RACCONTI: IL GATTO E I DISCOLI di Didimus

Il gatto nero

Per anni avevano frequentato cliniche specializzate, fatto cure ormonali, ma non era successo niente, poi quando ormai Gino e Michela avevano perso ogni speranza, anche per l’avanzare dell’età, e si erano rassegnati ad una vecchiaia in solitudine, Michela rimase incinta.
Furono mesi di apprensione e di attenzione, Gino assecondava la moglie in tutto.
Marzo aveva fatto sciogliere la neve, i campi zuppi, pieni di bianchi bucaneve che sembravano moltiplicarsi col passare delle ore, riflettevano la luce del sole. Solo nella Riva la neve era rimasta intatta, Michela, ad alta voce espresse il desiderio di poter assaggiare quella fredda granita naturale.
Nonostante la distanza e la salita, Gino partì e al – “Dove vai?” – di Michela, esclamò: – “Non voglio mica che ci nasca un bimbo con la voglia di neve!” Michela rise e aspettò invano la neve che si scioglieva al primo contatto con la mano di Gino.
Seguiva con lo sguardo gli sforzi del marito ed era felice per l’amore che da quei gesti si sprigionava.
Fu l’ultima uscita, passò il resto della gravidanza a letto, però il parto fu normale e Caterina quando nacque era in buona salute.
All’inizio sembrava normale che Caterina piangesse durante la notte, lo scorrere delle settimane non portò modifiche: le notti trascorrevano in bianco per tutti!
Iniziò un nuovo calvario: pediatri, cliniche, visite a proprie spese al Gozzadini di Bologna, ma non risultò nessuna patologia manifesta.
I medici liquidarono Gino e Michela, con un “Passerà”.
Il problema non si risolveva e Gino, dopo le tante notti insonni, era esausto, fare il carpentiere non era uno svago: i rapporti in famiglia rischiavano di guastarsi.
Michela che nel frattempo aveva ripreso a fumare, uscita dal tabaccaio con due pacchetti di profumate Astor in mano, incrociò Giuditta, una donna, anziana e stimata da tutto il paese che le chiese: “Come va la bimba?”
Michela, abbassando lo sguardo rispose: “Bene, bene”.
Giuditta era informata e la costrinse alla verità. Insistette perché Michela con la piccola Caterina si recassero da Venusta.
Venusta, abitava in Crimona a qualche chilometro da Baigno.
Da alcuni era ricercata, da altri evitata: praticava stregonerie.
Michela ne parlò a lungo con Gino durante la cena, senza però giungere ad una decisione.
La notte fu interminabile, tremenda, il pianto straziante di Caterina non cessò un istante.
A turno i due genitori cercavano di riposarsi.
Alla fine Gino, colto da un’evidente disperazione, scrollò Michela da poco appisolata dicendo: “Tentar non nuoce, peggio di cosi non può andare, fai come ti ha consigliato Giuditta”.
L’alba lasciava spazio al primo sole quando Gino che non aveva chiuso occhio per tutta la notte uscì di casa per recarsi al lavoro.
Caterina si era addormentata alle prime luci del giorno ed ora dormiva tranquilla, con il visino rotondo, roseo, bello,
Michela non se la sentiva di svegliarla, era ormai mezzogiorno quando la bimba aprì gli occhi.
Pranzarono e poi partirono per Crimona. Il peso di Caterina sulle spalle di Michela rese il viaggio faticoso.
La casa di Venusta era immersa nella natura, circondata da ciliegi, peri, alberi di prugna non ancora in fiore.
Sembrava un mosaico di materiali disparati: il pavimento in lastre, l’intonaco dei muri solcato dalle righe gialloscuro dell’acqua piovana filtrata dalle fessure della grondaia, con il tetto sorretto da travi in legno coperto da tegole recuperate chissà dove.
L’ambiente era davvero desolante.
Seduta in un angolo le accolse Venusta, gracile, sospettosa, con la pelle del viso grinzosa, i capelli argento, raccolti, vestita a lutto per la scomparsa di Nabore, il marito.
Parlarono a lungo in dialetto, Michela spiegò e motivò, fino al dettaglio, la sua visita.
Lo sguardo sospettoso dell’anziana donna portò Michela alla supplica. Venusta disse: – “E va bene! Però devi sapere che non posso accettare ricompense, di nessun genere!” -.
Si inginocchiò per essere al pari di Caterina, la fissò a mani congiunte per alcuni minuti, poi, rialzatasi, invitò Michela a sedersi attorno al vecchio tavolo da cucina, coperto da una tovaglia marrone.
Venusta prese la mano di Michela e guardandola dritta negli occhi disse: “Se vuoi che la tua bimba guarisca ascoltami bene!”
“Va bene! Ma che cos’à?” rispose Michela.
Venusta sembrò irritata, alzando la voce disse: “Non importa quello che ha, l’importante è che guarisca e non fare domande, altrimenti…. “
Michela non rispose, anche perché, subito, la donna riprese a parlare: “Questa sera, alle undici, devi mettere sul fuoco una pentola di acqua e portarla all’ebollizione poi getti nella pentola un ramoscello di sambuco, tre bacche di ginepro, un pugno di foglie di lupina essiccata, quindi prendi tutti i vestiti di Cristina e li metti dentro alla pentola. Fai in modo che sia abbastanza grande, mescola il contenuto lasciandolo bollire”.
Michela, in ansia: “E poi? Cosa faccio?”
Venusta si era versate, nel bicchiere che aveva davanti, due dita di vino rosso, lo bevve in un sorso e riprese a parlare: “Quando il tutto bolle da tempo, un quarto d’ora prima della mezzanotte devi aprire l’uscio di casa, vedrai entrare un animale, non so quale, qualunque esso sia, lascialo fare. Ovunque vada per la casa tu osservalo soltanto, però fai in modo che prima di mezzanotte esca. Se non lo fa spontaneamente, scaccialo, perché se rimane anche dopo la mezzanotte, Caterina continuerà a piangere. Ora vai, e ricordati.., non devi dire niente a nessuno, altrimenti saranno guai”.
Michela uscì dalla casa della vecchia un po’ frastornata, impaurita e non sicura di ricordare.
Giunta nella propria abitazione, attese il ritorno di Gino, il quale, stanco dal lavoro, non fece domande, né Michela voleva dirgli niente. Tutto si svolgeva come al solito: Caterina prese a piangere in sala e Gino, appena cenato, si ritirò in camera.
La pentola era sul fuoco, alle dieci già bolliva. Michela nel pomeriggio si era procurata tutto l’occorrente, i panni di Caterina venivano mescolati con un bastone di circa mezzo metro, fino ad allora usato per la polenta.
Ventitré, ventitre e trenta….. ventitré e quaranta…. Quarantadue…quarantatré… Michela aprì la porta di casa lasciandola socchiusa.
Un aria fresca entrò nelle stanze, spazzando via, per un attimo, l’odore della bollitura.
Pochi minuti ed entrò un gatto nero.
Michela era impietrita, dritta incollata al muro, era incapace anche di gridare, Caterina in sala piangeva.
Il gatto nero, non tanto grosso, miagolava annusando qua e là per la casa, poi salì sul tavolo della cucina, fissò per un attimo la pentola, scese, fermandosi sotto il tavolo in una posizione riposo.
I minuti trascorrevano, quattro, tanti ne mancavano alla mezzanotte e Michela, ricordava bene le parole di Venusta: “Prima di mezzanotte l’animale deve uscire, prima di mezzanotte! Se non lo fa da solo, scaccialo”.
Michela, si fece coraggio e da sotto il camino afferrò il soffietto. Cercò di scacciare l’animale gesticolando. Rincorso, il gatto guizzava da una camera all’altra, poi attorno al tavolo, poi sopra, miagolando terrorizzato.
Michela allora lo colpì più volte, prima su una zampa, poi sulla schiena e infine in testa, fin quando il nero gatto fuggì, uscendo dalla porta, confondendosi col buio notturno.
Era mezzanotte, Caterina non piangeva più, raggiunta la madre cercava di attirarne l’attenzione: “Mamma, nanna, nanna Mamma”.
Michela, felice, incredula, quasi avesse dimenticato la paura e quei lamentosi miagolii di pochi istanti prima, prese in braccio la figlia, spense il fuoco, chiuse la porta, e si diresse verso la camera.
La notte, quella notte fu pace. Riposarono fino a mezzogiorno.
Anche Gino, ignaro e non avvezzo a quel silenzio, non si era svegliato: nella sua anormalità tutto sembrava normale.
Mentre uscivano di casa per la spesa, incontrarono Zanco, il fratello di Gino, pallido in volto che disse: “Questa notte è successa una disgrazia”.
“Oddio cosa?” esclamò Michela, portandosi le mani alla bocca, mentre Gino, senza perdere la calma, era in attesa di sapere.
Zanco riprese: “Si tratta di Miglia”.
“Chi?” lo interruppe Gino, “Quella anziana signora, la madre di Primo. Ieri sera si è coricata presto e non è più uscita e questa mattina, suo figlio l’ha trovata moribonda sul letto, piena di ferite, con una gamba rotta. Un mistero! Un vero mistero. Pensa che era addirittura andata a letto senza togliersi quel solito vestito nero. Poveretta! Speriamo che campi, l’hanno ricoverata d’urgenza. Che mistero! Poi si dice…”
Mentre Zanco masticava altre frasi, Michela quasi a rispondere disse: “Mi dispiace, ma se l’è meritata!”
Gino la guardava senza capire, scuotendo la testa.
Zanco rispose: “Che discorsi… non mi sembri di buon umore e in grado di ragionare oggi!
Caterina tirò la gonna della mamma, sorrise, alzò le braccia al cielo e rivolta a Michela: “Mamma, bacio, brava Mamma, bacio… bacio…”
Madre e figlia si abbracciarono mentre Gino e Zanco si erano avviati parlando d’altro. Il campanile della chiesa si preparava a suonare la “passata”.

 

I Discoli

Di sera ci si poteva intrattenere fuori in maniche di camicia fino ad una certa ora, iniziava l’estate.
La vegetazione era di un verde inconfondibile, sano. L’acqua, caduta in forti quantità durante la primavera, aveva contribuito a tanto vigore.
Nella piazza coperta dal pergolato vicino al bar di Lidia, Corinto, appena arrivato diede la notizia: “ Oggi sono arrivati i discoli! “ disse saccente e con accento sprezzante.
Silenzio, tutti si erano fermati a condividere la preoccupazione, come un rito che si ripeteva tutti gli anni, quando nella vecchia casa colonica di Lugomano arrivavano questi ragazzi, dalla vita un po’ disordinata: i Discoli.
Quell’annuncio era di allerta, all’indomani se ne sarebbe parlato in ogni casa, in ogni luogo pubblico e così, per tutta la loro permanenza.
Mezze frasi, racconti poco chiari, avvolti dal mistero, rendevano quei ragazzi esseri incorreggibili, pochi li vedevano, in pochi sapevano quanti fossero.
A turno uno di loro, scendeva, a metà pomeriggio, in paese, per comprare alimenti non conservabili fra le umide mura della vecchia casa colonica.
Il viaggio, in ascesa all’andata e clivo al ritorno, era aggravato dal peso della spesa, ma, per loro, la settimana in Lugomano era una vacanza.
Rappresentava una pausa prima del rientro nel ributtante riformatorio, ognuno col proprio fardello da scontare, nel grigiore di giornate tristi, senza sogno, senza speranza, senza futuro.
Col passare dei giorni il ciarlare moltiplicava le supposizione, frutto dell’immaginazione che cuciva addosso a quei ragazzi maschere belluine, deformabili a piacere del narrante di turno.
In allerta: donne, anziani e bambini.
All’arrivo del discolo nella bottega, tutti si facevano da parte, aveva la precedenza su tutti, non era un segno di ospitalità, ma un modo per rendere quella malaccetta presenza in paese il più breve possibile.
I piccoli in compagnia delle loro madri, liberi di curiosare, venivano improvvisamente trascinati via, protetti dall’incombente minaccia.

Come al solito, i miei pomeriggi erano assorbiti dalle escursioni nei campi, messo allerta ed istruito in caso di pericolo, non autorizzato ad allontanarmi, non per i miei sette anni ma per la presenza dei discoli. Incuriosito da un improvviso decollo di un falco dallo Spicchio di Rocco, una sporgenza priva di vegetazione del monte Riva, scelta dai falchi per nidificare, ammiravo il rapace che planava sui campi di Barbamozza.
Salito attraverso un viottolo, giunsi in Canalmaore, l’unico che conduceva a Lugomano, da lì avrei meglio ammirato le acrobazie affascinanti del falco. Quando arrivai alla meta, l’uccello non c’era più. Seduto su un lastrone, contemplavo il paesaggio, e lì fui sorpreso dal peso di passi ripetuti, di un passo umano. Provenivano da dove il viottolo curvando spariva nel bosco. Pochi secondi, poi apparve un ragazzo biondo, leggermente stempiato, con una carnagione ancora fanciullesca. Sudaticcio, portava ai piedi due grossi scarponi marrone impolverato, calze di lana grigie e pantaloni corti verde scuro, come la canotta, dal taglio, simile a quello visto in alcuni giornali, indossata dai giganti del Basket.
Un brivido pervase il mio corpo, il panico mi fece ritirare la punta dei piedi dentro le scarpe di tela azzurra. Il ragazzo sorrise, rallentò, poi fermatosi più avanti di qualche metro, girandosi disse: ”Hai paura di me?”. Risposi prontamente di no, pervaso un gelido sudore, lasciando apparire la bugia. Mi disse: “Non devi avere paura, anch’io lontano, dietro a quelle montagne ho un fratellino come te a cui voglio un sacco di bene”.
Il ragazzo si fece triste, seduto vicino a me, sulla lastra, continuò “Io i bambini mica li mangio!”.
Ora sorrideva divertito, del mio sguardo un po’ goffo. Avrei voluto dirgli qualcosa, fargli delle domande, ma rimasi in silenzio, avvolto nell’indulgenza.
Elia mancava dal suo paese da tre anni, Marina di Torre Grande, in provincia di Oristano. Raccontò a lungo dei pescosi stagni dove si recava il mattino presto, tornando col retino rigonfio di cefali, muggini, orate. Più difficile era la pesca delle anguille, che io credevo esistesse solo nelle valli di Comacchio. Quel racconto mi prendeva, abituato com’ero ad accontentarmi di qualche Brociolo, preso con la forchetta nell’affluente del Brasimone. Elia era ormai un fiume di parole, come se l’apertura di una valvola liberasse le tossine accumulate per anni, poi alzandosi allungò la mano perché l’afferrassi, raggiungemmo il paese come vecchi amici.
La bottega di Achille era piena, ma si aprì un corridoio per far passare Elia. Geltrude con un grido isterico, chiamò la nipotina a sé. La bimba, con la candela al naso, si girò e sorrise ad Elia che ricambiò, in silenzio, senza farsi notare, comportandosi come uno del paese.

 

Autore: Didimus
Messo on line in data: Marzo 2001