RACCONTO: LA FAMIGLIA KARMICA di Miryam Marino

La Famiglia Karmica

Avevo preso una strada secondaria nell’intento di sfuggire al traffico perché avevo fretta di tornare a casa.
Procedevo abbastanza velocemente, la via era deserta e libera, quando a un tratto entrai in un banco di nebbia. Era così fitta che non vedevo nulla, mi sembrava di avanzare all’interno di una nuvola, di un viluppo di bambagia.
Dovevo proseguire a passo d’uomo e pensavo indispettito che, invece di andare più veloce, avevo solo peggiorato la situazione. Speravo che più avanti la nebbia si diradasse,  invece era  sempre più fitta man mano che mi inoltravo per quel percorso.
Cominciavo anche a sentire freddo perché per somma disgrazia il riscaldamento della macchina aveva smesso di funzionare. Ormai era completamente buio e la strada era  poco illuminata, mi sentii in preda allo sconforto. Stavo battendo i denti da almeno dieci minuti quando vidi degli aloni di luce illuminare la nebbia. Accostai e scesi dalla macchina, doveva essere un bar solitario. Mi chiesi in quali clienti potesse sperare, in quella strada dove c’era solo il nulla. Si trattava di una locanda.

Ormai non speravo più di arrivare a casa tanto presto e l’unico mio pressante desiderio era quello di scaldarmi e di bere un caffè.
Non feci caso all’aspetto del locale che era piuttosto insolito. Si sarebbe detto di un’altra epoca. Quando entrai mi investì un piacevole calore che subito mi riscaldò le membra intirizzite e me ne sentii molto riconfortato.
Mi sedetti a un tavolo nell’attesa di ordinare. L’ambiente aveva l’aspetto di quei  saloon del vecchio west e l’illuminazione era piuttosto fioca, ma non me ne sentii disturbato. Quell’ambiente mi piaceva e mi faceva provare calma e serenità. Dietro il bancone non c’era nessuno, aspettai. Vidi che a un tavolo erano sedute una decina di persone, uomini e donne di età diverse.
Quando mi ero seduto tutti si erano girati a guardarmi quasi simultaneamente. All’inizio non avevo fatto caso alla loro curiosità, ma mentre aspettavo notai che continuavano a osservarmi con insistenza e sorridevano. Mi accorsi anche che qualcuno di loro aveva dato di gomito al vicino come a significargli qualcosa.
Mi stavo chiedendo cosa volessero quando una giovane donna si alzò e venne verso di me. Era graziosa e con un dolce sorriso disse: “Vieni con noi al nostro tavolo, Walter”. Mi prese la mano per invitarmi ad alzarmi.

Per un attimo rimasi perplesso chiedendomi come facesse a conoscere il mio nome. Ero indeciso se aderire  o no all’invito, trovando la cosa abbastanza strana, tuttavia non mi sentivo allarmato.
Quando raggiunsi il loro tavolo tenuto per mano dalla giovane che aveva l’aria felice e soddisfatta, tutti mi fecero grandi feste. Sembrava che avessero ritrovato un parente o un amico che non vedevano da tanto tempo. In un diverso contesto mi sarei sentito a disagio e anche spaventato, subodorando che sotto ci potesse essere l’intento di qualche scherzo macabro o crudele, ma in quel posto, in quell’ambiente nessun pensiero del genere mi venne alla mente, anzi, più mi trattenevo con loro più scomparivano ansie e preoccupazioni e mi sentivo anch’io colmo di una grande gioia.
Tutti mi chiamavano per nome come se fosse naturale e mi trattavano con grande affetto e gentilezza. Qualcuno mi chiese se mi ricordassi di loro e qualcun altro affermò che gli ero mancato e che ero mancato a tutti gli altri.
Dopo un primo momento di adattamento mi ero lasciato andare del tutto al piacere della loro compagnia. Si avvicinò un uomo grosso e baffuto con un grembiulone da oste e disse: “Ti servo la stessa cosa che ho preparato per loro, Walter?” Dissi solo di sì perché non avevo voglia di perdere tempo a farmi altre domande, stavo troppo bene.

Mangiammo e bevemmo insieme  e restammo a chiacchierare per molto tempo. Non pensavo più di tornare a casa, perché mi pareva di non poter essere più a casa di così. Sull’onda dell’emozione espressi il desiderio di rivederli e uno del gruppo, un uomo anziano, rispose che ci saremmo visti ancora, che ci saremmo visti sicuramente. Accennò al fatto che loro erano la mia famiglia.
Presi questa affermazione come una dimostrazione di affetto. Si era fatto ormai tardissimo e io pensavo che fuori imperversasse ancora la nebbia, perciò decisi di passare  la notte alla locanda. Però confesso che l’avrei fatto anche se fosse stato tutto limpido con la strada rischiarata dalla luna sotto un cielo stellato. Non volevo più andarmene da lì.
Chiesi all’oste se c’era una camera libera e mi rispose sorridendo sotto i baffi: “Per te c’è sempre posto, Walter.”
Dormii di un sonno profondo riposante e piacevole e al mattino mi svegliai allegro e carico di energia. Scesi nel salone sperando di poter salutare i miei amici prima di partire e anche di saldare il conto, mi ricordavo che la sera prima il gestore non mi aveva chiesto il documento, come di solito avviene. Nel salone non c’era nessuno, nemmeno il gestore. Mi misi a sedere e aspettai.

Il silenzio era così compatto che non si sentivano nemmeno i  rumori della strada, sentivo solo il ritmo del mio respiro e il battito del mio cuore. Guardandomi intorno mi accorsi che tutto l’ambiente sembrava non soltanto vecchio, ma addirittura cadente. Sul tetto mancavano delle tegole e si intravedeva il cielo. Non lo avevo notato la sera avanti.
Attesi più di un’ora, poi decisi che era meglio andare. Forse tutto il gruppo era già partito o stava ancora dormendo. Non volevo truffare il gestore, ma non intendevo aspettare all’infinito. Quando uscii vidi che la nebbia era scomparsa, splendeva il sole e faceva un caldo dolce e piacevole come accadeva nelle primavere della mia gioventù, quando ancora le stagioni erano come dovevano essere. Proprio davanti alla locanda c’era un enorme albero cavo. Doveva essere un albero davvero antico, il suo grande tronco era ritorto e i rami che si protendevano verso l’alto erano del tutto spogli e sembravano braccia levate in preghiera.
Pensai tra me che con un simile segnale non avrei fatto fatica a ritrovare la locanda.

Passarono un paio di giorni durante i quali non avevo smesso di pensare un momento a quella sera con una nostalgia crescente.
Avevo troppa voglia di rivedere i miei nuovi amici e speravo che alloggiassero ancora alla locanda dove li avevo conosciuti. Mi misi in macchina e tornai su quella strada. La percorsi più volte avanti e indietro ma della locanda non v’era traccia.
Ero ormai al terzo tentativo quando in lontananza vidi l’albero cavo. Finalmente!
Mi sfuggì un grido di trionfo, ma quando raggiunsi l’albero constatai che la locanda non c’era. Non potevo sbagliarmi sul posto, perché l’albero era davvero singolare, non ne avevo mai visto un altro simile. Rimasi interdetto per alcuni minuti, poi mentre spaziavo lo sguardo intorno notai che più in là, oltre la strada, nella campagna, c’era un gruppo di case.
Mi diressi in quella direzione nella speranza di trovare qualche abitante a cui chiedere notizie. Le case erano abbastanza vicine perché quelle persone potessero sapere il perché della  scomparsa della locanda a soli due giorni di distanza da quando c’ero stato. Un uomo molto anziano stava uscendo in quel momento da una di quelle case e mi avvicinai a lui. “Mi scusi signore” cominciai, “due giorni fa sono stato in una locanda nei pressi di quell’albero cavo, ma ora vedo che non c’è più, sa che cosa sia successo?”

L’uomo mi guardò esterrefatto: “ Non può essere stato nella locanda due sere fa, perché lì non c’è  più niente. Tanti anni fa, c’era effettivamente una locanda, La locanda dell’albero cavo, così la chiamavano, ma fu abbandonata e rimase chiusa per molti anni fino a che diventò un vero e proprio rudere. Fu abbattuta quando ero molto piccolo. Me lo ricordo vagamente”.
“Non è possibile” gemetti. “Che cosa non è possibile, Walter?”
Mia moglie era china sul mio letto e il suo viso esprimeva una sollecita preoccupazione. Sentii un intenso dolore alla gamba destra e guardando davanti a me la vidi sollevata e tutta ingessata. Passavo da uno stupore all’altro e non ci capivo più niente.
“Sei stato incosciente per tre giorni” spiegò mia moglie. “Ero così preoccupata! Grazie al cielo ti sei svegliato.”
Mia figlia era corsa a chiamare il dottore per dirgli che avevo riaperto gli occhi e ora era nella stanza.
Al mio sguardo interrogativo rispose: “Lei ha avuto un incidente. Stava tornando a casa e c’era molta nebbia, non ha visto una macchina che sopraggiungeva dal lato opposto della strada e le è andato addosso. E’ stato in coma tre giorni, ma ora è fuori pericolo, ha una gamba fratturata, ma si ristabilirà presto”.
Mia moglie sorrideva rassicurata e mia figlia aveva preso la mia mano tra le sue. Tre giorni. Uno dei quali ero stato alla locanda e gli altri due non avevo fatto che pensarci e l’avevo cercata. Non ebbi il minimo dubbio sulla realtà delle mie esperienze.
“Hai sognato” aveva detto mia moglie quando le avevo raccontato la mia avventura, ma io ero certo di non aver sognato affatto. Avevo visto lo spirito di quella locanda e avevo visto le anime della mia famiglia karmica, che avevano voluto incontrarmi per dirmi che ci conoscevamo da sempre e che mi avrebbero aspettato fino al momento in cui avremmo potuto riunirci nell’aldilà o in altri luoghi della terra o dell’universo.

 

Autore: Miryam Marino
Messo on line in data: Febbraio 2021