EDGAR ALLAN POE di Redazione
Conosciuto per le sue poesie e per i racconti brevi ricchi di fascino e accenni occulti, Edgar Allan Poe nacque a Boston il 19 gennaio del 1809. Apprezzatissimo per l’abilità di aver spesso trasformato la sua arte in piccole perle di saggezza, si impose sul panorama letterario del suo tempo anche grazie ad aforismi che lo hanno poi reso famoso nel tempo e nello spazio.
“E se guarderai a lungo nell’abisso anche l’abisso vorrà guardare in te.“
“Dichiarare la propria viltà può essere un atto di coraggio.“
“Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte.“
Nelle sue parole riecheggia costante il richiamo alla vita dell’immaginifico e della fantasia, lasciati correre a briglie sciolte verso slanci di arte e creatività tra i più toccanti della letteratura americana.
D’altronde non poteva essere altrimenti, essendo Edgar figlio di due attori – David Poe ed Elizabeth Arnold Hopkins – ed avendo vissuto un’esistenza che correva sul filo di un rasoio, in cui ogni singola esperienza toccava le corde del suo spirito dalla natura assai sensibile.
Dopo un’adolescenza trascorsa in Inghilterra, dove studiò per circa 5 anni, Edgar entrò nell’Università della Virginia. Vi rimase però appena un anno, a causa della sua passione per il gioco d’azzardo, che lo condusse spesso sul lastrico e all’impossibilità di pagare i debiti che contraeva con amici e compagni; rimasto senza alcun mezzo di sostentamento scrisse il suo primo libro, Tamerlane and Other Poems – opera scritta in versi, alla maniera di Byron – che fu accolto dal pubblico nella più totale indifferenza.
Umiliato e sconfitto, Edgar si arruolò nell’esercito dove rimase fino al 1829, anno della morte della sua matrigna. In seguito ad un riavvicinamento al patrigno, riuscì a evitare di tornare alla vita militare. Rifiutò però di ricevere sostentamento economico dal patrigno e si trasferì a Baltimora a casa di una zia; entrò quindi nell’Accademia di West Point, da dove però, nel giro di poco tempo, fu cacciato a causa della sua indisciplinatezza e dei suoi capricci.
Dopo una breve sosta a New York nel 1831, ritornò a Baltimora, dove pubblicò i suoi primi cinque romanzi: Metzengerstein, The Duc of l’Omelette (Il Duca dell’Omelette), A Tale of Jerusalem (Racconto di Gerusalemme), A decided Loss (Una Perdita Decisa), The Bargain Lost (L’affare Perso).
Nel 1833, grazie al racconto M. S. Found in a Bottle, vinse un premio di 50 dollari, istituito dal Baltimore Saturday Visitor. A quel punto, assieme alla zia e alla fidanzata Virginia, lo scrittore si trasferì a Richmond e nel 1835, dopo essere divenuto editore del Southern Literary Messenger, sposò Virginia appena quattordicenne.
Pian piano si fece conoscere dall’ambiente intellettuale a lui circostante grazie ai suoi elaborati seri, analitici e devoti alla scrittura come fonte di estro artistico. Non fece segreto della sua profonda ammirazione per Charles Dickens, che si trovava agli albori della sua attività artistica, ma allo stesso tempo fu sferzante contro certi autori a lui contemporanei. I suoi contributi divennero importantissimi per l’incremento dell’attività del giornale presso cui lavorava, tanto che fu presto promosso a vicedirettore.
Questo periodo, tuttavia, fu uno dei più difficili della vita di Poe poiché, nonostante il successo che riscuoteva come giornalista, i guadagni non risultavano direttamente proporzionali al suo impegno. Il pubblico e la critica, comunque, presero presto ad esempio i canoni di scrittura da lui lanciati e la formula da lui elaborata, secondo cui il posto d’onore andava ai racconti brevi.
La brevità dei testi fu infatti osannata e suggerita da lui come modello di scrittura par excellence nel suo The Poetic Principle (Il principio Poetico). Esempi di tale scrittura furono così Ligeia, The Fall of The House of Usher (La Caduta della Casa Usher) e The Oval Portrait (Il Ritratto Ovale). Non va nemmeno dimenticato che Edgar Allan Poe fu perfino considerato l’iniziatore dei romanzi gialli, con The Murders in the Rue Morgue (Gli Omicidi nella Rue Morgue). Caratteristica della scrittura di Edgar Allan Poe fu poi la musicalità dei versi, l’intensità dei vocaboli scelti a suffragio di contesti a tinte scure e spesso profondamente gotiche. The Raven (Il Corvo) ne costituisce un esempio illuminante e ha ispirato la trama del film Il Corvo, in cui l’attore Brandon Lee perse la vita in circostanze tuttora ambigue e misteriose.
Gli ultimi anni della vita del poeta furono i più turbolenti e difficili: nel 1847 morì la moglie Virginia di tubercolosi; la condizione economica della famiglia Poe scivolò lungo i pendii oscuri della miseria.
Nel 1849 Edgar rincontrò una sua vecchia fiamma – Elmira Royster – e con lei, ormai vedova e benestante, si fidanzò. I giorni cupi che avevano accompagnato colui che è stato più volte definito “Il Demone della Perversità” lungo il sentiero della vita sembrarono sciogliersi alla luce di una nuova alba: Edgar infatti smise di bere e sembrò voler inaugurare un percorso esistenziale assolutamente nuovo.
Purtroppo, però, il destino volle che la morte lo reclamasse proprio in quel momento per lui di rinascita. Dopo aver regalato al mondo emozioni forti e squarci di infinito, Edgar Allan Poe perse la vita durante un viaggio poco prima delle sue seconde nozze. Fu quindi ritrovato senza sensi a Baltimora, nei pressi di un seggio elettorale, in un periodo di tumulti e contrasti dovuti a vicissitudini politiche. Trasportato a Washington in ospedale, abbandonò il mondo il 7 ottobre. Baudelaire, suo traduttore, ipotizzò poeticamente un suicidio intellettuale meditato da lungo tempo.
Coi toni tipici del Romanticismo più cupo, Edgar Allan Poe scrisse Il Ritratto Ovale in perfetto stile gotico. Gli elementi di questa particolare ramificazione della letteratura romantica ci sono tutti: un castello, un fantasma, una storia d’amore dal destino tragico. Il testo risulta quasi saturo di elementi e simboli così cari alla letteratura del sovrannaturale e lo scrittore non dimentica di descrivere ogni piccolissimo angolo in ombra del luogo in cui si svolge la trama del racconto: il castello che è “uno di quegli edifici, tetri e grandiosi insieme”, la stanzetta piccola e poco arredata “sita in una torretta fuori mano”, gli addobbi “di pregevole fattura, ma logori e segnati dall’usura del tempo”, ecc… La storia, raccontata in prima persona, narra le vicende di un viaggiatore ferito che trova riparo in un castello sugli Appennini. Dopo aver scelto una delle piccole stanze della torretta, egli avverte qualcosa di “strano”: i quadri e gli arazzi appesi alle pareti provocano in lui “un profondo interesse, determinato forse dal (suo) incipiente delirio”. In attesa di prendere sonno, quindi, il protagonista si diletta nella lettura di un libricino che illustra i quadri appesi nella cameretta e, nel tentativo di spostare il candelabro per fare più luce sulle pagine del volume, egli si accorge di un quadro che non aveva visto fino a pochi minuti prima. Si tratta del quadro di una fanciulla, racchiuso in una cornice ovale, che lo colpisce per l’autenticità e intensità dei tratti, oltre che per la bellezza della donna ritratta.
Consultandone così le vicissitudini, il protagonista ripercorre a ritroso la storia della nascita del quadro: un pittore, “dominato da un’unica passione, studioso, austero, e che nella sua Arte già aveva una sposa” aveva un giorno incontrato quella splendida ragazza e l’aveva poi sposata. Lei era dolce e remissiva, appassionata e devota al marito e fu per questo che, a malincuore, aveva accettato di farsi da lui ritrarre. Il pittore l’aveva così rinchiusa in quella camera della torretta, al buio, per giorni e giorni, gloriandosi della sua opera giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. “E non voleva vedere che i colori che stendeva sulla tela erano tratti dalle guance di colei che gli sedeva accanto”. Col passare del tempo, però, la poveretta aveva cominciato ad ammalarsi, la sua bellezza ad appassire, le sue gote a scolorire; eppure il pittore non si accorgeva d’altro se non della magnificenza della sua opera.
Fin quando, il giorno in cui egli dette l’ultima pennellata alla tela, guardando il quadro esclamò: “Ma questa è la Vita!”
Ma, nel volgersi verso la sua amata, solo allora si accorse che lei era morta.
La scrittura di Edgar Allan Poe ha così marchiato di rosso la storia di una lunga generazione di scrittori romantici spesso dediti all’horror e alla letteratura da suspance, ma l’ha fatto con una marcia in più rispetto allo stesso Lovecraft a lui spesso paragonato.
Il linguaggio di Edgar Poe risulta difficilmente ruvido o “aspro”; ogni singola parola sembra da lui soppesata al fine di condurre con sé un’emozione sempre diversa. Come onde che si infrangono contro le rive inermi del cuore trasportando suggestioni lontane e sempre nuove, le sue parole – talvolta forti e talvolta tenerissime – si mescolano in una musica infinita e colorata che emoziona senza indugio. Quando ci si avvicina a un testo di Edgar Allan Poe si ha quasi l’impressione di trovarsi dinnanzi a uno scrittore che si compiace non della sua tecnica scrittoria ma delle sue stesse sensazioni, come se con esse danzasse dall’alba fino al tramonto dell’intuizione artistica. E la brevità di un racconto, quale Il Ritratto Ovale, sancisce il legame fortissimo che c’era tra lo scrittore e la sua opera d’arte. Si respira a pelle la passione con cui egli ha nutrito ogni racconto e poesia di vera linfa vitale; un po’ come il pittore del racconto che dedica alla sua opera tutte le attenzioni che avrebbe invece dovuto rivolgere alla moglie. Edgar Allan Poe non risulta mai distante e, anzi, la sua voce narrante incombe sulla scena da dietro alle quinte: invisibile, ma assolutamente palpabile.
L’attenzione ad ogni singolo dettaglio, l’ambientazione spesso realistica che contrasta con l’atmosfera evaporata e sottile a cui solo lui sa dar vita, i colori cupi che sfumano in quelli più tenui di laghi, mari, castelli e monti di un mondo altro, catturano l’attenzione del lettore, abbrancandone l’istinto a cadere in speculazioni critiche dettate dal raziocinio. Edgar Allan Poe va quindi letto col cuore, ma con quella parte di cuore che si trova più al buio, dove le ombre e gli spettri – che poi altro non sono quelle che Burke definiva le emozioni del “sublime” – la fanno da padroni e dove il fascino delle energie occulte intimorisce e attrae fatalmente, facendo presagire dimensioni magiche al di là del velo opaco dell’ordinario e del banale.
Autore: Redazione
Messo on line in data: Settembre 2005