RACCONTO: LA STREGA di Giules La Cheise

IL TEMPO AVVOLGE TUTTE LE DIMENSIONI
E LA SUA SPIRALE CIRCONDA LA VITA

 

La serpe strisciava piano sul prato, cercando spazio per potersi muovere tra i fili d’erba umidi.
Me ne stavo seduto per terra vicino ad un vecchio tronco d’albero di quercia osservando lo spazio attorno.
Il vento tiepido della vigilia di maggio presagiva già una primavera tiepida sul finire e un’estate calda umida.
Le mie mani toccavano la corteccia della quercia mentre la mente spaziava lontano.
Amavo quei momenti dove mi sentivo a pieno contatto con la natura, amavo appoggiare i miei piedi nudi sulla terra, sentire il contatto con l’energia, la forza che sale in te piano portandoti ad essere tutt’uno con la natura, con la terra, con Dio.

Fu in una giornata come questa, di meditazione intensa che la mia concentrazione fu interrotta da un passo che, pur leggero, voleva farsi notare.
Non mi girai, sentivo che non c’era nulla di pericoloso, di cattivo, lasciai che chi portava quel camminare leggero si avvicinasse a me, si presentasse oppure se ne andasse via.
Nulla di tutto ciò accadde, anzi ad un certo punto non sentii più nulla e me ne tornai con la mente nel momento più profondo di concentrazione.
Nulla più intorno a me sembrava esistere, mi sentivo parte dell’erba su cui poggiavo, mi sfogliavo nell’aria che mi circondava, il tempo non aveva più tempo e io fluttuavo con la mente tra rami, foglie e uccelli che col loro canto ritmavano un mantra al mondo.
Piano piano ritornai alla realtà, mi rimpossessai del mio corpo e lentamente aprii gli occhi.

Mi accorsi che sul vecchio tronco di quercia accanto a me era seduta una persona, una giovane donna con capelli lunghi colore dell’oro e riflessi di foglie d’autunno, un lungo vestito di cotone rosso scuro e sandali di cuoio.
Sembrava uscita da una comune ai tempi del 68/70; mi alzai e con movimenti lenti mi sedetti pure io su quel vecchio tronco.
– Vieni spesso qui, non ti ho mai visto– queste furono le parole che mi rivolse, risposi: – No, è poco che ci vengo, sai cerco sempre posti nuovi per trovare spazio per la mia meditazione e contatto con la natura.
Lei ribattè: –Ma la natura è dappertutto– e io: –Lo so, e io la cerco appunto per portarla dentro di me.

Lei sorrise, di un sorriso semplice che io feci subito mio e lo racchiusi nella mia mente, poi si alzò e com’era venuta, con lo stesso leggero passo se ne andò.
Io ne seguii i movimenti, l’ondeggiare lento della sua folta chioma, delle sue braccia che sfioravano il busto, dei suoi piedi che sembravano volare sul prato sottostante.
Non mi era mai capitato di essere da spettacolo per qualcuno, in pratica di avere del pubblico nei miei momenti di meditazione, ma non mi sarei mai aspettato di trovare qualcuno che nel vedermi seduto con le gambe intrecciate su di un prato, non mi avesse preso per un po’ matto.
Ripresi su tutta la mia roba, la maglia e le scarpe, e mi riavviai verso casa; avevo percorso parecchia strada per arrivare in questo posto, ma non pensai al percorso di ritorno, il mio pensiero era posato solo su quella donna che si era trattenuta con me per un tempo non preciso, ma che mi aveva accompagnato nel mio restare solo.

Arrivai a casa che quasi non mi accorsi di aver fatto la strada. La casa era fredda anche se fuori non lo era poi così tanto: la primavera è un po’ strana, sembra quasi che ti regali il suo calore senza però poi farti dimenticare che l’inverno è ancora alle spalle, ancora dietro l’angolo.
Pensai subito a lei al suo sorriso, dalle labbra carnose e forti: me li vedevo in tutti i punti della casa, appena chiudevo gli occhi li sentivo avvolgermi come una brezza mattutina, come il crepuscolo serale, che ti fa pensare di esserci e di non esserci.
Sarei voluto ritornare subito in quel posto, come se sentissi che era là ad aspettare che io tornassi, ma allo stesso momento volevo rimanere con i piedi per terra e convincermi che ero un po’ troppo suggestionabile da vicende forse casuali o irripetibili.

Non fu così.
Tre giorni dopo ritornai sul posto per un’altra meditazione e dopo poco che ero là che cercavo di portare in me una calma per concentrarmi, percepii ancora i suoi passi.
Li riconobbi subito, non ero riuscito a dimenticarli, anzi, non avevo mai cercato in quei tre giorni di dimenticarli, ma avevo cercato di fissarli bene nella mia mente per poterli riconoscere di primo acchito.
Lei, come la volta prima, si sedete sul tronco senza disturbare la mia concentrazione.
Fissai il mio pensiero su di lei, e un po’ alla volta ne potei percepire il respiro, il suo aprirsi e chiudersi del diaframma, quasi sentivo il suo batter svelto delle ciglia come battito d’ali.

Premetto che sono veramente una persona molto suggestionabile e associo, a tutto questo, anche una buona dose di fantasia, ma tutto ciò mi piace assai e mi diverto a portare tutto questo nella mia mente e ci lavoro assiduamente come un metalmeccanico della mia industria chiamata cervello.
Dopo un po’ di tempo ritornai al presente, non so mai quantificare quanto rimango così, non mi do mai un tempo per queste cose, cerco sia il mio corpo, il mio spirito a dirmi quando riprendere possesso di me stesso.
Lei sempre lì, quasi mi aspettasse, non si mosse per tutto il tempo, finché io non mi sedetti come l’altra volta sul tronco d’albero.
– Ti piace la cultura orientale?– disse e io ribattei: – Sì, cerco in lei la mia dimensione, di ritrovare me stesso.
– Ne hai proprio cosi bisogno, non sai più chi sei o cosa sei, cosa servi, se servi poi qualcosa?

Le sue parole mi entrarono, penetrando nel profondo del mio animo, frugando nei meandri più nascosti, come se sapesse dove cercare e cosa io avessi da trovare.
Ebbene sì, avevo proprio bisogno di ritrovare me stesso, stavo uscendo da un periodo molto triste e difficile; la separazione da mia moglie, non vedere più mio figlio come prima, ricominciare, rivedere tutta la mia vita da single, essere libero, libero però di non saper che fare.
Le raccontai un po’ di me, come se fosse una vecchia amica cui confidare e farsi confidare pene e segreti, lei ad ascoltarmi e a dire la sua.
Non era solo un’attenta ascoltatrice, ma anche una persona che sapeva dire le cose, senza passare per colei che da consigli a mani aperte.
Lei portava le sue esperienze senza che avessero un peso più importante delle mie, ma equilibrandosi con dolori e gioie, sentimento. Era tempo che non provavo un piacere cosi denso nel parlare e ascoltare.
Io per natura sarei molto loquace nel rapporto con le persone, a volte mi sento quasi invadente, ma tutto è dovuto al fatto che mentre parlo la mia mente lavora instancabilmente, pensa continuamente, portandomi pensieri dalla testa alla bocca con un incalzante frenetico di susseguirsi di cose da dire.
Forse ho bisogno tanto di buttare fuori mille e mille pensieri chiusi nel mio profondo, intimo angolo del mio cervello.

Non chiesi il suo nome, né lei il mio, era un rapporto, di una semplicità unica, quasi immaginario, ma sufficiente per soddisfare la mia sete di capire, cosa poi non lo sapevo ancora, ma capire era la mia parola d’ordine.
Comunque fosse, si susseguirono altri incontri tra me e lei sempre più importanti, dove si approfondiva tutto ciò che era importante ai fini di riscoprire un modo giusto di vita.

Finché un giorno mi disse: – Vieni, ti voglio far vedere la mia casa– e mi accompagnò in una piccola casetta ad un piano situata in un viale alberato.
Confinava con altre piccole case ad un piano, sembrava un piccolo villaggio tutto uguale, come se ne possono trovare alla periferia di grandi città come Brescia.
Mi fece entrare dalla porta principale e subito sentii un forte odore di sandalo. Restai fermo immobile a guardare la stanza principale; sembrava di entrare in un tempio tibetano, stecchini d’incenso fumavano in diversi punti e quell’odore era quello che più amavo.
Negli angoli vi erano due statue, che penso fossero uno Shiva e un Ghanesha, il secondo lo riconobbi dalla forma della testa  d’elefante e il corpo d’uomo.

Mi lasciò scrutare, l’ambiente, poi con fare gentile mi disse: – Non ti piace l’arredamento? Sai, io amo l’oriente e amo tutto ciò che vi è annesso.
Io la guardai e con il mio modo che ritengo a volte esagerato dissi: – E’ decisamente bellissima, se potessi farei anch’io la mia casa così. So che ti sembrerà assurdo– continuai– ma io e te abbiamo parecchie cose in comune– e azzardando un po’ –e credo che non sia stato un caso se ci siamo conosciuti in circostanze un po’ stranamente mistiche.
Lei sorrise, non disse nulla, ma capii, almeno credetti di capire, che condivideva la mia opinione.
Mi chiese se volevo un the, io gradii l’invito e lei dopo un po’ si presento con una gradevole teiera in stile, ovviamente orientale, e delle piccole tazzine, me lo versò e il profumo che sprigionava si mischiò all’odore di sandalo che fluttuava nell’aria.
Era un the verde dal gusto particolare, penso gelsomino o un altro fiore molto profumato, ci sedemmo vicini e bevemmo questo gustoso nettare, con gli occhi suoi che ogni tanto si incrociavano coi i miei.
Per completare il tutto accese lo stereo e ne usci, a volume discreto, un suono di sitar indiano accompagnato da frasi monotone, come dei mantra.
Era tutto così poco reale, l’essere lì in quel modo mi faceva provare una nuova esperienza, era tanto che non condividevo con un’altra persona di momenti così dolci.

Dopo la separazione mi ero prefissato di non cercare, per un po’ di tempo almeno, di legarmi con nessuna donna finché non avessi trovato la mia dimensione. La separazione da mia moglie, all’inizio, non mi era sembrata così dura, ma col passare del tempo mi cominciava a dare non pochi problemi, di natura psicologica.
Non mi sentivo più sicuro di ci˜ò che provavo, avevo paura di ricominciare una nuova storia, perché temevo che sarebbe fallita, e non avevo poi più voglia di soffrire e ricadere ancora nell’angoscia di un dolore nel distacco. Anche con lei non ci avevo ancora provato, forse per la paura di tutto ciò.
Sono sincero, mi piaceva, come donna, ma anche per tutto ciò che racchiudeva in lei, quel mistico-mistero nascosto in lei.
Le dissi allora: – Sto bene con te, questi momenti mi fanno ritrovare gioie che non provavo da qualche tempo. Grazie.
Lei ribatté: – Non mi devi ringraziare, tutto ciò che provi tu lo provo anche io, provo momenti che avevo dimenticato o che forse non ho mai vissuto cosi, con una semplicità che supera la dolcezza. Continuò: – Anche io esco da una situazione non facile.
Capii allora che cominciava a lasciarsi andare.
– Fui amata, forse, anch’io come volevo, o forse credevo di essere amata, sai quando si da amore si crede sempre che sia corrisposto dall’altra parte nella misura in cui si da.

Continuò ancora e io la lasciai fare senza interromperla, ma ascoltandola con interesse. Mi prendeva tutto ciò che ascoltavo.
– Invece, quando si ama non ci si deve aspettare niente da chi ti è vicino, ma dare, dare senza pesare ciò che si riceve, e forse l’amore meno corrisposto è l’amore più intenso da vivere, è l’amore più vero.
Restai allibito dalle sue parole, quasi stregato.
Le sentivo vere tutte quelle parole, dette da due labbra che non le dicevano tanto per dire, ma perché le sentivano pure dentro, e ora le sentivo vere anche io.
Il pomeriggio passò cosi, in un fulmineo lampo, mi ritrovai inebriato bimbo con nelle mani una tazzina da the che non avrei più lasciato andare e con la testa ripiena di pensieri si, ma liberi e non più intrappolati nelle spire di un serpente dubbioso e tetro.
Ore avevo capito tante cose, cose semplici, ma importanti, cose che forse da solo non avrei mai capito, o forse le avrei capite ma mi ci sarebbero voluti molti attimi, ore o giorni.
Lei mi fece riflettere su molti errori della mia vita, la ricerca spasmodica nel dare amore per poi riceverlo in ugual misura, io che avrei dovuto affidare tutto il mio amore senza mai chiedermi se il dubitare avesse fatto più forte la relazione. Ci separammo poi dandoci dapprima la mano, poi avvicinandomi la baciai con la punta delle labbra sulla guancia.
La vidi chiudere gli occhi e respirare tutta l’aria che c’era in quel timido gesto, voluto o non voluto da me e lei.

Di ritorno a casa mi misi seduto per terra e cercai di trovare un po’ di concentrazione, ma il pensiero di lei imperversava tra le nuvole della mia mente.
Rivedevo le sue mani, i suoi capelli, le sue caviglie, i suoi occhi, tutto di lei mi stava attorno, tutto di lei era nella mia testa, e non respingevo quel dolce pensiero, me lo tenevo stretto perché non volasse via dalla finestra aperta di una camera triste e buia.
Avrei amato ancora?
Ci continuammo a vedere con una forza dentro sempre più intensa, sia da parte mia che da parte sua.
In uno di questi incontri rimasi colpito da una sua frase, “tutte ciò che io amo di più mi viene portato via, mi viene tolto, come se io non me lo meritassi”.
Non lo compresi subito e da buon amante risposi: – Nessuno potrà mai portarmi via da te.
Lei sorrise e mi accarezzò il viso, io la baciai con la forza che scaturiva dal mio corpo, ci ritrovammo poi trà le lenzuola profumate di un letto ad amarci con intenso ardore, con la voglia che usciva da tutti i pori. Restai lì tutta la notte, dormimmo insieme e sognai.
Sognai, sognai di un sogno strano: vedevo delle mani su di me che non erano le sue, e delle mani su di lei che non erano le mie, corpi di persone che fluttuavano su di me, e io che vagavo in un intenso fumo d’incenso profumato, e poi acqua che si trasformava in sangue e candele accese che resistevano ad un vento impetuoso.
Mi svegliai di soprassalto, tutto sudato, mi girai verso lei, non la trovai.

Mi alzai dal letto, mi misi i pantaloni e a piedi nudi andai in cerca di lei.
Saranno state le due, forse le tre della notte, non riuscivo a trovarla per la casa, ero tutto agitato, uscii dalla porta posteriore che portava nel giardino; e la vidi.
Era in mezzo al prato che circondava la casa, vestiva solo di una tunica celeste.
Non mi feci sentire, lei era con le mani al cielo, recitava una cantilena continua, ripetitiva, la testa che guardava l’erba.
La osservai da lontano, saranno stati dieci, forse venti metri, non sapevo se avanzare o rimanere lì a guardare, ero come bloccato. Le mie gambe e le mie braccia non volevano muoversi.
Ad un tratto vidi che non poggiava i piedi per terra, la vidi alzarsi sempre di più, fino a rimanere a due metri dal suolo.
Credevo di sognare ancora ma era tutto vero, lei lì che “volava”, io dietro pietrificato. Non osavo parlare, addirittura neanche pensare, furono minuti lunghissimi, finche non finì tutto con una sua caduta per terra; io accorsi a soccorrerla.
Quando fui li vidi che dormiva e non ebbi il coraggio di svegliarla.

Dopo un tempo che classificai in pochi minuti lei riaprì gli occhi e mi guardò, non disse niente ma sul suo volto due lacrime sgorgavano dagli occhi.
Le sue uniche parole furono: –Ora hai capito tutto.
Non fiatai, ma dentro di me avevo capito che era una persona particolare, era forse unica nel suo genere con dei poteri che non riuscivo a descrivere bene.
Non sapevo più cosa dire, o se dire qualcosa avesse potuto servire, le sorrisi, le accarezzai il viso bagnato di pioggia degli occhi, che faceva apparire tutto il temporale, la tempesta che c’era in lei.
La feci alzare e, tenendola strettamente abbracciata, la portai con me in casa.
La coricai a letto come fosse una bambina, mi sedetti vicino a lei e le sussurrai: –Non sarà certo questo che cambierà qualcosa tra me e te.
E poi per sdrammatizzare: –Questa cosa mi intriga di più– e ancora –Ora capisco perché mi sentivo totalmente stregato da te.
Lei sorrise e rise, rividi in lei la gioia che cercavo da tempo, la gioia di sentirsi felici con accanto una persona che ti comprende e ti ama.
Passammo la notte a parlare, lei mi raccontò dei suoi amori finiti per questo “problema”, come lo chiamava lei. Si era accorta da piccola che le succedevano strane cose, spostava gli oggetti, accendeva il fuoco col pensiero, leggeva nei pensieri altrui, poi col tempo le cose si erano accentuate e le persone che le stavano attorno avevano sfornato un alone di paura, se così si può dire, e la avevano abbandonata a se stessa, per paura.

Ma mi disse: –Con te ho ritrovato la voglia di esistere, di continuare a vivere e gioire, non ti voglio perdere, ma ho tanta paura di farti del male, non solo psicologico ma anche fisico; vedi, a volte non riesco a controllarmi, in special modo nelle notti di congiunzione di due segni: capricorno e vergine.
Io le dissi di essere nato nel segno del capricorno, pensavo fosse solo una coincidenza, lei mi guardo e rabbrividì. Mi disse con paura: –Il giorno peggiore sarà il 30 di dicembre, quando ci sarà la congiunzione alle ore 20.00.
Non le risposi, quella data era il giorno e l’ora in cui io ero nato.
Coincidenza, fatalità, mistero, fato.

A pensarci bene poi, cosa sapevo di lei?
Quello che mi era stato concesso di conoscere di lei, era quello che lei, alla fine, mi aveva detto, confidato. Forse già bastava quello, cosa mi interessava sapere più di quello che mi dicevano i sensi, l’olfatto, il gusto, il cuore?
L’età per esempio; non riuscivo a darle un età, poteva averne oltre i venti, trenta oppure quaranta o cento, pensandoci un po’.
Ma la cosa che più mi assillava era questo enigma che si stava instaurando dentro, la paura, se cosi potevo chiamarla, che si annullava ogni qual volta le ero vicino, che lei si appoggiava a me, che ci accarezzavamo, che insieme si respirava. Ogni volta che questo succedeva, tutto si escludeva, tutto diventava nulla e il nulla non esisteva più.
Era propriamente magico, profetico, estatico, tipico di due persone che si amano, e questo bastava per non pensare ad altro, solamente a noi.
Non passavo tutte le notte da lei, anzi a volte aspettavo che lei mi chiedesse di restare, a volte glielo chiedevo io se voleva che io restassi, a volte ancora nessuno dei due si pronunciava e rimanevo lì lo stesso.
Mi piaceva dormire con lei, svegliarmi con lei e certe volte la cercavo con la mano e il più delle volte sentivo il suo corpo caldo e nudo vicino al mio, sentivo l’energia passare dalla sua pelle alla mia e alla mattina mi svegliavo carico, euforico, vivo.
A volte, ancora ci svegliavamo assieme, nello stesso istante, anche nel cuore della notte, come se un richiamo o una sveglia nelle nostre menti ci squillasse dentro, e come dicevo dopo poco che eravamo svegli i nostri corpi si avvinghiavano in un abbraccio estatico coronato da baci finalizzato il tutto nel concludersi nel fare l’amore.
Quand’ ero a casa mia, invece, cercavo di passare il mio tempo, oltre che nel lavoro, e nel pensare a lei e dedicarle tutto il tempo che mi fosse stato possibile, anche nel fare della meditazione, per non dimenticare il mio equilibrio interiore.
E quest’ultima, la meditazione, mi aiutava a non pensare a quel giorno che doveva essere funesto, o almeno era quello che ormai si era instaurato, inchiodato, nella mia mente.

Il tempo passava; eravamo, ridendo e scherzando, arrivati quasi all’estate.
Già si presagiva che sarebbe stata un’estate calda e densa di umidità, quell’umidità che ti fa colare, sciogliere come burro sul fuoco. Ma nonostante questo io amo l’estate, per tutto ciò che porta; le giornate di sole e la luce persistente fino a sera, i crepuscoli incendiati e i mattini risvegliati dal canto di mille uccelli.
Lei invece sembrava non soffrire il caldo torrido delle giornate di luglio, anzi si metteva al sole, nel suo giardino e n’assaporava i raggi, ne incamerava il calore, succhiava il nettare vitale dal grande astro, come se tutta l’energia che scaturiva da lei fosse dovuta a quella gran palla di fuoco.
Di fatti, tutta la forza e l’energia, come dicono i grandi saccenti, viene dai quattro elementi: terra, vento, acqua e fuoco.
Il sole simboleggia uno degli elementi più forti: il fuoco.
Di notte però, quando la luna splendeva totale nel cielo, lei usciva e con le braccia rivolte al cielo, come la vidi la prima volta, si caricava di quell’abbraccio di luce fredda che il satellite poteva regalarle.
Io da lontano, da dietro le finestre della sua stanza, la osservavo. Sembrava una sacerdotessa dei grandi tumuli del sud della Gran Bretagna, tra gli alberi che facevano da menhir, sacrificava tutta la sua beltà al vento che le soffiava tra i lunghi capelli e le fasciava la tunica come in un abbraccio, fino a conformare il suo corpo esile ma forte.
Io da dietro quei vetri, come di ghiaccio tremavo, perché temevo per lei, che crollasse a terra facendosi del male nei suoi riti.

Non le impedii mai di fare ciò che voleva, o meglio, che doveva fare per onorare come stava scritto nei suoi libri, che ovviamente non mi aveva mai fatto leggere, non perché non volesse, ma perché forse non ne avrei capito niente, e anche se avessi capito qualcosa, non n’avrei assaporato tutto quel nettare che lei e la sua dinastia si erano tramandati.
Me lo disse un giorno: –Io vengo da molto lontano, nel tempo e nello spazio, da dove si mantengono ancora immutati nel tempo i riti della natura, della fertilità e della forza, per questo, quella volta che ti vidi, seduto nella posizione di brama, del saggio, ho capito che eri una persona che come me amava tutto ciò che è semplicità, dolcezza che onora la vita e la natura del mondo, fin nelle cose piccole, che sembrano quasi insignificanti, ma che sono forse le più importanti nello scorrere del tempo, nella vita di ciascuna persona.
Non le dimostrai mai il mio timore, la mia paura per quel giorno che prima o poi doveva arrivare, e non chiesi mai cosa funestava la nostra grande storia, né lei mi accennò più niente, in quella grande estate di gioia per me e per lei.
L’unica cosa che temevo tanto era di perderla, ma lei mi aveva insegnato che il futuro ce lo costruiamo giorno per giorno, con i nostri gesti e le nostre opere, verso chi ci vuole bene e chi non ce ne vuole, o almeno non ce lo sa dimostrare.

Ma nella notte di mezza estate, quando il sole si ferma all’apice del cielo come una lancia che si conficca nella terra, lei si avvicinò a me e mi sussurrò testuali parole;
— Io me ne devo andare per un po’ di giorni, non aspettarmi, non cercarmi, ho bisogno di un po’ di tempo per pensare.
Lì ebbi una paura, che poi si trovò ad essere infondata, quella che avevo già provato un tempo con un’altra donna a cui avevo donato tutto il mio cuore, il mio amore, le mie speranze.
Avevo imparato che quando una donna ti chiede del tempo devi prendere armi e bagagli e chiudere i rubinetti dell’amore, perché significa che ormai tutto è finito.
Con lei non fu cosi.
Dopo pochi giorni la vidi tornare in quel bosco che ci fece incontrare la prima volta, come sapesse che io sarei andato li, in quel giorno, in quell’ora, in quell’istante.
Ovviamente per me non fu una sorpresa, la conoscevo ormai, e sapevo che lei sarebbe sbucata all’improvviso, ritornando a donarmi tutta la sua leggiadria, la sua beltà, il suo amore.
Fu bellissimo rivederla, ci toccammo le mani e con le stesse, il viso, e tutto fu di nuovo dolce tenerezza e tanto, tanto amore.
Non le chiesi dove fosse stata, non le chiesi con chi e lei apprezzò questo mio essere fiducioso nei suoi confronti, perché sapeva e sapevo che la gelosia, anche se parte integrante di un rapporto amoroso, non scalfiva nemmeno un po’ il nostro grande e maturo amore.

Mentre i giorni passavano lievi sui nostri corpi e le nostre menti, vivevamo nel tempo giocando il nostro tempo tra le spire della serpe che continuava a ridestarsi nei miei pensieri, nel giorno che doveva venire.
Eravamo ormai arrivati al solstizio d’estate, il giorno del passaggio dalla stagione lucente, alla stagione del vento padrone, colui che le foglie fa ingiallire, invecchiare e cadere al suolo.
Io ero alto nel cielo coi miei momenti di gioia, e non volevo cadere per terra con l’autunno, anzi si anticipò un autunno calmo, con lei accoccolata tra le mie braccia, ad aspettare momenti d’intimità e piacere.
Presi la forza e l’energia tra le pieghe delle mie mani, e decisi di chiedere spiegazioni, per quel tarlo che rosicchiava la mia mente.
Lei allora mi parlò con voce dolce e suadente:
–Quel giorno sarà un giorno diverso dove le forze del bene e del male si incontreranno, si scontreranno per avere la meglio l’una sull’altra, il bene non ha ragione di esistere senza il male, io quel giorno devo riuscire a non fare che il male si impossessi di noi del nostro vivere, del nostro amarci. Io non potrei amare nessuno, è la legge, ma sono pronta a rinunciare tutto per l’amore che provo per te, so che è un amore vero e non voglio perderlo, ci aiuteremo a vicenda per far sì che tutto vada per il meglio, ma tu devi fare ciò che io ti dirò di fare; non ti ho mai chiesto nulla, ora ti chiedo di giurarmi che mi seguirai, fino all’inferno se ci fosse bisogno.
Devo vincere quella maledizione che persiste in me da tempo e con te ci riuscirò, così uscirò per sempre da questa dannazione che fa morire ogni volta ogni sensazione viva dentro di me e mi fa perdere le persone che mi sono vicine e mi amano. La potenza del drago ci darà la forza di riuscire, lo stesso drago che porti tatuato sul petto.

Era tutto cosi lucido ormai nella mia testa, ero predestinato per lei, avevo veramente un drago tatuato sul petto, un drago con la spada sguainata. Le giurai tutto e ci aggiunsi il giuramento di fedeltà verso di lei, non avevo scelta in quel momento, oltremodo lo volevo anch’io. Lei mi abbraccio con un calore immenso e non ci lasciammo per alcuni minuti; ci amavamo veramente.
E i giorni passavano lenti immobili, in un atmosfera di provincia, tra il tran tran giornaliero e momenti veri, strani e pazzi con lei.
Quest’autunno l’aveva un po’ trasformata, o forse era diversa per l’arrivo della stagione fredda e per il giorno del “drago” come me l’avevo soprannominato scherzosamente, o per sdrammatizzare. Ci fu un giorno che volle andare al mare, niente di strano, ma ci volle andare alle due di notte, perché a quell’ora, disse, c’era l’influsso di venere associato alla falce di luna. La portai in una spiaggetta che conoscevamo in pochi, si dice sempre così, poi d’estate è più affollata di Miami Beach.
La portai, dicevo, e lei cominciò a disegnare sulla sabbia un cerchio, ci dispose tre candele accese, e comincio a danzare come non l’avevo vista mai fare prima, danzò come sentisse una musica dentro, una musica incessante, martellante, forse ossessionante.
La guardavo da poco lontano, era lei che voleva che io rimanessi lì a guardarla come se temesse che le potesse succedere qualcosa e io fossi lì pronto a soccorrerla.
Osservavo tutti i suoi movimenti lenti e veloci allo stesso tempo, sì, sembrava proprio una sacerdotessa celtica.
Poi cominciò, oltre che a danzare, anche a recitare una nenia che non avevo mai sentito, in una lingua strana che io reputai gaelico, un linguaggio che viene parlato ancora adesso in Irlanda, da pochi e vecchi abitanti dei villaggi. Era una cantilena incessante, continua, ad ascoltarla ti sentivi quasi ubriacare.

Continuò per quasi mezz’ora, poi si fermo inginocchiandosi al suolo.
Non lo so se fu la mia immaginazione, o la nenia che m’ingrippò il cervello, ma l’acqua cominciò, da calma che era, ad agitarsi come se stesse arrivando un forte temporale. Quello che era più strano è che non c’era un minimo segno di vento.
Mi alzai di scatto dal mio sgabello naturale fatto di roccia spigolosa, non riuscivo più a stare fermo, e quel poco di luna che c’era illuminò una fetta di mare, ed è proprio da lì che si affacciarono sette delfini che cominciarono ad emettere il loro grido, un grido di saluto e di festa alla donna che loro vedevano sul bordo della spiaggia.
Rimasi di sasso, ancora una volta, ero preparato a tutto, ma questo mi lasciò a bocca aperta per tutto il tempo, circa dieci minuti di “concerto” dedicato a lei, poi tutto finì e i delfini sparirono tra i flutti del mare, tornato calmo e silenzioso di una notte tiepida di fine settembre.
Passammo un po’ di tempo in spiaggia sdraiati sulla sabbia, con una coperta che ci faceva da riparo per l’umidità che cadeva.
Volemmo allora fare l’amore e lo facemmo, senza nessun timore di nulla e nessuno, nell’oscurità che ci contornava e il rumore del mare che ci faceva da sottofondo rotto solo da gemiti e grida di piacere.
Era fantastica nel suo darsi a me, non ci chiedevamo mai di giacere assieme, veniva tutto così spontaneo e semplice.
Tornammo a casa che era già l’alba, io la lasciai sulla porta di casa e me ne andai direttamente al lavoro, ero felice e calmo allo stesso tempo, sprizzavo euforia da tutti i pori ma non ne davo a vedere, e la stanchezza non si fece sentire, neanche a fine turno.
Me ne ritornai subito da lei dopo il lavoro, anche perché ormai eravamo una coppia fissa.
Era sempre felice nel vedermi, mi accoglieva sulla porta d’entrata con un grande sorriso, ci abbracciavamo subito, tenendoci stretti stretti per alcuni secondi interminabili e nessuno dei due non voleva mai staccarsi per primo. Lei mi considerava il suo uomo e io la mia donna, non c’era nessun accordo stillato fra noi, ma sapevamo, anche senza dircelo, quello che volevamo.

L’amore è un’entità strana, nasce quando meno te lo aspetti, quando vuole lui, nel modo che si prefigge, e con chi meno crederesti. E in altrettanto modo con cui nasce, svanisce senza un perché, un motivo o una ragione.
Non serve cercare la persona giusta, se deve essere, prima o poi arriva, facendo un macello dentro di te, nella tua anima, nelle tue budella, per poi appianare tutto e rimanere dentro piantandoti il grano della felicità.
Fino a quando ?
Lei lo temeva, temeva quel giorno come fosse la fine del nostro amore, ma con tutte le sue forze voleva che questo non succedesse e per quel poco che potevo conoscerla, sempre se si può dire di conoscerla una donna, ci sarebbe riuscita; perché lei ci credeva. Credeva nel nostro rapporto nato così, forse per caso, credeva nell’amore, credeva in se e in me.
Ma il tempo inesorabile compagno di viaggio di tutti, stava già stampando il suo calendario, portando quel giorno funesto sempre più vicino a noi.
Non avevamo calcolato tutto, pensavamo che il problema arrivasse quel giorno fatidico, invece i primi effetti si videro già dal primo di dicembre.
Sembravano, a me, casualità, ma lei che conosceva bene i danni di ciò, li riconobbe subito.

Il tutto comincio con cose semplicissime, banali, bicchieri che cadevano, come se fossero stati posati sul posto in malo modo, quadri che si staccavano infrangendo la cornice e il vetro o finestre che si aprivano e sbattevano, riducendo il vetro, seppur grosso, in mille pezzi. Vidi lei più tesa del solito, ma pronta come non mai in difesa di tutto ciò che credeva suo, in ciò che amava di più, in ciò che le restava.
Io dapprima non l’avevo notato, ma poi vedendola più tesa del solito, capii che le cose si stavano facendo gravi.
–Il momento sta arrivando– disse– a poco a poco: ci dobbiamo preparare, sia io sia tu.
Io non sapevo ciò che dovevo fare, ma lei stava già organizzando tutto, da qualche tempo, fin nei minimi dettagli. A metà del mese, in una serata fredda dove il gelo aveva già imbiancato i rami di brina, il mandorlo che si stagliava davanti alla finestra, mi chiese di sedermi per terra e di concentrarmi, io lo feci senza esitare, e mi concentrai intensamente, più del solito.
Ero arrivato ormai in una forma di concentrazione molto alta, ormai praticavo lo yoga da parecchi anni.
Lei si sedette davanti a me, allo stesso modo mio, era la prima volta che la vedevo fare ciò, ma non mi impressionò, prese le mie mani, sentii un brivido lungo la schiena, ma continuai la concentrazione, senza distrarmi. Ad un certo punto sentii che mi stavo alzando dal pavimento, non mi era mai successo, ma sapevo che poteva succedere di levitare quando si fanno certi tipi di meditazioni, il fatto strano era che vedevo tutto quello che succedeva.
Vedevo lei sotto di me e, cosa ancor più strana, vedevo me con lei.
Non era il mio corpo che si alzava dal suolo, ma era il mio spirito; mi prese il panico, ma cercai di mantenere la calma.
Nella stanza tutto cominciò a turbinare nell’aria, le candele si accesero d’un botto e un vento freddo iniziò a soffiare; la battaglia stava per cominciare, forse non quella decisiva, ma una delle tante che il mio istinto presagiva dovessero arrivare.
Lei non perse un solo istante, cominciò a formulare ad alta voce delle formule magiche, sempre più velocemente, sempre più forte.

Il freddo era sempre più intenso, lo sentivo addosso come un coltello che attaccava la mia pelle e le mie ossa; ma resistevo.
La porta d’entrata si spalancò e un urlo animale, disumano, si sentì nell’aria; poi il nulla.
La vidi dall’alto del mio pulpito d’aria crollare dallo sforzo nel contenere quella rabbia animale che veniva da quell’entità, almeno credevo, che non avrei nemmeno potuto immaginare.
Non sapevo come soccorrerla, mentre sentivo il suo spirito, lei stessa che entrava in me.
Volevo tornare alla realtà, ma non sapevo come fare.
Ad un tratto sentii i piedi vibrare, poi le gambe e le braccia: tutto vibrava, il mio corpo sembrava scosso da una forte scossa tellurica, un terremoto si era instaurato in me.
Il respiro mi mancava, non capivo cosa mi stesse succedendo.
Alla fine mi sentii cadere come se fossi precipitato da un altezza stratosferica.
Non persi conoscenza, anzi mi rialzai subito con le gambe che tremavano e il respiro affannoso, la cercai con le mani.
La trovai, mentre la vista cominciava snebbiarsi; era calda bollente, mi prese, mi abbracciò singhiozzando: –Abbiamo vinto la prima battaglia– mi sussurro all’orecchio– ma tornerà, oh sì, tornerà e forse più forte di prima.
Ritornammo alla realtà.
— Dobbiamo rimboccarci le maniche per rimettere a posto la stanza– le dissi, ci guardammo attorno e fui stupito nel vedere che nulla era stato spostato dalla posizione che era prima del fatto.
Lei mi guardò con un mezzo sorriso: –Devi imparare a scindere ciò che è realtà nel mondo normale e quello che è realtà nella mondo della magia– mi disse con un po’ d’altezzosità, ma poi ritornando ciò che era sempre stata, continuò– è molto diverso, sai, molto diverso.

Decidemmo di fare un bagno caldo entrambi, lei mise in vasca delle foglie di tiglio e altro, ma non volle dirmi cos’era quella polvere scura; forse una radice triturata o forse chissà, ma non aveva molta importanza adesso.
C’immergemmo fino al collo e rimanemmo assieme, vicini per lungo tempo, immobili, senza parlare, con l’acqua che ci rilassava e ci faceva da barriera dall’aria attorno.
E venne il giorno di Natale, passammo la giornata assieme.
Lei mi preparò una cena particolare, a base di prodotti vegetariani.
Poi uscimmo, andammo in città a passeggiare tra luci e colori che fanno del Natale il giorno più raggiante dell’anno.
Verso mezzanotte ce ne tornammo a casa, aprimmo la porta e un intenso odore misto di zolfo e acido si portò alle nostre narici.
Era stato qui!
Sul muro un grosso coltello conficcato nella parete stabiliva il suo passaggio, la paura ci attanagliò la parola.
Nessuno disse niente, levammo quel macabro ornamento dal muro, lei lo prese e lo portò in giardino, accese un piccolo falò e fece uno strano rito per renderlo inutilizzabile, come per esorcizzarlo.
Ce n’andammo a letto, non dormimmo quella notte, ma restammo vicini per non perdere quel calore che ci univa, per assaporare tutti quei momenti che la vita ci regalava, come fossero gli ultimi che potevano avere l’uno dall’altro.
Ma l’amore ci univa tremendamente tanto, noi puntavamo tutto su quello. La sua purezza ci avrebbe protetto.
Ormai la forza del male c’era attorno, premeva alle porte della nostra paura, ma non ci sentivamo soli; lei ascoltava il suo cuore, il suo sapere e sentiva che la forza del drago c’era vicina, ma per il momento restava l”, latente, in un angolo ad aspettare che fosse ci fosse il momento giusto per apparire e protrarsi davanti come scudo a proteggerci.
Si, ma quando?

Eravamo ormai arrivati al giorno predestinato; io compivo gli anni, i miei trent’otto anni, una data importante, la prima che trascorrevo da single, anche se poi singolo non ero; c’era lei con me!
Al mattino mi alzai un po’ tardi, erano già le nove, io ero abituato a svegliarmi presto, ma quel giorno, chissà perché, mi svegliai più tardi del solito.
Lei era in cucina, sentivo un profumo intenso di dolci, n’ero un gran goloso, e saltai giù dal letto.
La vidi davanti al forno tutta intenta a lavorarci sopra, mi avvicinai e l’abbracciai da dietro mordicchiandole l’orecchio e la gola come un vampiro affamato di lei e del prodotto che emetteva quel meraviglioso profumo.
La tavola era pronta con le tovagliette e un the caldo.
–Siediti che facciamo colazione– disse– buon compleanno, sai, il primo con me, e non sarà certo l’ultimo.
La abbracciai con grande affetto.
– Grazie, di cuore, grazie– sussurrai tutto emozionato.
Facemmo colazione insieme, poi ci vestimmo e uscimmo.
Avevamo deciso che quel giorno lo avremmo passato assieme a vagabondare in giro, senza meta e così facemmo.
Prendemmo la mia macchina, facemmo il pieno e poi via, verso lidi sconosciuti. Passammo tutta la giornata in montagna, la portai sulle più alte cime che si poteva raggiungere con l’automobile e poi a pranzare in una baita, con cibi caratteristici del luogo, anche se un po’ proibitivi per noi, che avevamo deciso d’essere vegetariani convinti, uno strappo ogni tanto si poteva fare.
Poi a rotolarci tra la neve e a giocare come due bambini, alla fine lo eravamo, dentro, due Peter Pan che avevano deciso di non crescere, almeno per quel giorno. Al ritorno ascoltammo la radio per tutto il tragitto, lei poi prese sonno in macchina, io cominciai a pensare a tutto il tempo che avevamo trascorso insieme da quella lontana primavera che ci fece conoscere.
Erano passati ormai nove mesi, nove lunghi mesi, densi di emozioni che si susseguivano giorno per giorno. Non avevamo mai avuto, insieme, una giornata che si potesse dire noiosa, anzi ogni momento passato insieme era un meraviglioso momento di scoperte e sensazioni nuove.
Ma eravamo giunti ormai al momento più duro del nostro vivere e conoscersi. Mi misi a pregare, mentre lei continuava a dormire, io pregai, pregai che quel giorno, troppo bello, non fosse stato l’ultimo assieme.

Tornammo a casa che erano ormai le sei di sera, lei aprì la porta e corse nella stanza, aprì il baule che aveva vicino all’armadio e ne estrasse un rotolo di pergamena.
Poi prese delle candele e andò in salotto. L’aiutai a spostare tutti i mobili fino a fare un largo spazio.
Lei si mise al centro della stanza e cominciò a tracciare con del carbone un gran cerchio per terra, vi scrisse ai lati dei segni che a me sembravano indecifrabili, e sempre seguendo le indicazioni della pergamena ci ponemmo al centro.
La luce fu spenta e le candele accese spostavano le nostre ombre da un lato all’altro della stanza.
Ci sedemmo e ci demmo le mani, lei mi baciò sulla bocca, come fosse l’ultima volta che poteva farlo e mi disse con una calma che nascondeva una grande tensione dentro:
–Ti amo, ti amo tanto– glielo dissi anch’io, e lei –abbi fiducia e non avere mai paura, qualunque cosa succeda.
Aspettammo, io non sapevo cosa, lei credo di si, ma aspettammo mani nelle mani.
Cominciammo il rilassamento, cominciando dall’alto fino alla punta dei piedi, eravamo pronti.
Il campanile della chiesa rintocco le 20.00, era arrivato il momento, la congiunzione parallela dei due segni era avvenuta, capricorno e vergine erano uno davanti all’altro, si fronteggiavano.
Gli effetti non tardarono ad arrivare, il gelo cominciò farsi sentire e un sibilo accompagnato dal verso animale, che avevo già sentito, arrivò impetuoso, più forte, fino a farmi vibrare le ossa.
Cominciai a levitare sulla stanza, il mio corpo rimase ai miei piedi, vicino a lei e tutto ricominciò a turbinare con una forza maggiore della volta prima.
Lei comincio a gridare ad alta voce la formula che aveva imparato dalla pergamena, i suoi occhi erano illuminati di un verde fosforescente e i suoi capelli svolazzavano al vento che sempre più forte soffiava nella stanza, rimbalzando da una parete all’altra.

D’un tratto una luce fortissima, accecante si stagliò al centro del pavimento, fino a formare una roccia alta circa due metri. Non era una roccia normale, sembrava di cristallo e al suo interno si poteva intravedere una massa informe che si muoveva senza posa.
Uno scoppio fragoroso fece andare in mille pezzi il voluminoso cristallo, e le schegge andarono a conficcarsi un po’ dappertutto; tuttavia nessuna colpì me e lei.
Eravamo d’un tratto avvolti da una luce, era il respiro del drago, che ci proteggeva.
Sentivo il tatuaggio sul mio petto che bruciava, nulla in quel momento poteva farmi perdere la concentrazione, era questione di vita o di morte.
La massa informe che era scaturita dalla pietra cercava invano di penetrare quella luce, emettendo urla rabbiose, girava attorno al cerchio senza riuscire ad entrarvi, e la rabbia che ne scaturiva faceva tremare le mura della casa.
Ebbi paura che ci crollasse addosso, ma sembrava che nonostante tutto la struttura resistesse.
Ad un tratto lei si alzo in piedi, anzi il suo spirito si levò, dalle vesti estrasse il coltello che avevamo trovato conficcato sulla parete, gridò ad alta voce un’altra frase che io non capii.
La “bestia” per un attimo si fermò come rapita dal grido, quello bastò perché lei gli conficcasse la lama nel centro del capo.
Una luce ancora più accecante invase la stanza, il vento gelido cominciò a soffiare senza posa, con la forza di un tifone, il petto mi bruciava come un tizzone ardente dell’inferno, non riuscivo più a resistere.
Lei era caduta per terra e sbatteva tra le pareti di quel cerchio magico. Interminabili secondi passarono fino a che un fragoroso tuono e uno scoppio di luce non mise fine a tutto.
Caddi per terra e persi conoscenza.

Non so più cosa successe poi.
Mi svegliai che era già mattino, con la luce che entrava dalla finestra, avevo una coperta sopra di me.
Lei era rannicchiata sul divano, mi alzai di scatto e le andai vicino, la baciai sulla fronte, lei aprì gli occhi, mi sorrise:
– Ora è veramente tutto finito, siamo liberi, liberi, liberi di amarci per sempre.
Il bene aveva vinto ancora una volta sul male.
Non le chiesi mai spiegazioni più precise del perché, o del percome; non volevo più entrare nell’argomento.
Volevo solo vivere, vivere la mia vita con lei, lei che mi aveva dato tutto il suo amore, aveva risvegliato i miei sentimenti e la mia voglia di vivere ancora.
Era l’ultimo giorno dell’anno, l’anno più intenso della mia vita.
Era l’ultimo giorno dell’anno, ma il primo della mia nuova vita insieme a lei.

 

Autore: Giules La Cheise
Messo on line in data: Luglio 2002