RACCONTO: IL FANTASMA INNAMORATO di Mariva

La mia conoscenza con la famiglia Waldegrave partì col piede sinistro, fin dal primo momento. L’annuncio che avevo letto, pubblicato su di un giornale della mia città, offriva a una ragazza, di età compresa fra i diciotto e i venticinque anni, il soggiorno in una signorile casa inglese, Borley Manor, per i mesi di giugno e luglio, con trattamento familiare, pomeriggio e l’intera domenica liberi, in cambio di quattro ore di aiuto con due bambini di tre e cinque anni, ogni mattina.
Un banalissimo annuncio per ragazze alla pari; mi aveva però incuriosito il nome della casa, Borley come Borley House, definita “la casa più infestata di fantasmi del Regno Unito”; e anche il cognome Waldegrave, come la famiglia che l’aveva fondata.

Arrivai alla stazione di Plymouth, sulla Manica, alle tre di un pomeriggio piovoso e cupo, che sembrava una classica giornata di novembre invece che di giugno. Cambiai treno e presi un locale per il paesino di Junction, che raggiunsi in due ore. L’auto che avrebbero dovuto mandarmi i Waldegrave non c’era, nonostante ci fossimo chiaramente accordati per lettera e avessi confermato l’ora del mio arrivo due giorni prima, con un telegramma.
La sala d’attesa era fredda e umida, proprio poco invitante.
Riuscii a trovare un tizio, aiutante del macellaio della cittadina, con un enorme naso rosso che denotava un eccessivo amore per la birra, che mi costrinse a una estenuante trattativa prima di caricarmi su di un furgoncino e portarmi fino a Borley Manor, che distava tre miglia dal paese.
Il viaggio sul furgoncino sconquassato, scomodissimo già per sé, fu allietato da scrosci di risatine, che l’autista emetteva continuamente, mentre mi guardava di sottecchi. Davanti al portone di una casa antica, mi scaricò con un ultimo ghigno e sparì.

Mentre me ne stavo ferma sotto la pioggia a guardare la facciata, dalle linee stupende, anche se molto malandata e coperta di muschio, il portone si aprì e ne uscì un uomo alto e anziano, con l’aspetto di un maggiordomo da filmetto di serie C, che si mise a strillare:
“Perché non è andata all’ingresso posteriore?”
Rimasi allibita: che razza di benvenuto!
Era davvero troppo. Afferrata la maniglia della mia valigia, attraversai decisamente la soglia, oltrepassando il maggiordomo, scontrandomi con un uomo che stava uscendo in quel momento. Era alto, robusto e sarebbe stato molto bello se non avesse avuto un’espressione da pesce lesso.
“Perché non si è presentata all’ingresso posteriore?” mi chiese seccamente, dopo avermi squadrata.
“E perché avrei dovuto?” chiesi altrettanto seccamente.
Sembrò finalmente capire che qualcosa non andava e dopo un’altra occhiata decise di presentarsi: “Sono George Waldegrave “
“Non posso dire di essere molto lieta di conoscerla- risposi- Sono Gloria Solmi, la vostra ospite italiana”.

Mi guardò costernato.
“Mi scusi, pensavo fosse la nuova cameriera”
Dato che indossavo un completo di Armani, mi chiesi quanto guadagnassero le domestiche in quella zona.
“La ragazza doveva arrivare stamattina. Invece lei sarebbe dovuta arrivare domani”.
“Vi ho mandato martedì un telegramma, dicendo che sarei arrivata oggi”.
“Il telegramma diceva giovedì”.
“Infatti, oggi è giovedì”.
Mi guardò, con un’aria esageratamente sorpresa, ed ebbi subito l’impressione che stesse mentendo. Ma perché?
Si voltò verso il maggiordomo.
“Tutto bene, Alfred, la signorina è la nostra ospite italiana. Accompagnala nella sua camera, per darle modo di sistemarsi”.
Alfred annuì solennemente e abbozzò un inchino, prima di prendere la mia valigia e dirigersi verso le scale. Di nuovo ebbi l’impressione di una recita; mi parve, addirittura, che entrambi sorridessero sotto i baffi.
Ci facemmo tre rampe di scale e qualche miglio di corridoi, prima di arrivare nella camera, che era immensa, gelida e puzzava un po’ di muffa, come se non fosse stata arieggiata da tempo.
Ero molto seccata. Per un momento ebbi la tentazione di andarmene, ma non volevo chiedere passaggi a quei tipi sgradevoli, e neppure farmi la strada a piedi, col buio che calava, fino a Junction. Per cui feci buon viso a cattiva sorte; tolsi dalla valigia il pigiama e poche altre cose, rimandando la decisione al mattino seguente.
Mi feci la doccia (fredda), mi cambiai e alle sette e cinquanta scesi a conoscere gli altri membri della famiglia Waldegrave.

In salotto trovai la signora Adelaide Waldegrave madre, che mi parve una furba di tre cotte, il signor George Waldegrave figlio, che avevo già incontrato, la signora Milly Waldegrave, moglie di George, che mi parve una mite e perfetta oca, oltre che dotata di un aspetto fisico quanto mai scialbo, e i loro due pargoli, due bambini minuti, timidi ed educati, di gran lunga più simpatici dei genitori.
La cena fu banale nelle portate (le onnipresenti patate, piselli e carote ad accompagnare un pezzo di bollito filaccioso), scarsa nelle porzioni (io ho un ottimo appetito) e conclusa da un dessert abominevole (un budino con le uvette, acquoso e troppo dolce, che sapeva di bruciato).
La conversazione, per adeguarsi al tono della cena, fu monosillabica.
Tutti gli adulti sembravano in grande imbarazzo e si lanciavano sguardi di traverso. I bambini tacevano.
Presi come scusa il fatto di essere stanca per il viaggio e alle nove tornai in camera, tra il generale ed evidente sollievo.
Mi misi il pigiama e mi infilai nel letto, con un libro giallo che avevo comprato all’edicola della stazione. Pensai che, probabilmente, i Waldegrave si erano pentiti, per motivi loro, di aver cercato una ragazza alla pari.
Non osavano dirlo, per timore di offendermi, ma era chiaro che non ero la benvenuta: decisi di andarmene la mattina dopo.
Dopo aver letto un po’, spensi la luce e mi addormentai.

A mezzanotte fui svegliata da un rumore; come capita sempre in questi casi, non riuscii subito a capire che cosa fosse. Drizzai le orecchie e distinsi chiaramente dei colpi battuti alla mia porta.
Mi alzai e andai ad aprire, ma non c’era nessuno.
Convinta di essermi sbagliata, chiusi e me ne tornai a letto.
Avevo appena spento la luce che sentii bussare di nuovo.
Schizzai fuori dal letto e spalancai la porta: non c’era nessuno.
Uscii e guardai nel corridoio. In fondo, verso la parte che portava alle scale, vidi una figura, che mi parve coperta da un lungo mantello con cappuccio: mentre la guardavo, letteralmente scomparve nel muro, in uno svolazzo di stoffa. Tornai in camera, con la testa piena di pensieri. Mi rimisi a letto, ma non spensi la luce. La notte passò senza altri eventi.

La mattina dopo scesi a colazione alle otto, come mi era stato detto.
Tutti mi fissavano in modo strano, distogliendo lo sguardo in fretta se li guardavo. Decisi che era arrivato il momento di smuovere un po’ le acque.
Mi rivolsi al padrone di casa:
“Mr Waldegrave, questa casa è infestata da qualche fantasma?” gli chiesi tranquillamente.
A sua madre andò per traverso il pane imburrato; si mise a tossire, sputando frammenti di cibo sulla tovaglia. Uno spettacolo davvero disgustoso; per fortuna ero lontana, dall’altra parte del tavolo.
Sei paia d’occhi, mamma, babbo, nonna, nipotini e cameriera mi fissarono allibiti.
“Ma cosa dice?” chiese Milly, con uno squittio spaventato.
“Dico, perché questa notte ho visto qualcuno con un mantello sparire dentro un muro”.
Orrore, incredulità, scetticismo: tutti si misero a parlare contemporaneamente, commentando la cosa.
“Nelle vecchie case poco illuminate, come la nostra, si possono vedere cose che non ci sono, tra le ombre. Comunque, chissà come si sarà spaventata, poverina?” chiese nonna Waldegrave con voce ipocritamente compassionevole e l’aria di divertirsi un mondo.
Portai la mia attenzione su di lei e la fissai.
“E perché mai? – chiesi – A me interessano molto i fenomeni paranormali. Anni fa ho seguito uno stage con un gruppo di ricercatori che indagavano su case infestate. Ne abbiamo esaminate circa cento…”
“E i risultati?” mi chiese nonna Waldegrave con tono speranzoso.
“Si rivelarono trucchi nel 93% dei casi”.
Vidi il suo viso allungarsi palesemente.
“E nel restante 7%?” chiese George nel silenzio generale.
“Cinque erano casi non verificabili, il resto dubbi”.
“Beh, io non posso dire niente, o meglio, niente di sicuro, perché non ho visto, ma… solo sentito, però…”
La sua riluttanza era ben poco convincente. Senza fatica gli tirai fuori la storia.

La casa era sorta sui resti di un monastero costruito attorno all’anno Mille. Nel Cinquecento, al tempo delle lotte tra Cattolici e Protestanti, si era verificata una tragedia: il monastero, attaccato dai seguaci del protestantesimo, era stato dato alle fiamme. Le suore, avvertite in tempo, erano riuscite a fuggire, ad eccezione della badessa, che era rimasta ad aspettare l’arrivo del sacerdote che raccoglieva le confessioni, del quale era innamorata. L’uomo era stato costretto a ritardare, essendosi ferito cadendo da cavallo, e la monaca, che si era nascosta all’ultimo piano dell’edificio all’arrivo dei nemici, era morta bruciata.
Il suo fantasma veniva ogni tanto intravisto da qualcuno, mentre girava, in uno svolazzar di tonaca, per i corridoi del terzo piano, proprio dove mi avevano messa a dormire.
Che coincidenza!
Finii la colazione, poi me ne andai in una grande camera al primo piano con Milly e i suoi due figli, per cominciare il mio lavoro. Inutile precisare che avevo deciso di restare, dato che la cosa si stava facendo interessante.

Passò una settimana senza che accadesse niente.
La mattina stavo con i bambini, giocando, leggendo delle favole e insegnando loro qualche nozione di alfabeto con l’aiuto di un libro illustrato. Il tempo, sempre pessimo, non permetteva di uscire in giardino.
Il pomeriggio leggevo nella biblioteca fornitissima e trascurata della casa; feci qualche giro in bicicletta nei dintorni, ma sempre breve per colpa della pioggia. Due sole volte arrivai fino a Junction e feci qualche commissione, tra la curiosità degli indigeni.
L’ottava notte sentii di nuovo i colpi, sempre attorno alla mezzanotte; ormai ero pronta.
Tolsi il tappo all’ampolla con i liquidi che mi ero procurata a Junction e versai il contenuto sulla soglia, tra la porta e il corridoio, fingendo di guardar fuori. Richiusi e spensi la luce, ma non mi allontanai dalla porta.
Poco dopo udii un fruscio e dei colpi battuti sullo stipite: un banalissimo espediente per far sembrare il suono più cupo e lontano.
Aprii di scatto la porta e me lo trovai davanti: come prevedevo, era rimasto appiccicato al liquido che avevo lasciato cadere.
Tentò di liberarsi, poi capì che era impossibile, senza il mio aiuto.
Mi guardò, un lungo sguardo che non potrei mai dimenticare, neppure se vivessi mille anni.
Conteneva rammarico per essere stato scoperto in flagrante, ironia verso se stesso, una buona dose di divertimento. Era insieme sfrontato e carezzevole.
Sorrisi. Ci capivamo alla perfezione.
Allungai una mano, lo tirai fuori dalla pozza, dentro nella camera, e chiusi la porta a chiave.

La mattina dopo scesi a colazione con l’aria di una che ha passato la notte senza dormire, e in effetti era proprio così.
Incontrai George e Milly in sala da pranzo.
“Non ha dormito, stanotte? Ha l’aria stravolta” mi chiese gentilmente Milly.
“No, risposi, non sono stata bene di stomaco e non ho dormito molto”.
“Forse non ha digerito, il roastbeef era troppo grasso, ieri sera. Anche mio marito ha passato parte della notte in piedi per il mal di stomaco. Per non disturbarmi se ne è stato in biblioteca.”
George, che aveva un’aria ancora peggiore della mia, si mise a raccontarmi dei pasti leggeri che suo padre era solito prendere, mai dopo le sei e mezza di sera, per non rovinarsi il sonno con una digestione pesante.
Parlammo delle delizie della dieta mediterranea e dell’importanza di una buona colazione per cominciare bene la giornata.
Milly portava i bambini a trovare l’altra nonna, quella mattina, per cui io ero libera di fare quello che volevo.
Me ne andai in biblioteca, la stanza più bella della casa. Guardarla era una pena.
I libri, di cui molti antichi, risalenti alla fine del Settecento, quando era stata ristrutturata la casa, erano tenuti male, messi negli scaffali senza logica. Alcuni avevano macchie di umidità, i dorsi rovinati.
Entrò nonna Waldegrave. Si guardò intorno, disgustata:
“Quando entrai in questa casa come sposa, quasi cinquanta anni fa, la biblioteca era l’orgoglio di mio marito. Adesso è buona per il camino”
“Non proprio – obiettai – basterebbero cure amorevoli, una buona aerazione, una temperatura costante e molta pulizia. Avete tre domestici fissi: fateli lavorare”
Mi fissò con aria di approvazione.
“Mia nuora non ha polso – mi disse – è una vera oca e tirerà su due figli stupidi; mio figlio non l’ama, se ne vergogna e non le dice niente. Gli ci sarebbe voluta una donna diversa. Lei mi piace – concluse, e uscì.
Sorrisi tra me.

Trovai quel che cercavo, un libro sui fantasmi di Borley Place. Borley quella vera. Situata tra Essex e Suffolk, la casa aveva annessa una canonica, che per anni fu teatro di continue apparizioni, tanto che il giornalista Harry Price la descrisse in un libro intitolato La casa più infestata d’Inghilterra. Sul terreno su cui era sorta la canonica esisteva nel Settecento una casa, Borley Manor, che apparteneva a Henry Waldegrave. Henry sposò una suora, che apparteneva a un ordine francese; lasciato l’ordine e ricevuta la dispensa per sposarsi, la giovane Marie morì, a sentire le rivelazioni del suo fantasma, per mano del marito, che ne mise il corpo vicino all’entrata della cantina. I resti furono ritrovati dopo la guerra.
Non so quante coincidenze siate disposti a tollerare. Io poche.
La notte stessa lo chiamai, come solo io sapevo, e gli parlai:
“Qui le cose non quadrano; sono stata invitata a venire come ragazza alla pari, ma non servo a nessuno. Non ci vuole un genio per capire che la mia presenza ha uno scopo preciso: che io veda un fantasma, che tutti lo sappiano e che arrivino frotte di turisti paganti per vedere la casa degli spiriti”.
Scoppiò a ridere, divertito.
“Ci avrei scommesso, che avresti capito in fretta.”
“Se la casa fosse mia, farei la stessa cosa per tirare su un po’ di soldi per sistemarla.”
“Proprio così. L’idea di base, che è stata battezzata messinscena Waldegrave, era di far venire una donna; una donna, perché più impressionabile; giovane, perché con meno esperienza; italiana, perché… i latini sono più emotivi!”
“Questa, poi, mi pare il colmo!”
“Niente affatto; ti assicuro che aveva tutti i numeri per riuscire. Ma tu sei stata una vera delusione! Avresti dovuto svenire, o almeno svegliare tutta la casa con i tuoi urli!” concluse, sghignazzando come un matto.
“Beh – gli dissi quando si fu calmato – si può sempre rimediare. La messinscena Waldegrave è stata davvero goffa. Questa casa si è chiamata per secoli ‘Il giardino dei pettirossi’, come chiaramente indicato in numerosi libri e registri che ci sono in biblioteca. La storia di una nuova ‘Borley Manor’, quindi, fa acqua da tutte le parti. Era tutto troppo studiato, la macchina che non c’era, il viaggio col tizio che rideva, la finta sorpresa nel vedermi…”
“Sì – convenne – era tutto studiato a tavolino per metterti a disagio”.
“Ma anche un’idiota si sarebbe accorta che tutti, o quasi, fingevano. Tranne Milly e i bambini.”
“Milly non sa fingere – osservò – Purtroppo, perché tu possa rimanere qui con me, deve morire”.
Sì, Milly mi faceva pena, ma la sua presenza era superflua.
“Nonna Waldegrave mi è simpatica e anche i bambini possono restare.”
“Come vuoi. Prepariamo il piano”.

La notte seguente, a mezzanotte in punto, col viso infarinato a dovere per sembrare pallidissima, cacciai un urlo terribile. Quando tutti furono accorsi, spiegai balbettando che avevo visto una suora, con una lunga tonaca nera, un viso spettrale e un’espressione assassina, comparire nel corridoio.
Avevo staccato un crocefisso dal muro, lo avevo tenuto davanti a me e il fantasma era scomparso nel muro. Mentre ripetevo per l’ennesima volta la storia, seduta in cucina davanti ad una tazza di the, con i bambini sulle ginocchia, nonna Waldegrave che mi lodava per la mia presenza di spirito e tutta la servitù che mi ascoltava deliziata e inorridita, Milly, salita a prendere uno scialle in camera perché aveva freddo, scivolò sulle scale, cadde e si ruppe l’osso del collo. Nessuno fu testimone della caduta, perché in quel momento George era in bagno. Tutti convennero sul fatto che l’orribile apparizione fosse stata messaggera della morte della povera Milly.
Avemmo mesi terribili, con i giornalisti che ci assediavano e tutti gli Acchiappafantasmi d’Europa a campeggiare nel parco. Se ne andarono alle prime piogge autunnali.
Io fui ‘una vera manna’ (come mi definirono tutti) per la famiglia, perché mi occupai di tutto. A tempo debito, George mi chiese in moglie. Gli ero diventata indispensabile: il poveretto si era perdutamente innamorato di me.

Lo eliminammo la sera stessa delle nozze; morì dolcemente, dopo un brindisi in mio onore con champagne ghiacciato.
Il suo spirito si ricongiunse, nell’aldilà, con la povera Milly: mi piace pensare che vivano insieme, finalmente felici, in un mondo migliore.
Il mio amato prese il suo posto nel suo corpo.
Nessuno se ne accorse, ma tutti notarono il cambiamento positivo di George dopo il nostro matrimonio.
Camminava diritto, sempre col sorriso sulle labbra, come si addice a una persona che dalla vita ha avuto tutto ciò che voleva, e, per fortuna, non aveva più lo sguardo da pesce lesso.
Avevo aspettato più di quattrocento anni, girato innumerevoli case in tutto il Regno Unito, per ritrovare il mio amato.
Mi ero imbattuta in fantasmi aggressivi, dolenti, disperati, mai in lui. Stavo quasi per arrendermi, quando avevo notato l’annuncio.
Sono molto contenta: ci siamo ritrovati e, ormai, non debbo più passare da un corpo all’altro per continuare a cercarlo. Non mi importa di essere ridiventata mortale.
Domani festeggeremo le nozze di diamante, con i nostri figli, nipoti e pronipoti. Purtroppo non sarà con noi nonna Adelaide, che si è spenta serenamente nel suo letto a novantacinque anni.
Le sue ultime parole sono state una benedizione per me.

 

Autore: Mariva
Messo on line in data: Febbraio 2001