IPAZIA di Alexandra Celia

Quando ti vedo mi prostro davanti a te, alla tua parola, vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il Cielo è rivolto ogni tuo atto, Hypatia sacra, bellezza della parola,
astro incontaminato della sapiente cultura” (Pallada).

Il Mistero avvolge, storicamente, la terrena vita di molte creature. La storiografia analizza minuziosamente, via via, biografie che riflettono, come da uno specchio di luce, enigmi che avvolgerebbero particolari soggetti venuti in essere, ad un certo punto del percorso evolutivo storico. Fu così che una fanciulla nella seconda metà del V secolo, vide rilucere nei suoi occhi cerulei l’aurora nella sapiente e popolosa città egizia di Alessandria, lambita dalle azzurre e violacee acque mediterranee. La stessa che nel futuro eone farà decantare sublimi versi al poeta Naguib Mahfour, nel 1976, declinando l’amore nei soavi sospiri:

Alessandria, finalmente! Alessandria goccia di rugiada. Esplosione di nubi bianche. Sei come un fiore in boccio bagnato dai raggi irrorati dall’acqua del cielo. Cuore di ricordi impregnati di miele, e di lacrime”.

Della bella, affascinante fanciulla non è dato sapere, però, con precisione il genetliaco, cosa che rende, indiscutibilmente, più enigmatica tutta la leggenda, o storia, o racconto evolventesi tra una linea di verità e molte incertezze che sfumano, tuttavia, in una quanto oscura realtà. Una fonte sicura enuncia ch’ella sarebbe vissuta durante il regno di Arcadio – Flavio Arcadio imperatore di Bisanzio fino al 408, anno della sua dipartita – permettendo così di stabilire una cronologia storica oscillante tra il 355 ed il 368. In questo arco di tempo, dunque, dovrebbe aver fatto la sua comparsa terrena la rara ed eccellente creatura il cui nome suona come Hypatia di Alessandria.

Nell’immagine a lato,“La morte di Hypatia” di Charles William Mitchell, Laing Art Gallery.
Il pittore dipinse nel 1885, l’ultimo atto di vita terrena della bella Hypatia. Raffigurata nel luogo che l’immortala in tutta la sua bellezza, mistero e grandezza di spirito, ma anche nella consumata tragedia promossa da invidia umana, e da una sottile, efferata crudeltà

Secondo alcune epistole del suo allievo prediletto Sinesio, la morte di Hypatia sarebbe avvenuta non più tardi del 402. Certo è, ancora, che nel 393 Hypatia il filosofo sembra essere a capo dell’Accademia di matematica e filosofia di Alessandria, scuola precedentemente guidata dal Maestro Theone, padre della stessa Hypatia.
Fonti certe di questa notizia provengono da Ammiano Marcellino (storico romano importantissimo di età Tardo imperiale 330/391) e da Sinesio di Cirene (370/413), suo discepolo come visto; filosofo, vescovo, scrittore bizantino, fu tra gli allievi più brillanti di Hypatia, tra i pochi che in verità anelavano al vero, concreto sapere senza riserve, ispirati a inseguire il pensiero filosofico e le arcane conoscenze, pur se presentandosi nelle vesti, insolite e rarissime, femminili.

Ebbe a scrivere Socrate Scolastico (380/450), di religione cristiana, avvocato per professione, autore della Historia Ecclesiastica in sette libri:

Ad Alessandria c’era una donna chiamata Hypatia, figlia del filosofo Theone, che otteneva tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e Plotino lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali provenivano da lontano per ascoltare le sue lezioni”.

Tra i molti uditori si trova lo stesso Sinesio di Cirene, il vescovo che citerà delle sue opere e vita. Il vescovo cristiano di Nikiu, Giovanni nella sua Cronaca, trova singolari parole, non troppo felici invero, per descrivere la vita del filosofo donna:

In quei giorni apparve ad Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Hypatia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica, che ingannò molte persone con stratagemmi satanici”.

E’ giunta l’ora di immergere il nostro intelletto in quella che verosimilmente è la storia misteriosa e dolorosa di un mago/filosofo donna, Hypatia. La quale singolare natura attirò senza dubbio l’invidia di menti maschili, non troppo avvezze all’idea di essere fronteggiati e vagliati da un’anima femminile, dall’elevato spirito cosmico. So per certo che si possono spendere fiumi di parole, della portata del fiume Ganga (Gange) ma, la Verità non sarà mai scoperta, compresa nella sua globalità. Dunque, quello che si dovrebbe svelare rimane, a mio avviso, nella sensibilità dell’intelletto più o meno illuminato, custodito da un sapere di un altro orizzonte, di una più profonda scienza/conoscenza.

Apriamo, di fatto, la Porta dell’oscura notte, quella in cui le tenebre cospirarono contro l’innocente visione, e la purezza di un rinnovato Logos, nella parvenza di un femminile corpo!
Atene, 529 dell’Era Cristiana. Qualcosa di tremendo, come un’improvvisa tempesta, minaccia l’armonica esistenza dell’antichissima Accademia di filosofia in terra di Grecia. Il luogo che vide estendersi i pronunciati pensieri di alta filosofia di Platone, come Aristotele, e di molti altri ancora grandi filosofi, che fecero della loro vita il dono di una genialità senza confini, senza dimensione, oltre l’umano tempo. Si vocifera sommessamente, ed è imminente tragedia, che ben presto tutti coloro che esprimo umani pensieri di elevato sapere saranno esiliati, rimanendo orfani del loro saggio maestro e guida terrena, in quell’intricata e oscura foresta che è l’enigmatica conoscenza. Discepoli che troveranno nella sconfitta l’unica risposta ai molteplici quesiti che lambirono le loro anime, non appena ogni sogno di conoscenza e di confronto del loro spirito sarà infranto, così come un veliero che spiaggia repentino, dopo un tristo naufragio dall’impetuoso oceano. In quale verità celarsi, ora? E’ l’angosciante ed arcana frase che fa eco tra i molti giovani adepti della dea sophia! Chi ordisce tanto?

Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus (al tempo meglio noto come Giustiniano), Imperatore di Bisanzio, vede i natali l’11 Maggio 483, e l’eclissarsi della sua stella a Costantinopoli il 14 Novembre 565. La storia lo menziona come un grande stratega e imperatore che guida le redini dell’impero di Bisanzio dal 527 fino alla sua morte. Grande sovrano e legislatore sull’onda di quello che cronologicamente gli storici additano come Alto Medioevo, chiaramente periodo storico di transizione dal 476, coincidente con la deposizione dell’ultimo imperatore romano Romolo Augusto, e che decreta la fine dell’Impero romano d’Occidente.
Una questione emerge sottile e prepotente: cosa veramente rende grande Giustiniano imperatore? Ai nostri moderni giudizi di competenza, o semplicemente di passione storica, un sol nome fa breccia nelle solide fondamenta che storia edifica della sua complessa struttura architettonica, quella di un grande Generale Flavius Belisarius (Belisario, 500/585), che il diletto Dante eleva nella sua Divina Commedia, al VI canto del Paradiso, con gl’immortali e sibillini versi: “E al mio Belisar commendai l’armi, cui la destra del ciel fu sé congiunta, che segno fu ch’ì dovesse posarmi” (vv. 25-27).

Molteplici, estenuanti campagne di guerra per rendere gloria al suo sovrano Giustiniano, estendendone la potenza, gli onori, le ricchezze. Instancabile stratega militare, che esponendosi in prima persona sui teatri di sanguinose battaglie era limpido monito di coraggio, e fiera espressione di essere ad un tempo, soldato e Generale d’impossibili imprese. L’ombra dell’imperatore è senza dubbio Belisario, colui che permette di rivoluzionare il nascente nuovo impero, che farà di Bisanzio immortalità nel tempo a venire.
Una triste, quasi inverosimile leggenda narra, tuttavia, che il grande condottiero ebbe in tarda età a soffrire miseramente l’indigenza, ridotto miserando, e reso privato della vista a chieder elemosina di carità cristiana.

Nell’immagine sopra,
“Il generale Belisarius” di Jacques Louis David. Olio su tela del 1781, Museo delle Belle Arti, Lille.
Ridotto miserando, Belisario chiede l’obolo della misericordia,
mentre un soldato del suo esercito lo riconosce, rimanendone sconvolto

Numerosi sono, infatti, i quadri di rinomati artisti, quali Jean-François Pierre Peyron e François André Vincent (1776), che lo raffigurano cieco mendicante mentre viene riconosciuto da un suo soldato. O i lavori di Jacques-Louis David (1781), che ritraggono questo singolare e malinconico episodio che troppo spesso la Storia per antonomasia tende a sottacere, forse per timore che la giustizia possa offuscare i grandi nomi che da sempre regolano e orientano le redini dell’umano agire. Una leggenda, un mito recita l’oscura trama che indusse in oscurità il famoso condottiero, le cui celebri battaglie fanno ancora risplendere l’antico impero. Il suo ferreo polso e le sue armi micidiali puntarono e caddero potenti sull’Africa, sull’Italia, e le numerevoli guerre, contano ancora, le sue vittime. Come non rammentare la Battaglia di Dara (530), Callinicum (531), Ad Decimum (533), Ticameron (533), il primo assedio di Roma (537-539), solo per citarne alcune.

Dunque, secondo un racconto che lieve scivola sotto le linee portanti della realtà cronologica, ma che le radici affonda nel Medioevo Giustiniano avrebbe ordito segretamente contro il suo fedele Generale. L’ordine fu palese e crudele: si doveva renderlo cieco, riducendolo, ben presto, ad un mendicante. Condannato a dover vivere di elemosina presso la Porta Pinciana delle Mura Aureliane a Roma. A testimonianza di questo fatto, sembrerebbe esserci – al tempo – una pietra graffita sulla quale secondo Antonio Nibby (topografo, storico, archeologo 1792/1889) era inciso “Date obolum Belisario”. La gran parte degli storici moderni smentirebbe questa imperscrutabile verità, ma, quando nel 1767 Jean-François Marmontel pubblica il suo racconto Bélisaire, la storia della cecità del famoso Generale entra a pieno titolo nella tradizione popolare, tanto da influire, come visto,  e non poco, sul talento di molti artisti che, a tal guisa, ritraggono il generale nel suo commovente stato di decadenza fisica e morale. La storia della cecità di Belisario per i pittori del XVIII secolo diventa subito un soggetto cui vedere e trasporre un parallelismo tra gli atti di Giustiniano e le repressioni dei governanti del tempo.

Ma, questa, non è fondamentalmente la trama della nostra Cerca, quanto un puro riflesso che induce ad approfondire le molteplici sfaccettature del grande prisma storico. Il cuore della nostra indagine è un singolare personaggio che si svelerà in tutta la sua importanza, andando avanti con gli sviluppi della narrazione classica trapuntandola sul grande arazzo storico. Un affresco custodisce l’arcano enigma tra realtà e mito, di un antecedente tempo. Giustiniano si deve, in questa dimensione, vedersi come una moneta aurea che ha, però, il suo rovescio di un vile metallo. E’ veramente questa la tessitura storica dell’Imperatore di Bisanzio? A Giustiniano si riconoscono grandi meriti, l’aver reso militarmente, economicamente, civilmente grande ed importante il suo impero. Si attribuisce all’estrema attenzione politica la riconquista di parte dei territori dell’impero romano d’Occidente, questo, sempre, annoverando a Belisario la prima gloria. Come non prendere in considerazione l’eredità lasciata, non unicamente alla cultura di Roma, ma al mondo, la stesura di un codex legislativo. La raccolta normativa conosciuta come Corpus Iuris Civilis, una compilazione severa della legge romana tutt’ora vigente come fondamento giuridico del nostro diritto civile, e non solo. Fonti storiche percorrono i grandi spazi di codici e pergamene che delineano azioni, gesta, pensieri del grande imperatore Giustiniano.

Procopio (500/585) offre la struttura fondamentale per redigere la biografia giustinianea, condannando in modo tangibile l’imperatore per aver sposato Teodora, una donna, si dice, dai facili costumi che rese presto sua imperatrice. La corte trovò in questa singolare scelta sponsale motivo di rivalsa e malcontento nei confronti della politica giustinianea. Allo storico Procopio si va ad unire la biografia stilata dal vescovo Giovanni di Efeso (508/585), monofisita e storico. Scritti cui molti si rifanno, attingendovi notizie e particolari di cronaca che, ovviamente, rimandano alle azioni dell’imperatore e di Teodora. Osservando i bellissimi mosaici che decorano l’interno della Basilica di San Vitale in Ravenna del 547, si constata di come l’impero, la corte godesse di un sublime lusso, sfarzo, ricchezze che la sola Bisanzio annovera con relativa profonda influenza sull’arte, sulla storia, sulla cultura in generale. Il sommo poeta Dante nella sua Commedia, nel VI Canto del Paradiso declama versi che pervengono ai nostri mortali sentimenti, come un prolungato scintillio d’emozioni: “Cesare fui e son Iustiniano, che, per voler del primo amor ch’i’, sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano(vv. 10-12).

Anno Domine 1511. Raffaello Sanzio (1483/1520) con grande commozione depone il pennello; l’ultimo sprazzo di velatura per rendere la luce è stato steso, come una delicata rete argentea che a tratti fa vedere, e poi, nasconde le molteplici insite verità, così come un liuto che espande per l’area d’intorno le celestiali sue invisibili armonie. I presenti, commossi, ammirano l’opera che travolge il tempo del momento e gli eoni a divenire, perché ancora una volta l’immortalità, l’eternità s’è manifestata nella trasfigurazione di una indubbia opera d’arte. Il Rinascimento vede la sua valenza nell’insigne opera di un maestro d’arte quale è Raffaello Sanzio, che esplicitamente fa divergere antiche verità in un affresco che le Stanze della Segnatura, nella Città del Vaticano a Roma, gelosamente custodiscono all’inesorabilità delle stagioni fuggenti. Settecentosettandadue centimetri di colori, di forme, spazi, dimensione per redigere un antichissimo sapere che confluisce, come un fiume nel mare, in una sola area affrescata. Il tema dell’opera in questione è la facoltà dell’anima di conoscere il ‘vero’, e cioè di approcciarsi alla scienza ed alla filosofia. Un affresco, svelantesi in netta contrapposizione con ‘La disputa del Sacramento’ (1508/1509): anche in questo caso la superficie occupata è ampia, accogliendo i soggetti in modo armonico lungo le direttive di fuga, prospettiva, e spazio.

Alta s’eleva la sentenza del lógos teologico, e della pura fede, la cui natura trinitaria, in codesto preciso contesto, è il discorso di un Dio unico nelle tre divine persone. Ma, per ritornare al primo soggetto d’analisi, Raffaello fa catapultare numerosi filosofi all’interno della sua Opera, raffigurati fondamentalmente sui due soli piani. Il discorso aureo richiama alla ‘disputa’ sulla sapienza, illustri nomi. Ecco apparir Pitagora intento a scrivere su di un libro. Socrate che incita alla viva partecipazione, indossa una veste colore smeraldo. Diogene siede disteso sulla scalinata in simmetria con Eraclito. Una nutrita schiera di saggi, sapienti dell’umane scienze, che emergono dalle coltri polverose del tempo, dal silenzio della memoria, che disputano animatamente sulla natura degli esseri viventi, sulle occulte conoscenze. Il punto di fuga, nella raffaelliana visione, richiama due insigni monumenti del pensiero filosofico, Aristotele e Platone, imponenti per statura e intelletto. Entrambe i due filosofi esprimono che il vero è nell’intuizione pura espressa dalla logica delle loro immortali opere che furono e sono la traccia, e guida per l’evoluzione del pensiero d’Occidente. La curiosità indagatrice di un acuto osservatore punta l’attenzione su di una singolare figura, la cui candida veste, come bianca colomba, riflette la luce intensa dello stesso sapere, Hypatia. Chi è costei? E perché menzionarla successivamente al discorso, svoltosi, intorno a Giustiniano imperatore?

Tutto ebbe il suo leggendario principio allorché il maestro greco Theone, matematico, introdusse la giovine fanciulla di nome Hypatia, sua figlia, all’interno dell’antica Accademia di filosofia Museum, per apprender l’arte del discernimento filosofico, matematico, astronomico, in una ristretta élite dedita al culto di arcane e misteriose scienze, tra alchimia ed esoterismo, quale la scuola di Alessandria godeva. Essendo, ancora, il tempo in cui magia e scienza trasparivano serenamente una nell’altra, e non era la netta, drastica, cruda separazione delle due cose, o nature, cui si sarebbe a breve inesorabilmente evidenziato. L’atmosfera della scuola Museum era, sostanzialmente, il profondo discernimento di antiche, comprovate scienze che l’universo sondavano con l’intelletto umano. Sullo sfondo, in tardo periodo, si consumavano le prime avvisaglie di quel contrasto tra paganesimo, e nuovo cristianesimo che prepotentemente estendeva il suo ’verbo’, non curante di quanto solidamente, in fatto di cultura, s’esprimeva da eoni temporali.

Se osserviamo con perizia un segmento particolare della Scuola di Atene di Raffaello, l’evidenza tratteggia di una misteriosa, singolare, unica figura femminile all’interno di una congeniale schiera di sommi scienziati. Un’alessandrina di Museum in contatto con l’Accademia di Atene. Perché? E’ verità tutto questo? Raffaello sicuramente s’affida a fonte certa per redigere il suo capolavoro, ma contemporaneamente, forse, il suo vuol anche essere motivo di porre in evidenza, risaltare un efferato crimine compiuto da mano cristiana su di una fanciulla pagana, rea unicamente della sua elevata intelligenza, e profonde conoscenze nei vari ambiti. Le fonti – queste sono varie da parte cristiana come pagana – tratteggiano i tristi avvenimenti che portarono a morte certa la bella Hypatia, sotto Teodosio II.

Poc’anzi stavo scrivendo ch’ella era figlia dello scienziato Theone, un maestro di Museum il quale apre al mondo dei misteri la figlia dotata d’innata predisposizione alle millenarie téchne, in breve la portarono a superare gli stessi maestri, ad insegnare in varie accademie. Ad inventare strumenti, come l’Astrolabio, essendo la prima donna nelle aree scientifico-matematiche insignita all’astronomia, che opera, come enunciato, sull’orizzonte di nascenti contrasti a motivo della religione, ma anche, di forti invidie da parte di vescovi cristiani che non vedono di buon grado il ruolo femminile in un sapere relegato esclusivamente al mondo maschile. Hypatia è vittima innocente di una vile teocrazia, così pone in luce l’arte di Raffaello. Presumibilmente il vescovo Cyrillus fu il cospiratore, l’istigatore di tale atto, pur se, in questo caso, le varie voci dissentono per un pro, o contro, per cui sono da investigare le fonti da ambo parte per meglio comprendere il delicato avvenimento storico, che molti avrebbero preferito relegare in ampie, e spesse coltri nebbiose.

Hesychius di Mileto scrive l’Onomatologos, in cui letterati pagani fanno mostra del loro pensiero, composta nel VI secolo è tuttavia andata perduta, ma servì come fonte per la stesura della Suidas, un’enciclopedia bizantina del X secolo. Non c’è più anche la Vita di Isidoro di Damasco (480/558), filosofo greco antico, ultimo Scoliarca dell’Accademia di Atene, fatta chiudere, come recitato, da Giustiniano nel 529. Quest’opera, che narrava la vita dell’ultimo sacerdote pagano del Serapeo (tempio dedicato a Serapide) è perduta, ma se ne conservano ugualmente frammenti nella Biblioteca di Fozio – IX secolo – e nella Suidas. Tra le fonti cristiane va menzionata la Historia Ecclesiastica, redatta da Socrate Scolastico, avvocato cristiano di Costantinopoli sotto il regno di Teodosio II; La Historia Ecclesiastica di Filostorgio, un ariano nato nel 368, riportata in una scheda della Biblioteca di Fozio; la Cronaca di Giovanni di Nikiu, vescovo copto del VII secolo, monofisita (seguace di una eresia condannata dal Concilio di Calcedonia nel 451, la quale negava a Cristo la natura umana, ritenendolo solo nella natura Divina. Cristo, per un Monofisita, era solo apparentemente umano). Ricordiamo infine il poeta pagano Pallada (IV/V secolo), che dedicò a Hypatia un epigramma, posto nell’incipit, esprimente la sua sacra bellezza, la sua purezza angelica.

Storia narra che la morte di Hypatia (370/415) fu tremenda, il suo corpo scorticato vivo con frammenti di conchiglie, reso, poi, a pezzi: azione compiuta all’interno di una chiesa. Da mano cristiana? Pagana?
L’inchiesta tutt’oggi non ha definito in modo esplicito come realmente i fatti ebbero il loro evolversi. Resta, tuttavia, la certezza che un abominevole atto è stato compiuto verso l’intelligenza, la bellezza, la purezza di idee ed intenti. Un crimine che anela fortemente verso la verità, l’unica assoluta certezza che potrebbe motivare il gesto di sconsiderati, definiti uomini. Sono veramente costoro gli uomini fatti ad ‘immagine e somiglianza’ di Dio? Il Libro della Genesi insegna, ma rimane ancora un insondato mistero!
Hypatia, come asserito, riceve gravi imputazioni di apostasia – in quanto non conforme al pensiero cristiano, più che l’aver tradito un atto di fede – e di stregoneria da parte del vescovo Cyrillus, additata come la donna che opera atti di magia, il cui maestro è il re dell’Inferno.

Nell’immagine a lato,
busto marmoreo dell’imperatore di Bisanzio Flavio Arcadio. Museo di Istambul

Tali accuse muovono sicuramente da una forma di non comprensione, e considerazione di trovare un grande tesoro di scienza suprema, e sapienza generosa in una mente dalle femminili vesti. In un’anima considerata inferiore da coloro che – al tempo – si ritenevano uomini di fede, della vera fede di Cristo, e perchè detentori del potere terreno attribuitogli dal nascente cristianesimo, e da Dio.
Hypatia è pagana di Alessandria, intelligenza brillante, attiva illuminata dall’alto, maestra di saggezza ed umana conoscenza profonda ed impenetrabile, tal volta. Indagatrice acuta e perfetta di scienze complesse universalmente conosciute, e – forse – di altre ancora velate dalla scarsa consapevolezza e da flebile ignoranza. Capo indiscusso di un’Accademia di filosofi e scienziati di varie nazionalità. Solitamente le scuole di filosofia erano dirette da uomini, in questo caso assistiamo a una fanciulla che tiene testa ai molti uomini di sapere, o assetati di ardite, antiche conoscenze.

L’aspetto che desidero sottolineare, evidenziare, risaltare è, piuttosto, non quello del suo esser pagana, o filosofo donna, considerare il suo pensiero come il congiungimento, l’atto posto in essere delle scienze greche con il sapere dell’antico Egitto. Hypatia, a tal motivo, opere la vera magia, divenire in praxis il cardine della ruota scientifica, per cui Platone e Plotino entrano di diritto e di fatto nella struttura della sacra scienza egizia, operando la perfetta fusione e trasmutazione da un contesto culturale ad un altro. Ed è in tutto questo movimento di idee, che si deve intendere il circolo alchemico della perfetta trasmutazione. In questo movimento, divenire di idee, eventi e scienze bisognerebbe, invece, porre l’attenzione della moderna critica, nonché di un valutazione seria della storiografia, prima che la storia.

Hypatia appare, quasi, come una sfumatura evangelica, la pietra scartata diventa il senso, il segno e il fondamento della nuova architettura, di una rinnovata cattedrale, in cui i pilastri sono le sacre scienze filosofiche, matematiche, astronomiche. Ella, a buon diritto, unisce il cielo e la terra plasma e congiunge, nella grazia di una dea, le cose che sono in alto con quelle che in basso hanno la loro reggenza. La struttura mentale di Hypatia diventa la metafisica che esprime, facendone esperienza, il Lógos divino, svelandone le meraviglie della Natura in quanto madre e contenitore dei molteplici universi ivi posti in essere dal Sommo Creatore. Non a caso – lo abbiamo analizzato – Raffaello Sanzio percepisce, intuisce, sprigiona l’enigma dell’anima di Hypatia, e consapevolmente colloca la bella, casta fanciulla nello scenario teatrale della sua artistica rappresentazione. Il candore – quasi illuminante, folgorante – della veste – similmente che le angeliche creature – rende luce al pensiero tutto del filosofo donna, e del suo astrolabio l’enigmatico strumento di un’arcana celeste scienza.

Autore: Alexandra Celia
Messo on line in data: Ottobre 2010