passò la spugna anche sul pavimento bianco della cucina.
– Lin, credi che cinque bottiglie possano bastare?
Linda scagliò la spugna nel lavandino, sussultando.
– Lin, è tutto a posto?–  gli occhi di Ted si posarono inquisitori sul viso arrossato e sui capelli scarmigliati di lei.
– Oh, si! Ho versato del latte. Stavo pulendo. Si credo che cinque bottiglie dovrebbero bastare. Ma dov’è Mark?
– E’ salito in camera sua. Ha detto che aveva da fare.
– Ted, stanotte per caso ha piovuto?
Ted posò lo scatolone con il vino sul pavimento ed iniziò a disporre le bottiglie sul ripiano:
– No che non ha piovuto. Sono settimane ormai che non piove. Perché?
– No, stanotte mi era sembrato che piovesse, ma a quanto pare mi sono sbagliata…
Linda afferrò la scatola dei cereali, poi con noncuranza iniziò:
– Questa notte non ho dormito affatto bene. Mi sembrava di sentire in continuazione dei rumori strani.
– Sarà stato il vento. Anche io mi sono alzato verso le tre a chiudere una porta che sbatteva.
La scatola dei cereali cadde a terra, disseminando piccoli chicchi intorno ai piedi di Linda.
– Linda!– esclamò Ted irritato.
Meccanicamente Linda afferrò la scopa dal ripostiglio ed iniziò a raccoglierli:
– Una porta? Quale? La portafinestra?–  smise di respirare fino a che non udì la risposta di Ted.
– No, era la porta della soffitta. Avevamo dimenticato di chiudere la finestrella del solaio.
– Ah. Solo quella era rimasta aperta?– domandò ancora scaricando la paletta carica di cereali nella pattumiera.
– Sì, dopo ho fatto un giro per casa per controllare. Era tutto a posto.
– Anche qui in cucina?–  di nuovo il cuore le si fermò.
– Sì, era chiusa. – si voltò verso di lei – Lin, mi vuoi spiegare perché mi stai facendo tutte queste domande?
Cercò di sorridere: – Così, lo sai che detesto il vento. Avevo paura di aver dimenticato qualcosa aperto.
– No, tesoro sta tranquilla era tutto a posto. Per stasera è tutto pronto?
La tovaglia!
– Beh, sì, solo che…–  le tazze della prima colazione finirono malamente nel lavabo, tintinnando pericolosamente.
– Solo che?– incalzò Ted.
Oddio, come detestava sentirsi così stupida e impotente!
– Solo che non ho la tovaglia che ci hanno regalato i tuoi genitori. Ho dimenticato di portarla in lavanderia. Dovrò metterne un’altra.
Ted si fermò ad osservarla: – Dio Mio, Lin! Come hai potuto dimenticarla di nuovo? L’ultima volta mia madre si è offesa mortalmente, non ricordi? Mi ero raccomandato che tutto fosse a posto, invece non c’è niente che vada bene!– il viso di Ted era diventato paonazzo.
Solitamente Linda di fronte a sfuriate del genere, si profondeva in umile scuse, arrabattandosi come poteva per porre rimedio alla faccenda e supplicando Ted di perdonarla. Ma quel giorno non le andava di strisciare come un verme ai piedi di Ted per una questione così stupida, primo perché non meritava di essere trattata così, e secondo perché nel profondo della sua anima sentiva che c’era una questione più importante da approfondire, una questione che andava al di là di una tavola apparecchiata per far piacere ad una suocera comunque prevenuta nei suo confronti, una questione che riguardava suo figlio e che non le piaceva per niente.
– Ted, la tovaglia è sporca. Non la posso usare. Ne metterò un’altra. Punto e basta.
La frase le uscì secca dalla gola, con un tono perentorio che stentò a riconoscere come suo. La cosa le procurò un sottile piacere.
Ted accusò il colpo e rimase a fissarla stupito per alcuni secondi.
– Ma…– iniziò bloccandosi immediatamente su quel semplice monosillabo
– Non ci sono ma. Ho già abbastanza da fare nel preparare la cena, senza dovermi preoccupare della tovaglia. Mi dispiace, ma la cosa mi è sfuggita, se vuoi farne un caso di interesse nazionale, fa pure.
Ted mosse qualche passo verso di lei, senza staccarle gli occhi di dosso:
– Va bene faremo a meno della tovaglia. – una pausa – Lin, stai bene? Mi sembra che sei abbastanza nervosa oggi. Sei sicura che è tutto a posto?
– Oh Dio Ted, certo che è tutto a posto. – mentì – Adesso aiutami per favore a sbucciare le patate.
Posò la busta con i tuberi sul tavolo e si sedette, imitata da Ted. Fu Ted alcuni istanti dopo a rompere il silenzio che era sceso tra loro.
– Ricordi Fred Dermington?– domandò sbucciando goffamente la patata che aveva in mano.
Certi lavori non gli si addicevano proprio pensò Lin mentre gli rispondeva:
– Il vecchio Fred? Quello un po’ suonato che abitava vicino alla palude?
– Si, proprio quello. Ho saputo che è morto. Pare che ieri sera mentre tornava a casa ubriaco fradicio sia scivolato nella palude. Lo hanno ritrovato stamattina annegato.
– Oh, è orribile.–  esclamò Lin afferrando velocemente un’altra patata.
– E’ stato il cane a permettere di ritrovarlo.– continuò Ted.
– Duffy? Il cane di Dermington?–  domandò Lin interessata.
– Sì, come sai il nome?
– Qualche settimana fa io e Mark siamo andate a fare una passeggiata nel bosco, abbiamo preso proprio il sentiero che costeggia la palude…
– Lin – la interruppe bruscamente Ted – non mi piace che porti Mark in quel luogo, è pericoloso lo sai. La palude è nascosta in certi punti dall’erba e ti assicuro che finirci dentro è questione di un attimo.
– Pensi che esporrei mio figlio ad un simile rischio se non conoscessi la zona?– ancora la risposta le uscì tagliente, velata da un remoto tono di sfida.
– No, certo che no. Almeno spero.
– Ecco, allora lasciami raccontare. Passeggiavamo proprio vicino alla casa di Fred Dermington quando abbiamo visto arrivare di corsa questo cane. Si è gettato addosso a Mark ed a iniziato a fargli le feste come se lo conoscesse da sempre. Dovevi vedere come era simpatico. Poco dopo è arrivato Fred Darmington. Ci ha salutati molto cordialmente e ci ha detto che il cane si chiamava Duffy e che raramente lo aveva visto dimostrare tanta simpatia per uno sconosciuto. Insomma sembrava proprio che Mark gli andasse a genio.
– Sì, è una bestia particolarmente intelligente. Stamattina due cacciatori lo hanno visto correre ripetutamente sul bordo della palude, ululando come impazzito. Purtroppo quando si sono avvicinati hanno capito il perché: Fred Dermington giaceva privo di vita nel fango.
Fango.
– Nel fango – ripetè come un automa Lin mentre sentiva venirle la pelle d’oca – E il cane? Che fine farà Duffy?
– Beh, credo che lo rinchiuderanno in un canile. Oppure lo abbatteranno, a differenza di quello che mi hai raccontato sembra che non sia molto socievole. Non sono riusciti a portarlo via dalla palude. Abbaiava e mordeva come se fosse indiavolato.
– Povero Duffy. – Lin gettò uno sguardo al mucchio di patate pelate da Ted, quindi osservò il suo – Ted se non ti dai una mossa, questa sera i nostri ospiti faranno a meno del contorno.
– Sì, scusami cara. Non sono proprio un pelatore di patate nato.– e sorrise.
Scusami cara.
Era la prima volta che lo sentiva scusarsi con lei.
Scusami cara.
Gesù, che sciocca era stata.

La casa era immersa nel silenzio più completo. Quella notte, a differenza della precedente, non tirava un solo alito di vento. L’unico rumore che Lin riusciva a percepire era il respiro regolare di Ted che dormiva tranquillamente al suo fianco. Lo aveva sentito alzarsi poco prima e scendere di sotto: probabilmente aveva avuto problemi con la digestione visto che a cena si era abbuffato senza riguardo. Ora però riposava senza problemi.
La cena era andata perfettamente. Nessuno aveva fatto caso alla tovaglia di pizzo, oppure diversamente nessuno aveva osato fare commenti. A Lin non importava niente in nessuno dei due casi. Tutto perfetto cara, tutto buonissimo Lin.
Tuttavia, svanita la preoccupazione per l’esito della serata, non riusciva a godersi il meritato riposo dopo la sfacchinata della giornata.
C’era qualcosa che le impediva di prendere sonno.
Qualcosa che aveva iniziato ad angosciarla sin dalla mattina dopo che Mark le aveva raccontato del suo incubo.
E naturalmente dopo che aveva visto con i propri occhi il fango sul pavimento della cucina e sulla maniglia della porta finestra… come se una mano sporca di fango l’avesse afferrata per entrare…
No, questo non era possibile.
“Toglitelo subito dalla testa, ragazza, e vedi di dormire.” Pensò sistemando il cuscino.
Fango.
“No, che non ha piovuto stanotte. Sono settimane che non piove ormai. Perché?”
Fango.
Palude. “Lo hanno trovato privo di vita nel fango”
Lin socchiuse gli occhi, chiudendo la mente ai pensieri vorticosi che si ostinavano ad accavallarsi uno sull’altro come impazziti. Pochi minuti dopo scivolò in un sonno leggero e disturbato.
Quando si rese conto che era riuscita a dormire per un periodo di tempo indeterminato, era di nuovo sveglia. Le pareva di aver udito un rumore nel corridoio.
Lentamente si mise a sedere sul letto, tendendo le orecchi e sbarrando gli occhi nel buio.
Senza motivo…
O si? …il cuore aveva iniziato a batterle all’impazzata nel petto. Le sembrava quasi di sentirlo quell’incessante tum tum espandersi nel silenzio oscuro della stanza da letto.
Respirò a pieni polmoni: un odore estraneo alla propria casa le riempì le narici.
Un odore decisamente cattivo. Ancora il cuore accelerò l’andatura. Pareva volerle schizzare via dal petto.
Lentamente, per non svegliare Ted, scese dal letto e infilò le ciabatte.
Pian piano raggiunse la porta della camera da letto e sbirciò nel corridoio: adesso tutto era di nuovo silenzioso.
Raggiunse in punta di piedi la camera di Mark: di nuovo il campanello d’allarme nella sua testa si mise velocemente in funzione. Il fetore nella cameretta del figlio era insopportabile. Il bambino però dormiva tranquillamente. Si sedette sul lettino e gli accarezzò la fronte. Quindi ritrasse velocemente la mano. Era bagnata, no forse sporca di qualcosa di molliccio e umido.
Fango. Si alzò ed accese la luce.
Con orrore osservò una serie di impronte fangose sulla moquette. Si dirigevano verso il letto di Mark. E questo era chiaro perché sulla fronte del figlio c’era la forma perfettamente visibile di una mano. Solo laddove l’aveva toccato anche lei, la forma di due dita era irriconoscibile. Ma non c’era ombra di dubbio. Qualcuno, qualcuno sporco di fango, aveva toccato, quasi accarezzato forse, suo figlio Mark.
Spense la luce ed uscì dalla camera. Le gambe le tremavano paurosamente.
Discese le scale guardandosi intorno con circospezione.
Entrò in cucina: davanti alla porta finestra, e sulla maniglia di quest’ultima trovò le stesse identiche tracce che aveva pulito la mattina stessa. Un giramento di testa la costrinse ad appoggiarsi al tavolo.
Gesù Santo, come era possibile che quello che stava vedendo fosse reale?
Allungò la mano sul pomello della portafinestra e provò ad aprire, ma la trovò indiscutibilmente chiusa e senza segni di scasso.
Come era possibile che per ben due volte qualcuno si fosse intrufolato in casa in quella maniera assurda?
E poi chi era quel qualcuno? E cosa voleva da suo figlio?
Fango. Lo hanno trovato privo di vita nel fango.
Cos’era che aveva tentato di dirle Mark? “Mamma quell’uomo era…”
Era cosa? Era chi?
Spense la luce della cucina e corse di nuovo di sopra. La camera di Mark era come l’aveva lasciata pochi minuti prima. Fece scattare l’interruttore e una fioca luce illuminò la stanza.
Osservò di nuovo le impronte, Mark che dormiva tranquillo, poi la sua attenzione fu attirata da qualcosa che prima le era sfuggita. Sul comodino, accanto al letto, tra alcuni numeri dei fumetti preferiti del figlio, c’era un piccolo oggetto metallico.
Lentamente allungò la mano per afferrarlo: era una medaglietta rotonda di quelle usate per l’identificazione dei cani.
Sul retro macchiato e consunto era riportato un nome: Duffy.
Infilò la medaglietta nella tasca della vestaglia ed uscì dalla camera.
Scese di nuovo le scale ed entrò in cucina.
Silenziosamente scelse due piatti fondi fra quelli vecchi che non usavano più, per il momento sarebbero andati bene, poi si sarebbero organizzati diversamente.
Aprì il frigo e prese un grosso pezzo di tacchino avanzato dalla cena e lo mise nel piatto. Nell’altro versò dell’acqua dal rubinetto. Aprì la portafinestra e sistemò le due scodelle accanto al muro. Rabbrividì per il freddo pungente della notte.
Attese qualche istante stringendosi addosso la vestaglia. Per la via deserta e buia non si udiva alcun rumore.
Poi all’improvviso ecco uno zampettare leggero e veloce sul selciato. Lin osservò la sagoma del cane avvicinarsi cautamente a lei.
Scodinzolava docilmente.
– Ciao Duffy.– gli disse accarezzandogli il muso.

 

Autore: Marica Petrolati
Messo on line in data: Ottobre 2000