RACCONTI: DESIDERI E IL RE DEL MONDO di Paolo Petitto

Desideri

Chiedete e vi sarà dato…
Quasi mai gli dèi o chi ha forgiato questo mondo esaudiscono le nostre preghiere. O, se lo fanno, ciò accade nel momento sbagliato, quando il desiderio non è più così acuto o quando non puoi più gioirne.
Quella sera mi avvicinai alla chiesa con sospetto, come sempre. Pregai fino all’alba, e con fervore. Una cosa volevo, una cosa soltanto. E allorché essa venne, rimasi più stupito che contento. L’avevo invocata da tempo al mio dio, ma solo ora vedo il suo grugno.
Da una vita credevo di meritare il Paradiso: ma il mostro che ha accolto la mia supplica di farla finita non può venire che dall’Inferno.

 

Il Re del Mondo

L’incendio di una chiesa è uno spettacolo sublime. Tanto più l’incendio di una cattedrale. E’ il mio sogno ricorrente: mandare al rogo le opere più elevate dell’arte umana come si faceva con gli eretici protervi o coi superbi dell’ingegno.
Ammirando il matroneo da una delle balaustre dove sono solito appollaiarmi per studiare il piano di attacco, non mi è insolito imbattermi in un fanciullo che, interrompendo il gioco della sua flebile preghiera, mi guarda come se sapesse. Bruciare una cattedrale! Che idea mirabile, concepibile soltanto da una mente suprema.
Che poi non sia mai riuscito nel mio intento, e per motivi quasi sempre indegni d’essere raccontati, non ha la minima importanza ai fini di questa confessione. Gli è che l’ossessione di tutta una vita mi ha reso insensibile di contro agli sguardi dei bambini come ai crucci di coscienza. Ah, se solo l’organo tacesse! E’ lui il mio maggior nemico, colui che ferma la mia mano e la innalza in un’aura sospesa, senza tempo, dove il dubbio si tinge di perversa mestizia.
Vedete, anche ora la malinconia travisa ciò che di alto e insostituibile ha la mia vita, giacché immaginare la fine è già rimandarla. Forse ho paura di render cenere tesori di tal fatta, in un mercoledì amaro che quel moccioso (mi guarda, mi guarda ancora) trascorrerà in famiglia, nella quiete di un asilo che io non potrò più vagheggiare.
Sono costretto all’odio. Ricordo mio fratello maggiore – buono di cervello, cattivo di cuore – rivedo mio fratello correre tra i canneti e deridere le mie braccia smilze, le mie mani scarnite. Hai le dita di un morto, mi diceva. E lo odiavo proprio perché era vero, e ripeteva quell’offesa con disinvoltura, come a chi non potrà mai renderla. Ma la superbia e la vendetta, che in me nicchiavano, irruppero poi in armi come due fedeli alleate i cui confini non desiderano definire. Ora riposa in pace, poveretto, ricoperto da due strati di terriccio bruciato, e mai nessuno saprà chi è stato.
Chiamarmi criminale non oserebbe neppure un tribunale d’angeli: io stesso, nei momenti di quiete (vale a dire quando contemplo la cattedrale di turno), non saprei spiegare cosa mi spinge a calpestare i tracciati marmorei di un’antichità stanca e immemore. La tentazione a volte turba i miei disegni e quasi mi convince ad abbandonare la città di turno e a non tornarvi mai più. Ma poi la marea instancabile ricresce, e quale fiotto incandescente ravviva l’idea primitiva.

Dopo il giro d’ispezione di ieri, mi sento più disteso. La tecnica d’assalto l’ho già tutta in mente, è un gioco da ragazzi. Oggi l’organo dovrebbe tacere, e se è vero quel che m’ha detto il prevosto (tipo simpatico, il cui viso diviene interessante solo allorché increspa le due malcelate rughe della fronte), la messa da requiem sarà una messa muta. Ah, avessi la forza di dedicarne una al mio povero fratello! L’aldilà deve averlo inghiottito come un confetto che non si può rifiutare, il più presto possibile, svogliatamente. Dirò al prevosto di provvedere. Ma no, perché mai? Meglio lasciare i morti ai morti. Forse che loro si preoccupano di noi? Chi può dirlo!? Tutto è già stato scritto, e i miei rimorsi, se verranno, saranno i suoi vendicatori.
Non è possibile, lo dicevo che si sbagliava. Quel diavolo d’un prete si sbagliava. Anzi, l’ha fatto apposta. Forse sa anche lui, e come tutti quelli che sanno finge il contrario per incastrarti meglio. Simpatico un accidenti, la musica è più forte che mai. Dev’essere un morto impegnativo, le navate sono in gran pavese. Ecco la cripta dove ho incontrato quel furfante: ucciderò anche lui.
L’ispezione per la cattedrale non mi ha soddisfatto. Quell’odore d’incenso mi deprime.
– Scusate… – mi dice qualcuno dal buio. Mi volto, strizzando gli occhi scorgo un essere claudicante, anche lui puzzolente.
– Beh, che c’è?
– Scusate… vi ho visto fissare la cripta e…
– Sì – rispondo – le cripte mi piacciono. Tutto quel che sta sottoterra mi piace.
– Vede che non mi sono sbagliato. La chiesa ha qua sotto una dozzina di celle. Collegate fra loro.
– Davvero?
– Sì. E nessuno lo sa.
– Tranne voi, suppongo.
Mi chiedo se quell’uomo, che somiglia più a un insetto spiaccicato che a un uomo, adeschi tutti quelli che rimirano il sotterraneo. Pare Quasimodo sbalzato dalle pagine di Hugo.
– Io non conto, signore. Io non conto.
Visto che non do corda, lui insiste. Basta un tenue legame tra due persone per azzardare ogni sorta di allusioni, banali e oziose come tutte le allusioni.
– Potrei accompagnarvi…
– Accompagnare me? Laggiù?
– Certamente.
– Ma lei chi è, scusi?
– Oh, sono il diacono del capitolo, ma non lo faccio per lucro, credetemi. Soltanto, so distinguere lo sguardo d’un amatore d’arte.
“Amatore d’arte” non l’avevo ancora sentito. Il diacono del capitolo, eh?
Si affretta al pertugio, e con gesto agile e sicuro apre la piccola inferriata rozzamente istoriata.
Il sedicente diacono previene i miei pensieri e spiega che quelle brutte sculture risalgono ad epoca di molto posteriore alla costruzione della cattedrale. Come se la storia, da sé sola, sciogliesse gli arcani estetici! Sorride, il gobbetto, sorride e mi precede. Lo strano abito che indossa ha un taglio che non stonerebbe tra i clangori mistici di un Alto Medioevo né alla ricca tavola di un Borgia. La sua gobba mi repelle. Prima il prevosto, poi lui, indi la chiesa.

Ma come si fa ad uccidere tutti? Questa è la tentazione suprema ma, certo, inattuabile. Mio fratello però non è più: giustizia è fatta. Voi direte che sono un pazzo, un maniaco, un piromane, da legare e sorvegliare. E vi sbagliate, poiché io incarno ciò che voi avete sempre desiderato. E’ follia esaudire i desideri? D’accordo, allora sono folle. Ma voi con me.
Comunque sia, ho seguito il diacono per oscuri corridoi e grotte malate di un herpes che un critico estroso chiamerebbe stalattiti gotiche. Non era roccia, ma la imitava. La mia guida taceva, e neppure si accertava, cammin facendo, che io fossi ancora lì; osservava la finta roccia come se fosse anche per lui la prima volta, ma senza stupore, anzi con quella fissità che solo un impiegato del catasto sa inventare.
– Non è un gran che – azzardai, ma senza quell’aria di sufficienza che sono solito ostentare con gli estranei.
– Aspetti – rispose il gobbo senza intonazione.
Lo splendore delle gemme e dei dipinti che mi si parò innanzi di lì a poco valevano certo la fiducia sospettosa che avevo riposto nel mio Virgilio. Quel girone infernale conteneva dunque simili ricchezze, che funzionari distratti o corrotti avevano da sempre trascurato. La luce che si sprigionava da quelle forme e da quelle colorate, coloratissime pietre mi fece perdere i sensi, ma in quell’istante capii che l’Agartha aveva mille effigi, una delle quali era questa, ben visibile e insopportabilmente bella. Chiusi gli occhi, presi la mano del diacono e lo ringraziai come un cane fedele il padrone, mimando un impossibile inchino. Lui rispose al sorriso, ma con piglio da capomastro mi ingiunse di risalire al più presto dalla miniera. Disse proprio così: “dalla miniera”.
Ho cambiato idea: farò partecipe il diacono del mio progetto iniziale, e mi confesserò a lui. Ma confessano i diaconi? O cosa fanno mai?
– Signore … volendo si può continuare.
– A percorrere la “miniera”?
– Dite bene, signore: un tempo, dove voi ora camminate, c’era una grande cava di argilla. L’argilla era bianca in origine, era la fonte della vita.
Ci risiamo. I soliti discorsi mitico-simbolico-naturalistici che i preti inventano per disorientare i poveri di spirito o per far colpo sui turisti.
– Ah sì? – risposi.
– Sì – riprese estatico, oltremodo fiducioso nella propria capacità di far proseliti – dall’argilla è nata la vita, e dalla vita l’uomo. Il Re del Mondo sa queste cose.
– Il Re del Mondo saprà anche queste cose – dissi tra il cortese e l’ironico – ma che c’entrano con i sotterranei che mi avete fatto vedere?
– Scusate… il superiore mi chiama.
Non era vero, naturalmente, ma accondiscendere mi faceva comodo per prendere tempo; avevo di nuovo cambiato idea: altro che fare partecipe eccetera eccetera, lo spingerò giù dal campanile. Sto perdendo tempo: sfracellarsi sul sagrato sarà per lui più nobile che scoprire rapinosi tesori nelle viscere di una cattedrale eretta sull’argilla. L’argilla! Lo spingerò giù con uno stratagemma. V’era uno scrittore a cui piaceva la parola stratagemma, poiché vi vedeva un tesoro sotterraneo: ebbene, c’ho pensato tutta la notte, e se il diacono crede nell’Agartha, io credo nell’Inferno, nelle sue fiamme e nell’eternità che sempre le nostre azioni e ancor più i nostri pensieri si sforzano di concepire. Io ne diverrò degno tramite l’assassinio, che applicato su codesti traffichini dell’eterno ha più il sapore dell’esperimento morale che dell’atto vero e proprio. Costoro – i preti, intendo – sono come le tortore: monotone, querule, quaresimali. Vale a dire insopportabili. Da evitare. Da eliminare. Smetterò di incendiare. D’ora in poi ucciderò. Ho detto.

Ho fatto: ho messo in pratica, cosa rara per quel che mi riguarda, ciò che avevo in testa. L’ho ucciso, e il ricordarlo – più che rimordermi la coscienza (che come tutte le parole composte tradisce la sua natura derivata e quindi inconsistente) – ferisce il mio senso estetico. Quel corpo sul selciato, pardon, sul sagrato, mi repelle intimamente e mi fa stornare lo sguardo dalla pozza color malva del suo sangue rappreso. Querule creature.
Anche nelle persone più abiette sappiamo trovare una scintilla di complicità, così come in quelle più simpatiche un lieve ribrezzo estetico. In mio fratello non potevo avvertire né l’una né l’altro: egli era un egotista indisponente, critico oltre ogni lecito, da eliminare insomma. Non mi direte che, una volta capito un teorema, per quanto astruso esso sia, non ve ne liberiate ipso facto dalla mente! Come possano alcuni sopravvivere con tali dimostrazioni in testa rimane per me un mistero. Egli aveva una mente siffatta: capendo tutto a volo, mi faceva fare pessime figure, esacerbava il mio orgoglio e alimentava la mia vendetta. Guai a chi ci proverà di nuovo.
Sono fuggito dalla città che mi ospitava perché le sbarre non si addicono a caratteri come il mio. Il carcere è utile solo se volontario, ed io non lo desidero. Amo la libertà come un uccello l’aria, come il fuoco l’etere. Ho vagato per giorni e notti alla ricerca di una chiesa consona alle mie brame, ma come vedete sono ritornato, e presto, per rivedere il prevosto. Ho applicato nei suoi riguardi la stessa tattica che usai col gobbo suo sottoposto: ho finto (so fingere, eccome) un dolore indicibile, un pianto soffocato e perciò più verosimile, una resipiscenza senza condizioni. Lui mi guardava, mi ascoltava, improvvisava per me sermoni commoventi che mi impressionavano più per la loro illogicità che per l’intensità con la quale venivano pronunciati.
Raccontai all’ecclesiastico che i miei giorni erano contati, che la mia ansia di ricevere, anche se tardi, i sacramenti di cui non avevo potuto godere per la sventura di essere nato in una famiglia di liberi pensatori stava ormai tramutandosi in angoscia, che la vista della chiesa, con le scene terribili delle pene infernali e delle deità ctoniche che vi regnavano, mi aveva indotto a fare l’estremo passo; ma prima di uccidere me stesso, mi ero detto che una possibilità, anch’essa estrema, poteva, anzi doveva essere riservata a quel buon uomo che avevo intravisto nel suscettibile arco sotto cui ostentava la sua ombra: subito il prevosto si riconobbe e, invece di inferire dalla lusinga il sospetto, si insuperbì e parve accarezzarmi con lo sguardo.
Triste sorte lo attendeva. Era consuetudine, ormai da due secoli, che le benedizioni per i casi disperati o anche solo gravi si dessero entro la triplice cornice dell’ “ottavo piano” del campanile, e quando così mi espressi a mo’ di sfida, citando le virgolette usate dalla guida turistica da cui avevo ricevuto la bizzarra informazione, rise di gusto ma, continuando a precedermi per la tortuosa scala medioevale, altro non rispose. Eppure studiano tanto, questi preti.
Gesù non era psicologo. Per fortuna.

Ho sognato mio fratello. Di nuovo. Mi sorrideva ambiguo dalla posterla della torre adiacente alla chiesa. Fu lui la causa di tutto. Un giorno, molto tempo fa, lo seguii (per noia? per curiosità? Perché qualsiasi cosa facesse, io lo imitavo?) in una delle solite scorribande tanto care ai bimbi – questa non è una parola composta (o sì?), ma è altrettanto odiosa – allorché mi accorsi, tenendomi un po’ in retroguardia rispetto alla combriccola, che la devozione che avevo fino ad allora provato nei suoi confronti stava inesorabilmente cedendo il passo a una vaga trepidazione. Forse soggezione, forse paura e nient’altro. Aveva tutti i ragazzini del vicinato ai suoi comandi, e per questo lo invidiavo; ma c’era dell’altro, e non riuscivo, allora, vista la mia giovane età, a rendermene perfettamente conto.
Il contadino i cui campi confinavano con quello di nostro padre ci aveva giocato un brutto tiro: tanto aveva fatto e detto e tramato che l’annunciato santuario non si eresse sul nostro terreno, ma sul suo. Papà prima maledì, poi perdonò il vicino. Mio fratello no, e tanto si accanì contro il maledetto, coinvolgendo nel suo rancore i figli dei vicini, che convinse anche me, di solito così timido e irresoluto, della giustezza delle nostre rivendicazioni. Bruciare il campo di granturco e il tempietto dedicato a Santa Barbara era un gioco da ragazzi – proclamava mio fratello; e ragazzi noi eravamo.
Detto, fatto: in men di due ore l’immensa distesa fu data alle fiamme, e il loro colore guizzante, un rosso irruente e maligno, mi colpì a tal punto che credetti di aver collaborato ad un’azione salvifica, unica, che nessuna attrizione futura avrebbe mai potuto cancellare. Ebbene, fu allora che mi votai anima e corpo al fuoco, all’ardore e all’entusiasmo di questo elemento divino, che il principe dei filosofi, Eraclito, indicò come l’unico degno di rappresentare il divenire. Quel sorriso ambiguo mi fece ricordare, sempre in sogno, tutto ciò. Al risveglio ebbi la netta sensazione che dopo l’ammiccamento fraterno il sogno continuasse, e che io avessi alterato i ricordi per ingentilire la mia invidia. Come lo odiavo! E non cessa di seguirmi, la carogna! Lo ucciderò di nuovo, foss’anche in sogno.

Oggi l’organo singhiozzava, poiché il prevosto lo stava malamente accordando. Possibile che mi irriti fin nelle viscere?
– Le piace? – mi sentii interpellare.
– Non sopporto la musica sacra. Figuriamoci le accordature – gli risposi; ma poi, accortomi dell’impertinenza gratuita delle mie parole, ribadii un agrodolce “Mi dispiace. Non volevo offenderla.”
– Oh, non fa nulla. Anche la vedova di Bach morì povera in canna.
– In canna d’organo? – mi lasciai sfuggire.
– No – riprese lui non sentendo o non capendo la battuta – in una fossa comune. Pochi apprezzarono il marito in vita. Come compositore. – Si girò, e mi guardò dritto negli occhi. Poi sorrise maligno: – La musica è la stessa in cielo come in terra. E sottoterra – aggiunse dopo una pausa.
Che il mio sogno derivi dal timore dell’inferno, è una ipotesi che lascio agli ingenui o agli asceti. Possibile che ogni cosa debba venir scrutata, sezionata, interpretata e, con ciò, rovinata? Mio fratello era capace di intrattenerti ore intere sul significato recondito, sotterraneo, di un simbolo, e se questo simbolo era il fuoco, o il demonio, o il drago ti faceva ammattire di felicità, il lestofante, avevi la bocca spalancata per lo stupore. Che ce ne viene ad almanaccare? Dubbio crea dubbio, senza nemmeno più l’illusione cartesiana di poter fondare una scienza. Figuriamoci: una scienza! E’ forse possibile una scienza della musica d’organo? Dio ce ne scampi, ne abbiamo già tante! O una scienza del fuoco?!
– Perché no? – mi apostrofò, serio, il prevosto del capitolo.
– Perché cosa, scusi?
– Perché non può esistere, dicevo, una scienza del fuoco, se esiste quella dei sogni, della psiche, del mondo… ?
Lo fermai. Gli risposi che un conto è la natura, un altro l’uomo. Ma lui riattaccò:
– Forse che l’uomo non fa parte della natura? Non avete voi un corpo?
– Sì, ma che c’entra, non è il corpo che governa i nostri atti.
– Questo è il punto: avete detto giusto. C’è qualcos’altro.
– Sì, ma non è quello che pensate voi.
– Cosa penso io, di grazia?
– Lo sapete.
Storse il naso, e così facendo sembrò sfuggirgli: l’anima?
– Per gli antichi essa era fatta di fuoco.
– Bene – mi rispose – ma secondo voi ciò che significa? Che è più soggetta ad infiammarsi?
– No, certo. Che tende al cielo, come l’elemento che la rappresenta. E che non sta mai ferma.
Rise di gusto, e mi lasciò come un padre il figlio che non si può aiutare. Non lo sopportai, e lo rincorsi col fiatone della collera per tutta la navata, tanto che quando si volse e si accorse di quello che gli volevo fare, era per lui troppo tardi. Così finiscono gli insipienti: gli legai mani e piedi, lo trascinai a fatica in sacrestia e, dopo aver chiuso a chiave le due porticine, lo finii come meritava. Altra chiazza di sangue, altra miseria. Miserere, miserere. Gli uomini non meritano certo una cremazione: essi non sono opere d’arte.

Occorre un buon sangue freddo per scrivere queste note nell’angolo più buio di codesta stanza. Il puzzo del cadavere, strano ma vero, è già in azione, e le ombre guizzanti nate dai residui della candela stanno per capitolare. Non riesco a descrivere se non ciò che mi passa per la testa, così, senza costrutto, ed anzi sono tentato di credere che ogni idea, anche la più imperiosa e sistematica, s’insuperbisca meno per la sua coerenza che per l’intensità con cui è apparsa per la prima volta alla mente. Ma questo, mi direte, non è pensare: è accogliere le impressioni e dar loro un abito più o meno vistoso.
Può darsi. Sarà il pensiero per la notte.
Dio, come sono infelice. Il mio progetto originale vacilla, la mia ostinazione si è tramutata in ossessione, ogni mio più piccolo respiro mi soffoca e mi fa dimenticare cosa sono venuto a fare in questa città. Già, che cosa? Dovevo bruciare la cattedrale, ho ucciso due persone. Ho dentro un’irrequietezza che mi lacera, che mi costringe a pensare come un vegliardo e a sentire come un adolescente. Volesse il cielo che diventassi immortale! Voi tutti pensate che il solo mezzo sia quello di costruire, creare complicate architetture in cui la logica si possa sbizzarrire come un cavallo inferocito e liberarsi dalle briglie di un auriga che, quantunque perfetto, non sa evitare la caduta. Diventassi almeno celebre! Dio sa quanto lo desidero. Lo desidero con tutte le mie forze, ed anche più. Riuscissi almeno a prender sonno. Questo forse lo so fare: dipende da me.
Se uno uccide l’oggetto del suo amore, non è colpevole, sia egli uno sfregiatore di Michelangelo o un ladro di affetti. Chi non capisce questo vivrà come quegli angeli che, pur sapendo che l’abisso esiste, non vogliono affacciarvisi: temono che volare sia sinonimo di cadere. Io non ho questa paura, e ve lo dimostro. Aver visto l’inferno vuol dire forse abitarvi? O venirne avvinto?

La stanza è d’argilla, il tetto d’ardesia, la luce di seta. I rumori esterni, se esistono, sono attutiti dal brusio che avverto dentro, che fonde ma non confonde i diversi peccati di cui mi sono macchiato negli ultimi giorni. A volte penso di essere l’unica persona sprovvista di Inconscio, o di Es, o di come volete chiamare quell’antipatico coacervo di minuscole atrocità che il Viennese tentò di domare definendolo. Ma dare un nome alle cose non significa renderle reali. Trovate reale la vita perché la nominate? O, al contrario, hanno i sentimenti meno valore per il fatto che non hanno nome? Io chiamo vita il fuoco, e Dio la morte.

 

Autore: Paolo Petitto
Messo on line in data: Dicembre 2006