RACCONTO: L’ESTATE DI SAN MARTINO di Giovanni Soriano
A novembre avanzato, il tempo si manteneva ancora insolitamente mite. Quasi ogni giorno, verso le prime ore del mattino, una pioggerella tiepida ed oleosa bagnava la città per poi lasciarla in preda ad un tepore umido e malsano fino al crepuscolo. La gente si rendeva conto assai distrattamente che, molto più a nord, nelle desolate regioni artiche, i ghiacci si stavano lentamente sciogliendo, ma la cosa non li preoccupava più di tanto. In fondo, si trattava solo d’una piacevole estate di S. Martino.
Il mio amico Valeriano Loisio, violoncellista ormai anziano e senza più illusioni, in una di queste mattinate stranamente afose ed umide, s’avviò al suo tormento quotidiano, immerso come sempre in tetre meditazioni. Con Loisio, la vita era stata eccezionalmente avara di gratificazioni: questo era un fatto inoppugnabile del quale egli era fin troppo cosciente. Anche a causa del suo carattere scostante e poco incline al compromesso si ritrovava, non più giovane, in una situazione quantomai ostica. Niente legami familiari, niente amici, un passato colmo di ricordi penosi ed un futuro pieno di incognite. La sua croce peggiore: l’orchestra. Non che avesse nulla da rimproverarsi riguardo alla sua professione, salvo il fatto di non aver intuito per tempo che il talento conta assai poco in un ambiente ottuso e gretto come quello in cui s’era ritrovato fin dai giorni lontani della sua gioventù. In una situazione così disgraziata, per mettersi in evidenza e fare un po’ di carriera avrebbe dovuto usare le armi che più aborriva: lusinghe ed opportunismo. Ovviamente Loisio, onesto e privo di malizia, si ritrovava ora, alla fine del suo cammino esistenziale, completamente spiazzato ed emarginato. Il suo destino s’era arenato in una palude d’indifferenza e di astio assai amari da sopportare ma era anche inutile lamentarsi: i suoi svagati coetanei si mostravano sempre infastiditi se egli mostrava un qualche moto di ribellione.
Niente è più tedioso di un uomo che si lamenta della sua sorte ingrata, specialmente se le sue ragioni sono ben fondate. Dunque Loisio aveva appreso a tacere e sopportare e trascinava i suoi giorni in una palude di rancori inespressi.
” Questa è la volta buona che lo conciamo per le feste!”
L’illustre maestro Behemot con questa dichiarazione suggellò la sua totale sudditanza alla degna combriccola di celeberrimi musicisti che gli stavano attorno. Manco a farlo apposta stavano disquisendo sulla sorte del disgraziato Loisio e la dichiarazione di Behemot riassumeva perfettamente le intenzioni dei presenti nei suoi confronti. Per la cronaca, nella simpatica congrega, oltre al raffinato Behemot, erano presenti altri musici di chiara fama: la signorina Petulia, il primo violoncello Maestro Asmodeo, l’allampanato Vassago, afflitto da un leggerissimo strabismo che comunque non oscurava minimamente il suo fascino virile e l’ illustre spalla dei primi violini.
Tutti questi formidabili talenti erano debitori nei confronti di Loisio di una o più lezioni di vita. Presi singolarmente, costui non aveva avuto problemi a strapazzarli come i loro meriti richiedevano, ma così coalizzati stavano per diventare un vero e pressante problema. Proprio in quel momento la vittima potenziale di tanta acredine fece la sua comparsa nel golfo mistico e, notando immediatamente i loro sguardi carichi d’astio feroce, non poté fare a meno di tremare. Il maestro Asmodeo gli si avvicinò ridacchiando e gli sibilò poche parole:
“Per stasera, abbiamo programmato una prova a sezioni!…”
Sul volto di Loisio apparve una smorfia amara, ma in tono sommesso rispose soltanto:
“ Va bene!…”
Evidentemente, in quell’ accenno apparentemente innocente riguardo alla prova a sezioni, Loisio aveva intuito la volontà precisa di tutti i presenti di metterlo sotto torchio fino a farlo crollare. Comunque, da quanto ho saputo in seguito, Loisio non pensò affatto si sottrarsi alla prova. Ricordo però che quella sera lo vidi uscire dal teatro visibilmente sconvolto. Il giorno seguente non si presentò in orchestra e neanche nei giorni immediatamente successivi.
Vi fu chi tentò di contattarlo telefonicamente al fine di evitargli sanzioni disciplinari, ma ogni tentativo fallì. Verso la fine della settimana, fu chiaro finalmente a tutti che Loisio era misteriosamente e definitivamente scomparso.
Nelle settimane successive alla scomparsa di Loisio il tempo atmosferico continuò a mostrarsi innaturalmente clemente a parte i soliti scrosci di una pioggerella tiepida ed oleosa che fece salire l’umidità a picchi inusuali mentre la temperatura di quel novembre avanzato si manteneva ostinatamente afosa contro ogni ragionevole previsione. La stampa cittadina si occupò con fervore dell’argomento, anche per una sua carenza cronica di temi più interessanti. L’unico giornale locale a grande tiratura, essendo platealmente e sistematicamente schierato con il partito al governo, non s’azzardava mai a trattare temi di rilievo sociale per il perenne timore di mostrarsi critico nei confronti del sussiegoso e permaloso potere costituito. Per tale ragione, la notizia del subbuglio climatico venne sviscerata e discussa in tutte le sue forme possibili, avvallando e negando contemporaneamente tutte le ipotesi.
Si giunse così agli ultimi giorni di novembre quando, in una brumosa e quieta serata, finita la prova dell’orchestra, la donna addetta alle pulizie, una robusta ed attempata somala, svolgendo le sue mansioni abituali notò negli angoli del retropalco minuscoli depositi di piccole uova oblunghe e biancastre. Non vi fece molto caso e, semplicemente, provvide a rimuoverle. Tuttavia, il mattino seguente le capitò di notare che gli strani depositi s’erano riformati durante la notte. Provvide nuovamente a rimuoverle, ma il terzo giorno le uova erano ancora disseminate negli angoli e la donna cominciò a preoccuparsi.
Nel frattempo, la vita della piccola comunità musicale che vegetava nel golfo mistico del teatro comunale, trascorreva noiosa e fiacca come al solito.
Verso la metà di dicembre, in un mattino grigio e piovoso, avvenne finalmente un fatto curioso che per qualche ora ruppe la monotonia. In pratica si trattò soltanto d’un bizzarro incidente: semplicemente, due signorine non più giovani, entrambe violiniste nell’ orchestra, stavano discutendo di fatti insignificanti, quando una di loro, Elisa ***, notò su un leggio proprio dinnanzi al suo qualcosa che a prima vista le parve un magnifico fiore tropicale. Incuriosita e vagamente eccitata, s’avvicino per scrutare meglio; il suo viso si chinò sui petali d’un rosso vivo screziati di nero. Già la sua mano s’era levata per toccarlo quando, d’improvviso, il fiore s’animò: i petali scarlatti si rizzarono di scatto per serrarsi sul suo collo ed Elisa percepì la morsa di due minuscole mandibole che le artigliavano il labbro inferiore. La donna gettò un urlo penetrante e prese a scuotere il capo tentando di liberarsi da quella morsa dolorosa. Strinse fra le dita lo stelo del fiore malefico cercando di staccarlo da sé; il dolore al labbro si fece di colpo insopportabile: il fiore le sgusciò fra le dita con un guizzo subitaneo per ricadere a terra con un frammento di carne viva serrato fra i lunghi petali rossastri che si torcevano come artigli. Qualcuno ebbe la presenza di spirito d’afferrare il leggio ed usarlo per colpire la creatura che restò spiaccicata sul pavimento con un rumore sinistro simile al fruscio di un’enorme foglia secca.
Appena il trambusto si fu calmato e la donna col labbro sanguinante fu spedita in ospedale, qualcuno si prese la briga di esaminare i resti del fiore maligno: benché ciò che ne restava fosse soltanto una poltiglia piuttosto disgustosa, alla fine fu chiaro che non si trattava d’un vegetale, ma d’un insetto e precisamente d’una mantide di grandezza inusuale. L’ ovvia domanda conseguente a tale scoperta fu: com’era finita quella creatura nel golfo mistico del teatro, a migliaia di chilometri dalle regioni e dai climi a lei congeniali?
A questo punto, io stesso che scrivo il resoconto di questa inverosimile storia, mi devo fare avanti come testimone. Non credo opportuno dilungarmi troppo sulle mie vicende personali; spero che basti precisare che anch’io per quasi tre decenni fui un membro dell’orchestra e quando, per l’età e la mancanza di prospettive, le mie capacità di strumentista cominciarono a declinare inesorabilmente, fui messo da parte senza troppi riguardi. Dovetti accontentarmi di restare nell’ambito del teatro con la mansione molto più modesta di guardiano notturno. Sempre meglio che la fame.
Avevo frequentato Loisio per molti anni ed ero forse l’unica persona che un’ uomo così scostante avesse accettato come amico. Il mondo è crudele con i perdenti e noi avevamo in comunque lo stesso destino fallimentare che ci accomunava in una sorta di malinconica alleanza. Dopo la sua inesplicabile scomparsa, ero stato l’unico che si fosse preso la briga di fare qualche ricerca, peraltro del tutto inutile. Nel frattempo, la mantide spiaccicata era stata infilata in un sacchetto di plastica e gettata in un cassonetto senza che nessuno si curasse più di indagare oltre sulla sua provenienza. Volendo seguire fino in fondo una mia incerta premonizione, io recuperai di nascosto il sacchetto e con esso mi presentai alla sezione Entomologia del Museo di Scienze naturali. Riuscii a convincere un assistente piuttosto distratto ed indaffarato ad esaminare i resti della mantide. Il giovanotto parve sconcertato e mi chiese dove l’avessi trovata. Mentii:
“ Nel giardino di casa mia.”
“Incredibile! Si tratta di una specie tropicale piuttosto rara: il nome scientifico è Idolum Diabolicum. Le viene dalla sua capacità di assumere le sembianze d’un fiore dai colori sgargianti; gli insetti ne sono attirati e lei li cattura con le zampe prensili simili a petali per divorarle.“ Quella stessa sera tornai in teatro per svolgere il mio turno di lavoro. Casualmente notai un bidone della spazzatura piazzato proprio a lato dell’ ingresso principale. Incuriosito, vi sbirciai dentro: era stracolmo di sacchetti di plastica dove erano stati raccolti i resti spiaccicati di altre mantidi; ne contai più di una cinquantina. Quello che temevo s’era avverato: grazie forse al perdurante clima umido e caldo, le larve s’erano schiuse.
Quando lo spettacolo è finito, i musicisti se no sono andati e tutte le luci vengono spente, nel teatro deserto e buio cosa accade? In teoria non dovrebbe accadere nulla, ma chi lo può affermare con certezza assoluta? La notte che seguì fu una fra le peggiori della mia vita. La mia condizione attuale è già abbastanza colma di desolazione e, come se non bastasse, il dovere mi obbliga a vegliare per interminabili notti in quell’ edificio strano e misterioso, vagando per le sale ed i praticabili immersi nell’ oscurità, senza niente di meglio da fare se non riandare con la memoria al passato, quando ero un giovane musicista pieno di speranze.
Forse si tratta dell’ultimo infame scherzo del mio destino gramo: essere condannato da vecchio a vagare in solitudine nel teatro che mi vide giovane ed illuso. Ma quella notte qualcosa doveva succedere; era un presentimento che mi sentivo pesare addosso come una cappa. Forse perché il mio amico Loisio era scomparso ed a me non restava più nessuno con cui condividere la mia solitudine, forse perché il tempo era ancora così innaturalmente afoso ed umido in pieno dicembre, forse per la strana invasione delle mantidi diaboliche misteriosamente apparse dal nulla.
E in effetti qualcosa accadde. Verso le tre del mattino, mi aggiravo nei pressi del foyer immerso nel buio, girando all’ intorno il fascio di luce d’una torcia elettrica. Il silenzio assoluto fu rotto di colpo da un rumore lontano: qualcosa di simile ad un lamento.
In principio non vi diedi importanza, ma poi il suono si ripeté una seconda volta, e poi una terza. Pareva provenire dall’ala sinistra dell’edificio. Salii una breve rampa di scale e mi incamminai nel praticabile che dava accesso alla prima fila di palchi.
Avanzavo con circospezione, cercando di dissipare l’oscurità del corridoio con la luce della mia torcia. Alla fine lo vidi: se ne stava immobile in cima ad una scaletta dinnanzi alla porta che conduceva al palcoscenico. Era livido, con le occhiaie infossate, il suo corpo sembrava non avere più consistenza ma brillava piuttosto d’una luce irreale. Spaventato e sbalordito, mi avvicinai di qualche metro puntandogli addosso il fascio di luce e notai altri particolari: i suoi capelli che lui portava abitualmente lunghi s’erano fatti candidi ed i suoi occhi, in quel volto dal colore cinereo, erano senza pupille: non ne scorsi altro che la sclera bianca infossata nei cerchi neri delle occhiaie. Vidi le sue labbra muoversi come per formulare una frase, ma ne uscì soltanto un altro gemito lieve come un soffio di vento.
Nonostante il mio sgomento, avanzai ancora fino ai piedi della scaletta ed in quel momento Loisio disserrò nuovamente la bocca e da essa scaturì un sussurro assai simile al fruscio delle foglie secche d’inverno. Disse qualcosa come:
“Non posso più suonare!…”
Poi, di colpo, la sua figura immobile s’animò e parve levitare nel buio. Lo vidi protendere le braccia in avanti, verso di me. Restò per un attimo sospeso a mezz’aria e poi, rapido come un lampo, mi si precipitò addosso. Udii ancora le foglie fruscianti che mi sussurravano: “ Giù, giù!… Nel profondo abisso!…”
Fui investito da qualcosa assai simile ad una violenta folata di vento gelido che mi attraversò letteralmente da parte a parte, gettandomi a terra per poi dileguarsi gemendo nelle tenebre oltre le mie spalle. Caddi all’ indietro e la torcia mi scivolò di mano; probabilmente gridai ma nessuno udì il mio richiamo ed io rimasi immobile nel buio, pieno di terrore e disperazione perché ora sapevo che Loisio era morto, ma sapevo anche che la morte non gli aveva dato la pace che tutti meritiamo ed egli, dalla regione desolata in cui vagava, era tornato per chiedermi di aiutarlo. Anche i peggiori incubi hanno una fine e, quando Dio volle, l’alba pose fine a quella notte maledetta. Per parecchi giorni rimasi letteralmente barricato in casa senza vedere nessuno. Poi, quando finalmente mi costrinsi a rivedere la luce del giorno, tornai per una forma di coazione irrefrenabile a quel teatro che per me era diventato l’anticamera dell’ inferno. L’ estate di S. Martino adesso era veramente finita. Tornai al teatro in un mattino tetro e piovoso agli inizi di dicembre, un vento freddo da settentrione spazzava le strade e smuoveva nel cielo la pesante cappa di nubi grigie che ristagnava sulla città.
Quando fui nei pressi del teatro, mi avvidi subito che qualcosa di grave ed ineluttabile era accaduto. Alcune ambulanze sostavano presso l’ ingresso principale assiepato di curiosi. Dal portone uscirono degli uomini in tuta che recavano delle barelle coperte con teli bianchi. Sotto i teli si distinguevano delle forme umane. Mi avvicinai facendomi strada fra la ressa, giunsi accanto ad una delle barelle e, con un gesto meccanico, sollevai il lenzuolo. Quello che scorsi doveva essere l’illustre maestro Behemot, almeno a giudicare dalla corporatura dato che non aveva più la faccia. Tutto ciò che restava del suo volto erano le ossa del teschio scarnificate con precisione quasi chirurgica. Anche i bulbi oculari erano stati strappati; sulla sommità del cranio un lacerto di pelle conservava ancora un ciuffo sparuto dei suoi inconfondibili capelli tinti di biondo.
Mi rivolsi ad uno dei portantini e chiesi:
“ Sono state le mantidi?…”
Più che una domanda era un’affermazione. L’uomo in tuta mi rispose: “ Adesso non ci sono solo le mantidi. Là dentro c’è un’ intera collezione di bestie schifose, una più enorme dell’altra. Hanno fatto fuori almeno sette persone, senza contare quelle che sono scomparse senza lasciare traccia. Entro stasera inonderemo tutto l’edificio con l’iprite: pare che sia l’unico sistema per farle crepare. Dio ci salvi, questo posto è maledetto.”
Io varcai la soglia e lui subito m’afferrò per una spalla:
“ Non vorrà mica entrare?!…È assolutamente vietato! “
“ L’iprite non servirà a niente! Io credo invece di sapere dove sta il loro nido.”
“Non se ne parla neanche! Torni a casa e ci lasci lavorare!“
“Va bene.”
Arretrai dalla porta e m’allontanai. Imboccai un vicolo laterale e girai attorno all’ edificio finché mi trovai sul lato opposto rispetto all‘ingresso principale. Lì c’era un piccolo portone che immetteva direttamente nell’attrezzeria. Nei pressi non scorsi nessun uomo in tuta. Evidentemente erano sicuri che nessuno sarebbe stato così incosciente da entrare volontariamente nella tana degli insetti assassini. Io, invece, ero abbastanza pazzo da correre il rischio e, anche se le gambe mi tremavano, entrai. Il magazzino era immerso nell’oscurità; tentai di far scattare l’interruttore della luce ma non accadde nulla. Evidentemente l’impianto elettrico era saltato ed io non avevo portato neanche la mia torcia. Avanzai a tentoni fino all’ascensore: quando lo raggiunsi, dal buio alla mia destra udii una serie di scatti secchi seguiti da un curioso ronzio. Mi frugai nelle tasche e ne trassi un accendino. Al lume di quella fiammella tremula mi diressi verso la sorgente dei suoni e lo vidi: doveva appartenere alla specie dei coleotteri, probabilmente un cervo volante. Completamente nero; era lungo più d’un metro ed alto almeno una ventina di centimetri. Sbatteva ritmicamente le enormi mascelle con fare aggressivo e le sue elitre ronzavano frenetiche smovendo l’aria stagnante all’intorno. Arretrai istintivamente mentre quello si levava in volo per aggredirmi. L’accendino mi cadde di mano ed io, in preda al panico , annaspai cercando all’ intorno qualunque cosa fosse utile per difendermi. Trovai soltanto una vecchia asse di legno e con quella colpii l’aria alla cieca finché si udì un cozzo sordo. Il ronzio delle elitre comunque non cessò; mi gettai carponi sul pavimento alla disperata ricerca del mio accendino. Lo trovai e, quando la fiamma incerta riprese a rischiarare l’oscurità: scorsi l’ insetto che, steso a terra a pancia in su, girava su sé stesso come impazzito. Le lunghe mascelle prominenti erano ripiegate su sé stesse, probabilmente spezzate, e le zampe si muovevano nel vuoto con un ritmo frenetico e disperato. Senza più curarmi dell’insetto, schizzai verso l’angolo dove sapevo trovarsi le scale di servizio e presi a scendere verso i piani sotterranei.
Iniziai così, nel buio più fitto, la mia discesa nei meandri più segreti del teatro; giù, sempre più giù verso l’abisso di disperazione ed orrore in cui presentivo si fosse rifugiato Loisio dopo la sua cacciata dall’ orchestra. Giunsi nel locale delle caldaie, ma non mi fermai, soltanto io sapevo che in un angolo remoto dell’ immenso locale c’era l’accesso ad un’ulteriore rampa di scale che portava ancora più in profondità, verso i sotterranei che da decenni nessuno aveva più frequentato. Raggiunsi l’imboccatura delle scale: i gradini erano di legno fradicio e le pareti di calcare. Ripresi a scendere, ansimando per lo sforzo e l’aria stantia. Non so dire quanto durò questa la mia calata agli inferi: ricordo che raggiunsi un corridoio angusto, col pavimento di terra battuta, in fondo al quale scorsi un vago bagliore verdastro. Avanzai per parecchi metri lungo il tunnel largo appena a sufficienza per consentire ad un uomo di media corporatura di avanzare a capo chino a causa del soffitto troppo basso. Su entrambi le pareti s’aprivano dei pertugi bui e maleodoranti: la fiamma del mio accendino ne illuminava a stento l’interno dove scorsi cataste di ciarpame: avanzi di vecchie scenografie, casse sfondate, costumi ammuffiti. Al fine del cunicolo mi trovai dinnanzi ad un apertura più ampia delle altre: quella da cui proveniva il chiarore spettrale. Entrai, e ciò che vidi non lo potrò mai scordare, per quanto lungo sia il tempo che mi resta da vivere su questa terra. C’erano larve ovunque: sul pavimento, pendenti a grappoli dal soffitto, ammucchiate in grumi oleosi negli angoli: erano tutte enormi, le più piccole misuravano almeno quanto un uovo di struzzo. Diafane e trasparenti, lasciavano intravedere le crisalidi all’interno e, soprattutto, emanavano una luminosità verdastra e quasi maligna che mi permise di scorgere ciò che s’ergeva al centro del locale.
Finalmente avevo ritrovato Loisio, o almeno quello che ne restava dato che il suo povero corpo era ormai ridotto ad una carcassa quasi del tutto scarnificata. Purtroppo, assieme al mio vecchio amico avevo trovato anche la sua assassina: la Mantide Imperatrice.
Doveva superare i sei metri d’altezza e muoveva il capo a scatti con un movimento meccanico da destra a sinistra e da sinistra a destra. Fra le sue zampe posteriori stavano i resti martoriati di Loisio mentre quelle anteriori, d’un’acceso colore vermiglio, erano giunte nella classica posizione simile a quella d’un’essere in preghiera. Per parecchi secondi restai a fissarla paralizzato dall’orrore finché la Mantide smise di girare il capo all’ intorno e, lentamente, si protese verso di me. Io gettai un urlo ed indietreggiai istintivamente verso il cunicolo. Colto da un panico irrefrenabile inciampai e caddi a terra, mi rialzai a fatica e presi a fuggire lungo il corridoio. Alle mie spalle udii uno strano lamento simile al suono di un ramo secco che si spezza. Continuai a correre nell’oscurità, incespicando, cadendo e rialzandomi e, mentre correvo, continuavo a balbettare:
“La porta è troppo stretta!… Lei non può uscire!… Non può uscire!…” Raggiunsi il locale delle caldaie e, per lunghi minuti senza fine, annaspai nel buio in cerca delle scale. Alla fine le trovai e ripresi la salita fino al magazzino degli attrezzi. Ma lì, nella penombra, percepii ancora una volta qualcosa che mi gelò il sangue nelle vene. L’aria intorno a me risuonava ovunque di ronzii assordanti. Fui sfiorato dal frullo di dozzine di elitre vibranti. Il magazzino era ormai completamente invaso dagli insetti: l’esercito della Mantide aveva già invaso ogni recesso del teatro. Non so come ci riuscii, ma raggiunsi la porta da cui ero entrato e mi ritrovai di colpo sotto la pioggia scrosciante, nella luce fredda del mattino. M’appoggiai contro un muro per riprendere fiato illudendomi che l’incubo fosse finalmente finito. Proprio in quel momento sentii che la parete dietro di me cominciava a vibrare: vi fu un primo fremito, quasi impercettibile e poi un altro più distinto e prolungato. Ebbi la sensazione che la strada sotto i miei piedi prendesse ad animarsi e fui colto da un senso di nausea. Udii sinistri scricchiolii provenienti dalla base dell’ edificio e, di colpo, una larga crepa squarciò l’ intonaco del muro a cui m’ero appoggiato. Allora capii: la furia distruttiva della Mantide stava scardinando le fondamenta del vecchio teatro. Feci l’unica cosa che mi restava da fare: fuggii correndo verso casa.
Adesso sono nella mia stanza, disteso sul letto. Ho serrato le persiane per non far entrare la luce grigia del giorno. La pioggia continua a martellare la città senza requie e a tratti odo in lontananza l’eco snervante delle sirene. Probabilmente il vecchio teatro ha ormai ceduto alla furia dell’ assassina ed è crollato con tutto il suo carico di fasti decrepiti e di dolore senza riscatto. Forse è meglio così. Forse sulle sue rovine se ne costruirà uno nuovo dal quale saranno bandite la prevaricazione, l’opportunismo e le lotte meschine per il potere. Un nuovo teatro creato solo per la musica, dove gli uomini possano semplicemente rinfrancare le loro anime ferite dal tedio della vita. Resta una domanda senza risposta: da quale mondo oscuro è giunta fra noi la Mantide col suo esercito di mostri?
Posso solo avanzare un’ipotesi: per anni Loisio aveva sopportato in silenzio angherie e soprusi senza mai lamentarsi. Quando finalmente capì che in quel suo ristretto mondo ormai saturo di ipocrisia per lui non c’era più posto, era fuggito verso l’oscurità e dal germe del suo rancore tanto a lungo covato era nata, per una qualche misteriosa trasmutazione, una nemesi mostruosa che aveva divorato il suo creatore per poi spargere all’ intorno i semi dell’ odio e della vendetta. Sabato 20 novembre 2004.
Autore: Giovanni Soriano
Messo on line in data: Gennaio 2005