RACCONTO: MELISSA di Giovanni Soriano

Io lo so perfettamente che devo morire e, in pratica, non me ne importa granché. Da circa dieci giorni me ne sto confinato a letto in questa camera che sa di malattia e di tabacco rancido con la febbre che non vuole saperne di scendere sotto i trentotto gradi e senza più alcun contatto col mondo esterno. Credo si tratti di broncopolmonite o qualche accidente simile. Quello che mi da più fastidio, a parte il mal di gola, è la mancanza di sigarette. Ho finito la scorta stamattina e da tre giorni non riesco più a mangiare Non mi importa di crepare perché non lascio niente e nessuno che per me abbia un qualche valore, a parte Melissa.
Chiariamolo subito: Melissa è soltanto una gatta di circa otto mesi; tutta nera, viziata, dispettosa, maldestra, invadente e magnifica. È l’unico essere che non mi abbia ancora abbandonato. Se ne va in giro tutto il giorno nella mia grande casa vuota. Si è ormai divorata tutto quello che ancora restava di commestibile nel frigorifero e che io le ho messo a disposizione, ma sembra comunque in ottima forma. Probabilmente mi sopravvivrà.

Finalmente sono riuscito a dormire, ma ho fatto un sogno terribile. In principio mi trovavo in un luogo buio e indefinito, completamente circondato da una nebbia densa e umida. La cosa curiosa era che, pur cosciente di sognare, mi muovevo in quello scenario irreale senza alcuna difficoltà. Ho vagato a lungo nella nebbia senza una meta precisa. Il tempo, per un qualche incomprensibile incantesimo, sembrava sospeso. Alla fine mi sono ritrovato in un vicolo angusto con mura grigie di case cadenti che mi sovrastavano. Ho percorso il vicolo e, finalmente, davanti a me è apparsa una strada trasversale più larga e immersa nel silenzio del primo mattino. Su una targa di marmo incastrata in una parete ho letto il nome della strada: corso Casale.
Camminando a caso ho notato dei particolari strani: niente marciapiedi ai lati della carreggiata sulla quale mancava anche l’asfalto; sui tetti nessuna antenna televisiva e neanche l’ombra di un cavo elettrico. L’aria fredda del mattino era impregnata da un curioso odore di stallatico misto a carbone bruciato. Più che mai perplesso mi sono fermato a leggere un manifesto affisso su una staccionata.

 

Il Sindaco di Torino Esorta la popolazione a collaborare con gli incaricati della Sanità Pubblica onde portare a termine un’adeguata derattizzazione del quartiere “Madonna del Pilone”. Avviso esposto per Regio Decreto, addì 25 aprile 1911.

 

Era proprio uno strano sogno quello che stavo vivendo, pieno di particolari verosimili. Non so dire di preciso quanto sia rimasto a vagare per quella sconosciuta via di Torino; ricordo che a un certo punto un carretto carico di stracci mi è passato accanto guidato da un vecchio intabarrato che pungolava senza posa un ronzino magro e spossato. Ho visto due donne avvolte in scialli neri e con pesanti sottane lunghe fino ai piedi sbucare da un portone recando sottobraccio le borse della spesa. Infine, dall’androne spoglio d’un piccolo stabile ho visto uscire uno strano individuo dai tratti vagamente familiari. Era sulla cinquantina, piuttosto basso e tarchiato, con baffi grigi e spioventi. Vestiva poveramente un completo grigio sdrucito, in testa portava un feltro di foggia antiquata e camminava curvo, appoggiandosi ad un bastone laccato. Il suo volto terreo era segnato da una sofferenza indicibile: a tratti lo vedevo roteare gli occhi come per una disperata richiesta d’aiuto. Solitario e barcollante, s’ avviò verso il fondo del viale seguendo le rotaie di una tramvia. Si volse indietro per un momento e mi sembrò che m’avesse notato, ma subito riprese il suo cammino con passo sempre più incerto.

Lo seguii. Fu un percorso lungo come una vita intera: passammo per altri vicoli desolati fino ai piedi d’una collina alberata sulla quale l’uomo prese a inerpicarsi a fatica scomparendo infine fra la vegetazione. Temendo di perderlo, affrettai il passo, ma quando fui anch’io in mezzo agli alberi mi resi conto che era praticamente sparito. Fu allora che in me cominciò a farsi strada un terrore incontenibile, una sensazione micidiale di soffocamento: presi a tremare convulsamente perché in quel momento ebbi la netta percezione che qualcosa di terribile ed ineluttabile doveva accadere a quell’uomo. Mi misi a correre fra gli alberi spogli cercandolo disperatamente e continuai nella mia corsa fino ad una macchia di pioppi dietro i quali si intravedeva un largo crepaccio cosparso di muschio. E lui era lì… Si era inginocchiato a terra e, con maldestri movimenti delle mani tremanti, si stava sbottonando la giacca. Poi lo vidi lacerare con uno strappo violento la seta del panciotto e aprirsi la camicia fino a mostrare il ventre nudo. A questo punto s’arrestò di colpo come sopraffatto dall’angoscia; roteò ancora all’intorno uno sguardo smarrito e poi, con una mossa orrendamente lenta tuffò la mano nella tasca della giacca e ne trasse un piccolo oggetto scuro e oblungo. Nelle sue dita tremanti vidi balenare la lama di un rasoio. Mi trovavo a circa dieci passi da lui e, senza neanche rendermene conto, mi sorpresi a gridare con foga disperata: “Capitano!… Capitano Emilio Salgari!… ”

Mi precipitai in avanti per tentare di fermarlo ma lui, con un gesto secco e brutale s’era già ficcato nel ventre la lama del rasoio ed io gli giunsi accanto proprio quando una larga chiazza di sangue cominciava a fiottare dallo squarcio aperto. Cadde riverso su un fianco con un lamento soffocato seguito da uno sbocco di sangue che prese a colare da sotto i baffi grigi. Cominciò a contorcersi come una marionetta dai fili spezzati emettendo lamenti gutturali mentre l’emorragia interna inizia il suo corso. Per un istante volse la testa verso di me e mi fissò con gli occhi stralunati, schiuse la bocca come per parlare ma non riuscì che a rantolare suoni sconnessi. La destra armata di rasoio si rattrappì allora sulla gola del capitano squarciandola rabbiosamente con tre tagli brutali. Sangue, sangue, sangue… L’ultima immagine del mio sogno è il volto contratto di Salgari che sprofonda in un fiume di sangue denso e scuro, giù verso l’abisso senza fondo della morte.

Mi sono destato nel mio letto piangendo a dirotto come non mi accadeva più da quando ero bambino. Troppo lucido e verosimile era stato l’incubo. O forse non si era trattato d’un sogno: una qualche segreta e dimenticata porta si era aperta per me nel flusso invisibile del tempo e forse io ero stato veramente presente al suicidio del capitano Salgari, scrittore sconfitto dalla miseria e dall’egoismo del mondo. Ho richiuso gli occhi e, mentre tentavo di riprendere fiato, una presenza leggera e silenziosa s’è fatta avanti fra le lenzuola come per rassicurarmi: Melissa. Mi sono addormentato verso le tre del mattino e ho sognato ancora, sempre che sia stato un sogno e non un’allucinazione. All’inizio mi sentivo incredibilmente leggero e sereno; la febbre era passata assieme al dolore lancinante alla gola. Ho aperto gli occhi e, nella luce soffusa della lampada che tengo accanto al letto, ho visto dall’alto il mio corpo magro ed emaciato disteso sul letto. In pratica, io galleggiavo a mezz’aria sopra di esso e una tenue corda argentata univa la sommità del mio capo alla sua. Ci misi un po’ per rendermi pienamente conto della situazione ma, alla fine, capii che la mia agonia era cominciata ed io avevo iniziato il mio cammino verso il nulla.

Planai dolcemente a terra e tentai i primi passi: mi ritrovai a sfiorare il soffitto con balzi giganteschi; il minimo che può succedere dopo quarant’anni passati imprigionato in un corpo umano. Comunque non ci volle molto per imparare a muovermi con un discreto equilibrio. Uscii dalla mia stanza e presi a vagare per la casa deserta e silenziosa. Una luce diafana trapelava attraverso i vetri smerigliati della stanza che era stata di mia madre. Entrai e notai subito che l’aspetto della camera era mutato: tutte le pareti erano coperte di strani simboli, forse mappe di costellazioni sconosciute. La luce emanava da oltre una porta che negli ultimi vent’anni avevo sempre visto serrata: ora una mano ignota l’aveva spalancata; il mio cammino iniziava da lì. Varcai la soglia e scesi lungo una stretta scala di pietra che mi condusse all’aperto. E anche qui non mancarono le sorprese. Tutte le case del quartiere erano sparite e dinanzi a me si stendeva soltanto un sentiero sterrato ai cui lati sorgevano piccole casupole scalcinate e circondate da minuscoli orti.Sulle colline, in lontananza, si poteva scorgere il percorso d’una ferrovia. Una splendida falce di luna illuminava il paesaggio supplendo alla totale mancanza delle abituali lampade elettriche. Percorsi il viale e mi resi conto che neanche il vecchio ponte che per una vita avevo attraversato più volte al giorno era lo stesso: mancavano il selciato di porfido ed i parapetti di granito al cui posto notai delle semplici ringhiere di bronzo.

Gettai uno sguardo al fiume: dalla chiesa di S. Giorgio fino al Ponte della Pietra, erano spariti i poderosi argini in granito e, magicamente, era risorta la sgangherata fila di casette medioevali devastate dalla piena del 1882. Oltre il ponte intravidi anche la sagoma d’un mulino galleggiante, come quelli ancora in uso sul finire del secolo scorso. Sogno o visione che fosse, il mio fantasma si stava aggirando nella Verona d’un secolo fa e ora io provavo una grande smania di percorrerla il più possibile forse perché, anche se in modo inspiegabile, segretamente sapevo che qualcuno mi stava aspettando in fondo ad uno di quei vicoli senza luce. Prima di inoltrarmi nel dedalo di strade che mi stava dinanzi, mi volsi indietro e vidi il lungo nastro d’argento che ancora mi univa al mio corpo morente dipanarsi sospeso nell’aria lungo tutto il cammino percorso.

E poi notai un’altra cosa stagliata contro il biancore del ponte: una piccola ombra furtiva zampettava veloce fermandosi a tratti quando anch’io m’arrestavo. Discreta e fedele, Melissa mi seguiva anche in quel viaggio finale. Proseguii per strade che a malapena riconoscevo, immerso in nel buio che pochi radi fanali a gas illuminavano fiocamente. Quando giunsi in Piazza delle Erbe restai affascinato scorgendo le insegne dipinte a mano di negozi e locali ormai spariti da un secolo. Imboccai il corso dei Borsari e volsi lo sguardo in alto, verso la casa nativa del Capitano Salgari, dove una lapide incastrata nella facciata eternava la sua gloria effimera di misconosciuto letterato provinciale. Ovviamente, la lapide non c’era. Passai oltre e mi addentrai nel vicolo S. Marco, dove sta l’ingresso della casa e lì ad attendermi c’era lui, più puntuale che mai: Emilio Salgari, capitano che non viaggiò mai se non con la fantasia, scrittore tradito dalla miseria e da editori senza scrupoli, suicida, figlio di un suicida e padre di suicidi.

Se ne stava appoggiato a un muro di mattoni, nella rigidezza composta dei morti, avviluppato in una redingote nera abbottonata fino al collo per nascondere le ferite mortali, col volto cereo e inerte su cui aleggiava la stessa disperata angoscia che avevo notato nel mio sogno. I suoi occhi erano serrati e le mani ossute e pallide stavano strette al livello del petto in un gesto di preghiera. Rimasi a fissarlo, affascinato e spaventato al tempo stesso. A un certo punto Salgari dischiuse lentamente gli occhi. Nella penombra vidi balenare soltanto il bianco delle cornee. Le pupille non c’erano più: il capitano era cieco. Mosse le labbra tentando di parlare, ma dalla mascella serrata nel rigore della morte dapprima non uscì che un balbettio confuso. Lentamente e con immenso sforzo le labbra livide cominciarono a emettere dei sussurri comprensibili: “ Ida… Povera moglie mia!… In manicomio!… No, no!… Non posso vivere senza di te!… Figli miei, divorati anche voi dalla morte… Vi lascio centocinquanta lire in contanti e seicento di credito… Non ne posso più!… Ho spezzato la penna!… “

Non so come, trovai il coraggio di avvicinarmi a lui e chiesi:
“Capitano, hanno mandato te per farmi da guida?… “
Le mani di Salgari disserrano le dita dalla loro secolare postura e una di esse si protrae lentamente verso di me; un artiglio gelido mi avvinghia al petto e prende a scavare nella nebulosa materia di cui ora sono fatto.
“Ora io ti prenderò il cuore e poi verrai con me!… “
Le sue dita rigide come artigli mi frugano cercando a tentoni la tenue fiammella di vita che ancora vacilla dentro di me; io resto immobile come affascinato. Poi, d’un tratto, un sospetto lancinante si fa strada nella mia coscienza.
“No, “ gli grido, “Tu non puoi essere la mia guida! Tu sei morto suicida e non puoi guidarmi alla pace perché ti porti appresso la dannazione! Tu non sei la mia guida, sei il mio demone!!!…”

Salgari resta del tutto indifferente, mi fissa con i suoi occhi vuoti e continua a frugare col suo artiglio gelido nei meandri del mio essere. Ora lo so: mi ha ingannato. Ciò che vuole veramente è la mia anima per trascinarla con sé nel luogo buio dove i suicidi si nutrono di polvere. Già sento che ha afferrato quella tenue fiamma trepidante che ancora mi porto dentro. La mia vistas’appanna e la corda d’argento comincia a spezzarsi…
Poi, all’improvviso, una minuscola ombra nera sfreccia nell’aria ad azzannare il braccio teso dello spettro; nel silenzio del vicolo si ode uno scricchiolio sinistro ed io scorgo il polso lacerato di Salgari ritrarsi di scatto. Di colpo posso respirare di nuovo, la vista ritorna limpida e scorgo Melissa che soffia inferocita contro lo spettro del capitano. Gemendo, lo spettro arretra e rapidamente si dissolve come fagocitato dal buio. Non so come, ma io sono di nuovo nel mio corpo malandato, disteso a letto nella stanza che sa di tabacco rancido. La febbre è passata ed anche i dolori alla gola. Melissa dorme beatamente accoccolata sulla coperta. Fra poco sorgerà il sole, e pare che la morte dovrà aspettare ancora un po’ prima di avermi come cliente.

 

Autore: Giovanni Soriano
Messo on line in data: Dicembre 2010