RACCONTO: LA DEA MALVAGIA di Giovanni Soriano

 

Dal Tempo fluiscono gli esseri contingenti,
Dal Tempo essi avanzano verso lo sviluppo.
Nel Tempo, ancora, essi ritornano a casa“.

Upanishad

I demoni del pomeriggio sono i più terribili da sopportare; s’addensano invisibili attorno ad ogni uomo solo che siede alla sua mensa per mangiare di malavoglia, gli opprimono il cuore e confondono la sua mente con presentimenti inquietanti. L’estate era ormai giunta con i suoi ineluttabili torpori e Giovanni Soriano, nelle prime ore d’un pomeriggio assolato ed umido, tentava con pena e fatica di tenere testa agli spiriti invisibili che lentamente gli succhiavano la vita dal cuore.

Lasciò la cucina per rifugiarsi nella penombra della camera da letto, là dentro l’aria era stantia; si percepiva un vago sentore di tabacco rancido e di noia malinconica. Ebbe uno strano pensiero: la morte, come tutte le femmine, non giunge mai quando la si desidera; è un tipo indipendente, t’agguanta quando le pare, fregandosene delle tue attese.

Con un’improvvisa impennata di volontà che stupì lui stesso, decise di reagire all’abbattimento e prese a vestirsi per uscire fuori nella calura pomeridiana. Dieci minuti dopo era già nell’ascensore che, con un ronzio sommesso ed estenuante, lo portò al pianterreno. Uscì dall’ascensore e s’avviò nell’androne verso il portone d’ingresso.
S’arrestò di botto, pietrificato. Oltre i vetri smerigliati del grande portone s’intravedeva nettamente una sagoma scura ed indistinta che se ne stava immobile sul marciapiede, come in attesa. Fu come se un segnale d’allarme scattasse nella testa di Soriano: cominciò a sudare freddo mentre il panico gli attanagliava lo stomaco provocandogli la nausea.

Non volendo cedere ad una sensazione così irrazionale, si costrinse a raggiungere il portone e ad aprire la serratura a scatto. Il battente si schiuse lentamente lasciando penetrare all’interno una folata di calura. Sul marciapiede, ritta davanti a Soriano, apparve la figura allampanata e scialba del postino. L’uomo lo scrutò con uno sguardo diffidente poi, bruscamente, parve volersi giustificare:
– Ho suonato, ma nessuno si decideva ad aprirmi…
Con l’aria di destarsi da un brutto sogno, Soriano si sforzò di rispondere in tono cortese:
– Non fa nulla. C’è posta per me?
Per un attimo gli sembrò che la bocca del postino si torcesse per camuffare un ghigno.
– No, non c’è niente per lei. – Poi, quasi a denti stretti, sibilò: – Non c’è mai niente per lei!
La sgarberia gratuita del postino colpì Soriano come uno schiaffo; avrebbe voluto reagire, ma la rabbia gli impedì di formulare una qualsiasi reazione efficace. Umiliato e furente, s’allontanò a passi lenti lungo il marciapiede con il riverbero abbagliante del sole che gli feriva gli occhi.

Camminò meccanicamente per un tempo indefinito lungo il viale alberato e deserto; all’intorno solo silenzio e solitudine. Esausto, si fermò a fissare i rami frondosi d’un platano. Sudava copiosamente e la bocca gli si era fatta secca; la camicia che indossava sotto la giacca di tela era tutta intrisa di sudore appiccicoso. S’addossò ad un muretto di mattoni in un angolo ombroso, al riparo dalla luce accecante.
La stizza per la propria remissività gli bulinava ancora dentro; sentì l’agitazione aumentare con il disagio per la calura opprimente e ancora un bisogno incontenibile d’agire, di cancellare con qualche azione eclatante l’immagine di quel sé stesso inerte e passivo che per un attimo, dinanzi all’odioso postino, gli era balenata davanti. Si staccò bruscamente dal muretto e, a lunghi passi, s’avviò a caso verso un viale laterale.

Vagabondando senza una meta precisa, sbucò casualmente in una stradina acciottolata dove l’estrema periferia della città si perdeva nel verde delle colline circostanti.
Proseguì come un sonnambulo nel riverbero abbacinante del sole finché, senza sapere come, si ritrovò davanti ad un basso muro di cinta sormontato da un reticolato cadente e pieno di fori. Qualche metro più avanti scorse un cancello d’ottone completamente annerito dalla ruggine oltre il quale si intravedeva un vasto giardino incolto e la facciata sbiadita d’una villa visibilmente in rovina.
Stremato dalla calura ed inspiegabilmente attratto dalla vecchia costruzione, Soriano si sentì incoraggiato ad entrare.
Il cancello era soltanto accostato, egli lo spinse e quello si schiuse cigolando. Inspiegabilmente, gli parve di ritrovarsi in un ambiente familiare.
Salì una breve scalinata e percorse un viale ricoperto di ghiaia fra aiuole infestate da piante selvatiche fino ad una piccola veranda sopraelevata dove un grande portone di legno s’apriva sulla penombra d’un interno da cui esalava odore di muffa.
Nel momento in cui varcò la soglia, come per un presentimento si volse di colpo a scrutare verso il giardino ed una fitta di paura gli strinse lo stomaco: in una macchia di luce fra le aiuole, accanto al tronco d’un vecchio ed altissimo abete, scorse distintamente la figura immobile ed allampanata del postino che lo fissava bieco, con la faccia contratta in una smorfia di rabbia.

Soriano distolse lo sguardo ed avanzò nel vasto salone d’ingresso col pavimento ornato di fregi a mosaico; non vi erano mobili, soltanto pareti giallicce e chiazzate d’umidità. Fu come preso nel vortice d’una visione lucida: di colpo si ritrovò in quello stesso soggiorno in una gelida alba d’inverno di tantissimi anni prima.
Al centro della sala stava un grande tavolo di legno laccato attorniato da sedie foderate di pelle scura; una grande porta con vetri smerigliati si schiuse davanti a lui sull’oscurità d’un lungo corridoio.
Sapeva, come per un’inspiegabile reminiscenza, che sul lato destro del corridoio s’aprivano varie stanze, ma il buio fitto ed insondabile del corridoio gli procurava uno strano timore paralizzante che da tantissimo tempo non aveva più provato; forse addirittura da quando…

Allungò le braccia davanti a sé come per schermarsi dalle ignote minacce che quelle tenebre racchiudevano; costrinse le gambe riluttanti a muoversi ed avanzò a tentoni nell’oscurità. Brancolando a caso, trovò la maniglia d’ottone della prima porta che incontrò strisciando lungo la parete destra; aprì la porta e fu investito da un alito caldo e secco che sapeva di stantio e di vecchie cose dimenticate.
La stanza in cui entrò era debolmente illuminata dal vago chiarore d’un mattino perduto nel caos del suo passato: una luce diafana trapelava attraverso le persiane accostate di un’unica, alta finestra. Nella stanza c’erano due letti ed un tavolo rotondo di legno intarsiato; nel letto più prossimo alla porta, qualcuno si agitava nel sonno, scuotendo a tratti la pesante coperta di lana grezza.
Soriano s’accostò al capezzale e scorse la figura d’un ragazzino di circa dieci anni che scrollava la testa sussurrando a tratti delle frasi indistinte nell’agitazione senza scampo d’un sogno penoso.
Si chinò a scrutarne il volto ed un panico indicibile lo lasciò annichilito: nel volto del ragazzo c’era qualcosa di spaventosamente familiare: a Soriano parve di fissare uno specchio che gli rimandava il suo volto, ma con i tratti perduti dell’infanzia. Soriano rimase immobile a fissare il bambino dormiente finché costui mormorò ripetutamente, con un tono d’ossessiva disperazione, un’unica incomprensibile frase:
– Sekhmet!… Mater Tenebrarum!…
Più perplesso che mai, Soriano provò a scuotere delicatamente il dormiente; costui sbarrò gli occhi di colpo e, con un urlo soffocato, scattò a sedere sul letto, restando poi a fissare attonito il suo io adulto che lo scrutava dalle profondità del futuro.

Soriano avrebbe voluto rivolgergli una frase rassicurante, ma non gli venne in mente nulla, dopo un breve silenzio pieno d’imbarazzo gli chiese soltanto:
– Cosa hai sognato?
La voce che gli rispose sussurrando era infantilmente nasale.
– La cantina!… Mamma mi ci ha rinchiuso ieri perché ero stato disubbidiente! Lei lo sa che ho paura del buio e mi ci ha messo apposta. Per più di due ore m’ha lasciato là… al buio!
– Chi è Sekhmet?
– E’ il fantasma del sotterraneo; sta nella stanza più profonda. Nel buio la sentivo muoversi… e mi chiamava!…
– E’ salita da te dalle scale del sotterraneo?
– Non ha potuto, perché le scale sono ingombre di vecchi mobili e calcinacci, ma ho sentito il fracasso che faceva tentando di spostarli. Una di queste notti riuscirà ad aprirsi un varco e verrà qui per uccidermi!

Poi, come destandosi di colpo da una trance, Giovanni bambino fisso con sospetto il suo sosia adulto.
– Chi sei tu?
– Vorrei aiutarti.
– Non puoi! Nessuno lo può!… Lei è troppo potente! Possiede grandi magie.
Per un po’, rimasero di nuovo in silenzio.
Soriano tentò goffamente di porre la mano sulla spalla del ragazzo in un gesto d’affetto: il piccolo Giovanni si ritrasse spaventato.
Soriano s’avviò deluso verso la porta.
– Mi dispiace, Giovanni: a noi due nessuno ha mai insegnato la compassione. Se sarà possibile, tenterò di aiutarti, ma non aspettarti grandi cose da me!
– Stai attento,- mormorò il bambino con la voce incrinata dalla paura;- il corridoio è infestato dai morti viventi!
– Non vuoi venire con me?
– No, no, no!… Loro sono là fuori che m’aspettano! Sono pazienti, spesso rimangono fino all’alba!
– A me non fanno paura,- mentì Soriano.
– Scenderai nel sotterraneo?
– Se tu non te la senti, lo farò io per te!
– E ucciderai la strega?
– Tenterò!
Detto questo, varcò la soglia ed uscì nell’oscurità del corridoio, per niente sicuro di poter mantenere la sua promessa.

Orientandosi verso il vago chiarore che proveniva dalla sala d’ingresso, già si stava riavendo dal trauma che lo aveva colpito davanti al fantasma della sua infanzia quando un fruscio impercettibile alle sue spalle rimise in allarme tutti i suoi sensi.
Si volse di scatto, giusto in tempo per fissare incredulo una rossa fiamma baluginante che s’avventava contro di lui dal fondo scuro del corridoio. Tentò d’arretrare, ma la paura lo paralizzò e non poté far altro che restare inerte a scrutare lo spettro fiammeggiante che gli si precipitava addosso volteggiando silenzioso a mezz’aria.
Per un attimo l’aria fu ammorbata da un fetore nauseante di marciume, come se una tomba fosse stata scoperchiata in quel momento.
Stordito e sconvolto, Soriano serrò le palpebre così come faceva da bambino per non vedere le apparizioni inquietanti che popolavano i suoi incubi.
Percepì distintamente la fiamma incorporea che penetrava in lui e lo attraversava per poi procedere oltre lasciandogli dentro un gelo infernale, misto a violenza e desiderio di possesso.
Pazzo di paura e di rabbia, cadde in ginocchio tentando di urlare, ma dalla gola gli uscì soltanto un gorgoglio rauco. Si trascinò carponi fino alla sala d’ingresso e lì, scuro e ieratico nel riquadro di luce della porta d’ingresso, vide il postino intento a scrutarlo con un’espressione di compiaciuto disprezzo.
– Lei non è cambiato affatto in tutti questi anni,- sentenziò con tono tagliente; – credeva che il passato fosse morto, ma ora sa la verità! Nessuno si libera mai dai propri demoni. Il tempo del suo spirito è un tempo immobile, non ci sono metamorfosi che possano cambiare ciò che lei è!… Avrebbe fatto meglio a restarsene a casa, oggi!
Soriano avrebbe voluto urlargli contro una sequela d’insulti, sfogare su quell’essere odioso tutta la sua rabbia, ma un inesplicabile comando interno glielo impedì e non poté far altro che scrutarlo mentre scendeva le scale della veranda per dileguarsi fra le aiuole del giardino.

Colmo di disperazione e disgustato di sé stesso, si rialzò ed uscì anche lui dalla grande stanza silenziosa.
All’aperto l’incerta alba invernale del suo sogno lucido non era che un vago ricordo e l’abbagliante sole estivo incombeva sul grande giardino inselvatichito. Ma il luogo non era più deserto: oltre il lungo viale, dietro il cancello d’ottone rugginoso, una folla di visi sparuti e volgari s’assiepava a fissarlo come se egli stesso fosse una delle tante presenze intangibili che popolavano la vecchia villa. Soriano s’avviò lungo il viale per osservare meglio quei nuovi ospiti importuni e quando fu a pochi passi dal cancello, ancora una volta la paura lo invase.
Si trattava di una banda di svitati, circa una mezza dozzina fra uomini e donne; niente di più che comuni teppisti da strada, lo dimostravano le grosse moto parcheggiate ai lati del sentiero acciottolato ed il loro stesso abbigliamento: giubbotti in pelle scura, stivali di cuoio e calzoni sdruciti.
C’era però qualcosa di innaturale nei loro tratti somatici: i tratti di quei volti erano giovanili, ma le loro capigliature erano tutte grigie ed i loro occhi avevano una certa qual fissità allucinata che metteva a disagio.
Uno di loro, di certo il più sfrontato, spalancò il cancello ed invitò gli altri ad entrare con un gesto plateale. I teppisti cominciarono a sciamare all’interno. Furioso, Soriano fece qualche passo avanti e li apostrofò con la poca autorevolezza che gli restava:
– Che cosa cercate qui?… Questa è una proprietà privata!
Il facinoroso che aveva invitato gli altri ad entrare gli si parò dinanzi e, con aria sfottente, gli chiese:
– Ma tu chi sei? Chi ti manda?
– Sono il nuovo guardiano della villa – mentì Soriano.
– Noi siamo i figli della Dea Sekhmet e non vogliamo estranei nel suo tempio!
Il teppista, un tipo bulimico e foruncoloso, fissava Soriano con quel suo strano sguardo spiritato; dopo un po’, non sapendo più che dire, aggiunse un’altra fesseria:
– Sekhmet ci chiama!
Soriano sospirò con aria rassegnata; disse:
– Capisco!
S’avvicinò d’un passo al bulimico e gli rifilò una ginocchiata all’inguine che lo fece piegare in due con un gemito simile al miagolio d’un gatto ferito.
Mentre il suo avversario cadeva a terra come un sacco di patate, Soriano non perse tempo ad osservare le reazioni degli altri invasati e si diede alla fuga lungo il viale.
Giunto dinanzi alla facciata, deviò a sinistra e s’infilò in un piccolo androne da cui s’accedeva ad una sontuosa rampa di scale che portava ai piani superiori. Si guardo attorno per un secondo; un remoto ricordo gli venne in soccorso e, senza sapere perché, premette contro la parete intonacata con le mani tese; una porzione del muro cedette alla pressione rivelandogli un passaggio segreto oltre il quale intravide nel buio una scalinata in discesa.
Soriano s’addentrò oltre il pannello segreto che si richiuse dietro di lui con un debole cigolio; si ritrovò a scendere dei bassi gradini scavati nel calcare: aveva trovato l’ingresso della cantina.

Ormai ricordava quasi tutto con sempre maggiore chiarezza; schegge lancinanti di memorie perdute riaffioravano in continuazione dalle profondità del suo passato perduto.
Ricordò che accanto al pannello segreto doveva trovarsi un interruttore e, passando le mani sulla scabra parete di calcare, riuscì ad individuarlo. Fece scattare la leva e subito la scialba luce giallastra d’una lampadina polverosa illuminò la scala che scendeva verso un buio insondabile.
Scese per una decina di metri e si ritrovò all’inizio d’un vasto corridoio denso d’ombre di cui non riusciva a scorgere il fondo.
Qualche metro più avanti, riconobbe sulla destra una cancellata di legno grezzo: la porta d’accesso della cantina che, trent’anni addietro, era appartenuta alla sua famiglia.
Il catenaccio era stato divelto e Soriano poté quindi entrare senza difficoltà nell’andito buio dove subito trovò un altro interruttore funzionante.
Col passare degli anni le pareti di calcare grezzo s’erano ricoperte di muffa a tal punto da apparire completamente annerite; i pochi mobili rimasti erano stati accatastati in un angolo e sul pavimento di terra battuta spiccavano i resti d’un falò assieme a moccoli di candele semiconsumate e putride chiazze oleose ormai solidificate.
Era evidente che i seguaci della strana dea che tanto spaventava il piccolo Giovanni avevano gozzovigliato in quel luogo, forse tentando di aprire un varco fra il ciarpame ed i calcinacci che ostruivano il vano oscuro largo un paio di metri che s’apriva nell’angolo opposto all’ingresso.
Quale fosse il loro scopo a Soriano era ormai evidente: volevano raggiungere la stanza sotterranea dove da decenni l’indefinibile entità, che essi chiamavano Sekhmet, si era rifugiata in attesa di qualcuno che la liberasse per scatenare di nuovo la desolazione sulla terra.
Soriano gettò uno sguardo nell’anfratto oscuro e vide che era stato quasi completamente sgomberato: soltanto una pila di vecchie casse polverose ed il telaio arrugginito d’un letto d’ottone sbarravano ancora il passo all’abominio che stava per scatenarsi da quel buio senza fondo.

Uscì di corsa dalla cantina e proseguì lungo il corridoio superando senza vederle altre cancellate di legno con i loro segreti dimenticati.
In fondo al corridoio svoltò di colpo in una vasta sala al centro della quale troneggiava la mole brunita della caldaia principale; con la determinata destrezza d’un sonnambulo si diresse verso un angolo dove, appoggiati al muro, alcuni attrezzi da giardinaggio arrugginivano in silenzio dai lontani anni della sua infanzia.
Scelse un piccone arrugginito ma robusto e già stava per ritornare nel corridoio quando, inaspettato e brutale, un fiotto di luce spettrale gli colpì il volto accecandolo.
Mentre distoglieva il volto da quel bagliore insopportabile, udì la voce gutturale del postino che sibilava rabbiosa:
– Non ci provare! Non osare profanare il sotterraneo!

Soriano sentì i passi dell’uomo avvicinarsi; preso dal panico, brandì il piccone e s’avventò in avanti alla cieca. Senza nemmeno che lui se ne rendesse conto, la punta dell’arnese s’infisse quasi da sola in un ostacolo morbido e scricchiolante; la lampada elettrica che il postino reggeva nella destra scivolò a terra e Soriano si ritrovò, col volto e la camicia schizzati di sangue, a fissare il suo avversario che rotolava a terra con la lama rugginosa del piccone infissa fra le costole al livello del cuore.
Non fu un’impresa da poco sfilare la ruvida lama dalla breccia sanguinante che s’era scavata nel petto dell’uomo frenando al contempo lo sbocco di vomito che gli premeva in gola, ma Soriano era ormai preso in una sorta di vertigine onirica in cui l’unico sentimento che ancora gli perdurava nella coscienza vacillante era la volontà disperata di concludere il suo macabro compito; per sé stesso e per quel bambino spaventato che lo supplicava dal fondo della sua infanzia smarrita.

Brandendo il piccone gocciolante di sangue e la torcia elettrica, ritornò alla cantina e s’inoltrò oltre il varco buio dove sapeva che Sekhmet lo aspettava acquattata nella penombra.
Con furia delirante, sfondò il legno fradicio della pila di casse che ancora ostruiva l’ultima rampa di scale; ferendosi le mani, afferrò il telaio rugginoso della branda e lo spostò contro la parete.
Puntò il fascio di luce nel buio oltre l’ultima breve rampa di gradini e finalmente la vide. Al centro d’una piccola cripta interamente scavata nel tufo e talmente bassa da costringerlo a camminare curvo, adagiata su un piedistallo di marmo, stava la statua a grandezza naturale di uno strano essere mollemente sdraiato sul fianco sinistro.
La testa, sormontata dal disco solare, aveva i tratti d’un leone; il corpo era quello d’una donna con ampi seni e le braccia languidamente appoggiate in grembo, ma le belle mani e le lunghe gambe terminavano con artigli felini minacciosamente ricurvi.
Soriano puntò deciso il raggio di luce sugli occhi vuoti di Sekhmet e, mentre le si appressava a passi lenti, il diafano raggio di luce illuminò una metamorfosi diabolica: la statua volse letteralmente la testa verso di lui e, schiusa la bocca di pietra, ne fece saettare all’infuori una scura, fremente lingua biforcuta che prese a minacciarlo saettando minacciosa davanti a lui.
Con un urlo lacerante, Soriano levò in alto il piccone e colpì più volte, freneticamente, con furia disperata, il volto di quella mostruosità.
Dalle profondità della vecchia villa si levò un ululato devastante; molti vetri delle vecchie finestre andarono in pezzi ed un vento improvviso prese a spazzare l’antico giardino squassando i rami degli alberi.

Quando giunse la sera, Soriano si decise a varcare il passaggio segreto dal quale era penetrato nelle cantine.
Il cielo s’era incupito e fra i cespugli del giardino s’udivano cantare i grilli. Dal salone a pianterreno in cui era entrato al suo arrivo, sentì levarsi un coro di voci salmodianti una nenia monotona; le morbide luci di dozzine di candele baluginavano dalle finestre di tutti i piani.
Camminando curvo nelle tenebre aveva già raggiunto il cancello d’ingresso e stava per schiuderlo con infinita cautela quando, nell’oscurità alla sua sinistra qualcosa si mosse.
Soriano ebbe un brivido di sgomento: sarebbe stato veramente grottesco farsi scoprire proprio adesso che il peggio era passato, a due passi dalla salvezza.
Da dietro una massa di vecchi rovi spuntò fuori la figura esile e pallida d’un bambino e gli si avvicinò in silenzio; Soriano vide che aveva le guance rigate di lacrime.
– Sekhmet non tornerà più! Ora potrai dormire senza incubi!
– Portami con te!… Non voglio restare qui da solo…
– Esiste una strana cosa chiamata destino e che nemmeno la magia degli Déi può mutare. Noi siamo soltanto umani, non siamo Déi…
Soriano schiuse il cancello e s’avviò per la stradina acciottolata; il suo io bambino rimase a fissarlo da dietro l’inferriata, con un’espressione sconsolata sul viso.
– Prevedo per te un grande avvenire! – gli gridò allontanandosi; ma poi, appena solo nella sera silenziosa, sentì un groppo di pianto in gola, forse a causa di quella sua pietosa bugia. Sabato 27 giugno 1998.

 

Autore: Giovanni Soriano
Messo on line in data: Novembre 2000