LORD BYRON di Redazione

Nei libri di letteratura e nei saggi di critica letteraria riecheggiano il potere ed il fascino di uno dei più grandi scrittori della letteratura inglese di stampo gotico. Il suo nome è Lord Byron, un artista col cuore in tempesta e l’esistenza scardinata da atroci eventi.
Nacque a Londra nel 1788, in grembo ad un ampio movimento culturale che si andava affermando con prepotenza sul panorama letterario europeo: il Romanticismo. La malattia ai tendini e l’infanzia gravosa, a contatto con una madre isterica e fredda, se da un lato ne inasprirono il carattere dall’altro, probabilmente, ne forgiarono l’anima a dire – anzi a scrivere – cose “sublimi”.

Visse comunque la maggior parte della sua giovinezza in terra scozzese, a stretto contatto con le immense vallate e i cieli sconfinati, grazie ai quali la passione per la scrittura si fuse con quella per le forze ancestrali della Natura. E fu lì che, probabilmente, trasse ispirazione per i suoi primi lavori letterari. La sua formazione ebbe a luogo prima a Harrow e, in seguito, al Trinity College di Cambridge, dove si fece conoscere per la sua personalità eclettica e ribelle, impegnata a difendere i principi in cui credeva e a sferzare con una satira bollente ogni tentativo di critica alle sue creazioni.
Esordì, infatti, con la raccolta di versi Hours of Idleness, aspramente criticata dalla Edimburgh Review, a cui rispose col satirico English Bards and Scotch Reviewers, senza far segreto di voler perpetrare la tradizione letteraria di Pope contro gli scrittori suoi contemporanei.

Poi si trasferì in una residenza lasciatagli in eredità dallo zio detto The wicked (“Il malvagio”), a Newstead Abbey e, di lì a poco, iniziò un lungo viaggio che lo vide prima a Malta, poi in Albania, ed ancora in Grecia e a Costantinopoli. Il lungo soggiorno gli ispirò Childe Harold’s Pilgrimage, grazie al quale guadagnò un successo straordinario.
Tra gli scritti più famosi, The Bride of Abydos fu elaborato in una sola settimana e The Corsair in appena dieci giorni. Nel 1815 sposò Annabella Milbanke, dalla quale in seguito però si separò.

Profondamente amareggiato dalle voci che giravano su un suo incesto con la sorellastra Augusta, Byron lasciò l’Inghilterra nel 1816 per non tornarci mai più e si recò a Genova, dove fu ospitato dall’altrettanto famoso scrittore Shelley, il quale aveva affittato una villa in terra italiana. Qui Byron scrisse The Prisoner of Chillon, due atti del Manfred e il III Canto del Childe Harold.
Claire Claremont divenne sua compagna e da lei lo scrittore ebbe una figlia, Allegra. Nel 1818 pubblicò Mazeppa e cominciò a scrivere Don Juan, i cui primi due canti furono pubblicati nel 1819 da John Murray in forma anonima.
La Edinburgh Magazine li definì “spazzatura” ma – come spesso accade – se la critica li condannò, essi furono invece molto ammirati da scrittori di grande spessore e dalla sensibilità profondissima, quali Shelley e Goethe, la cui approvazione fu a Byron di enorme aiuto, poiché l’esortò a non scoraggiarsi e a non smettere di scrivere.

Purtroppo, pochi anni dopo, la figlia di Byron – a cui Shelley era molto affezionato – morì e la sua scomparsa fu da lui imputata alla trascuratezza del padre, che l’aveva mandata anni addietro in un collegio, probabilmente stanco delle responsabilità di genitore. Questo creò una frattura insanabile tra i due amici. Shelley morì nel 1822.
A Byron non restava che ripiegarsi su pensieri nuovi che lo distraessero dalle cose tristi della sua vita e arrivò alla conclusione che “l’azione è di gran lunga più importante della poesia”. Per questo salpò nuovamente per la Grecia, intenzionato ad aiutare la popolazione ellenica nella loro rivolta contro i padroni Ottomani. Ma, ancor prima che potesse assistere a qualche vittoria militare, fu travolto da una grave malattia e da una febbre irreversibile, a causa della quale morì nell’Aprile del 1824.

Manfred è sicuramente il masterpiece di Lord Byron: l’opera di lui più letta ed apprezzata, tradotta in moltissime lingue tra cui, solo in tedesco, diciotto volte in tutto il XIX secolo. La cosa strana è che, se inizialmente l’autore non diede grande importanza alla sua opera, nemmeno in seguito presagì di aver scritto un capolavoro che, nei secoli a venire, il suo pubblico avrebbe letto con gusto e dedizione. Fu la rabbia contro le correzioni con cui Murray e Glifford avevano interferito col testo ad avvicinarlo al Manfred e a fare in modo che, finalmente, Byron lo sentisse totalmente suo.

Quest’opera, rappresentazione disperata del Romanticismo inglese, personifica in modo eccellente la figura del fatal hero.
Tanto per cominciare, un alone di mistero pregna l’elaborazione stessa del testo, dal momento della sua nascita fino a quello della sua pubblicazione: Manfred è il primo pezzo drammatico scritto da Lord Byron; la bozza del manoscritto – cosa davvero singolare per questo scrittore – non è datata e il protagonista si staglia sullo sfondo dei precedenti personaggi byroniani come quello più esasperato, ma anche più “profondo”.

E’ eroe d’origine faustiana – mezzo scienziato, mezzo mago – divorato da un senso di colpa tale da togliere il respiro a qualsiasi altro pensiero. La causa scatenante del suo tormento non è tanto l’incesto con la sorella Astarte, quanto l’averle spezzato il cuore e l’averle distrutto la vita in mille frammenti che rispecchiano, impietosamente, la sua indicibile colpa. Ossessionato da questioni filosofiche, alla ricerca di una formula che gli dia l’oblio per dimenticare tutto il male causato all’unica persona che lui abbia mai amato, egli gravita in una sfera d’azione densa di mitologia e simbolismo. E Lord Byron per primo lo evidenzia quando afferma:

“...it’s a mixed mythology of my own – which you may suppose is somewhat of the strangest (si tratta di una mitologia mia personalissima, tale che tu potresti considerarla stranissima)”.
Metà polvere, metà dio (“half-dust, half-deity”), il Conte Manfred è figlio del Conte Sigismondo, un uomo sui generis, piuttosto orgoglioso ma allo stesso tempo libero e ozioso.
Il poema si apre con l’eroe che rimugina sulla sua vita, mentre si trova sulla vetta delle Alpi – dove risiede da solo come un derelitto – e parla a sé stesso, facendo riferimento ad un compito da portare a termine.

Egli parla del sonno in termini tristi: esso non da pace né riposo ma, anzi, è “a continuance of enduring thought, / Which then, [he] can resist not (un flusso perpetuo di pensiero, al quale è impossibile resistere)”. Prosegue mettendo in luce le zone d’ombra del suo carattere, quelle a causa delle quali, pur egli avendo le stesse forme e lo stesso aspetto di qualsiasi essere umano, a lui la gioia è negata, perché “sorrow is knowledge (la sofferenza è conoscenza)”. Per di più egli detiene la “verità fatale”, per cui: “The tree of knowledge is not that of life (l’albero della conoscenza non è quello della vita)”.

Manfred, così, appare fin da subito come un personaggio tormentato e malinconico, il cui dolore è così forte che ha perso la paura nei confronti di ogni cosa. Se ha studiato la scienza e la filosofia – le armi migliori per non temere nulla ed anzi, ottenere quella saggezza dagli umani tanto ambita -, queste non l’aiutano a colmare il vuoto che dilaga nel suo cuore. L’unica cosa che gli resta da fare è riesumare le divinità dell’universo e, per questo, le invita al suo cospetto. Esse gli appaiono sotto forma di sette stelle che rappresentano rispettivamente: l’aria, le montagne, gli oceani, la terra, il vento, la notte ed Astarte e lo chiamano “child of clay” (uomo d’argilla). Gli chiedono cosa desideri e lui risponde: l’oblio… di tutto ciò che in lui risiede, di quel peso che porta con sé e che non potrà mai alleggerire, per aver amato una donna a tal punto da distruggerla.

Le divinità gli rispondono che l’oblio proprio non possono darglielo e gli offrono qualsiasi altra cosa; ma Manfred le sfida. Perentorio nella sua richiesta risponde che non desidera altro che quello, insiste, le prega ma senza mai piegarsi nei toni. Fin quando gli appare la settima divinità nella persona di Astarte, la bellissima donna da lui tanto amata. Ella gli rivolge parole terribili: “There are shades which will not vanish, / There are thoughts thou canst not banish (Ci sono ombre che non possono svanire, ci sono pensieri che tu non puoi bandire)”; poi lo condanna a vivere per sempre nell’Inferno che con le sue stesse mani si è costruito: “Nor to slumber, nor to die, / shall be in thy destiny (né dormire, né morire tu potrai, questo sarà il tuo destino)”.

Dal neo-platonico Thomas Taylor, Byron desunse il concetto secondo cui: “Man could damn himself without help from any Evil Principle (l’uono è in grado di danneggiare se stesso, senza aver bisogno di far ricorso all’aiuto del Male)”.
Ed è proprio la forza e l’indifferenza con cui Mandred affronta le forze trascendentali che lo circondano, a renderlo affascinante e al tempo stesso inquietante. Con provocante sdegno egli resiste alle tentazioni e agli insulti di streghe, demoni e divinità; allo stesso modo rifiuta l’aiuto del cacciatore di camosci che tenta di salvarlo dalla morte e quello dell’abate che cerca di redimerlo dalla perdizione interiore (girano voci che Manfred abbia stretto un patto col Demonio e che s’intrattenga con lui nella solitudine della sua stanza).

L’eroe palesa fin da subito un’istintiva ma allo stesso tempo purissima forma di auto-distruzione, che lo differenzia perfino dal Faust, il quale aveva bisogno d’aiuto per compiere il suo proprio disfacimento. Manfred, invece,non può maledire nessuno per la sua rovina se non sé stesso e le sue stesse parole lo dicono chiaramente: “I’m the careful pilot of my proper woe (io sono colui che guida amorevolmente il male contro di me).
Il dramma consiste, quindi, in una serie di tentativi falliti di procacciarsi l’oblio, a causa dei quali l’eroe esaspera ogni suo gesto, fino a giungere all’atto finale.

Il bisogno di ubriacare i pensieri e di dimenticarsi dei misfatti della propria esistenza, serviva probabilmente più a Byron che a Manfred, in una dimensione – quella della scrittura – in cui lo scrittore/attore metteva in scena, come se fosse su un palcoscenico, i propri sogni e desideri più nascosti. Non possiamo, per esempio, dimenticare il dolore che dilaniava Byron per aver reso la vita della sua amante Augusta un incubo: così come si erano follemente amati, con altrettanta intensa spietatezza lui l’aveva abbandonata, costringendola a lasciare la loro casa, appena poco tempo dopo che lei aveva partorito la loro figlia. Il comportamento di lord Byron era inoltre apparso così drastico ed estremo da portare molti a pensare che fosse matto o addirittura malato, e questo gli rendeva sempre più una cattiva fama.

Così, se Manfred incarna in modo sublime gli aspetti più oscuri del suo creatore, Astarte – l’eroina del poema – diventa un ulteriore espediente narrativo. Con ogni probabilità rappresenta Augusta, sorellastra ed amante dello scrittore, in un incrocio frenetico tra il piano della realtà e quella dell’invenzione. Su Astarte e Manfred Byron scarica tutto il suo bisogno di sensazioni forti, allo stato brado, la sua forza quasi masochistica e autolesionista, impaziente, di “cancellare le macchie” di un passato troppo vergognoso e rovinoso per poter stagnare nelle celle asfittiche della mente. Tutto il resto del poema è poesia pura, intrisa di emozioni laceranti e di squarci di cielo. Figure benigne e maligne si avvicendano attorno all’eroe, lo tirano al di qua del burrone verso cui lui vuol lasciarsi andare e poi vi rinunciano, poiché egli è troppo forte e deciso a seguire i suoi passi.

Le parole si snodano, una dopo l’altra, come intreccio di suono e di colori, senza mai giungere alla fine, aprendo il varco a congetture su quello che sarà l’epilogo del poema e coinvolgendo il lettore nella trama di odori, misti a pensieri, che attanaglia la figura di Manfred strozzandogli la vita. E con lui ci si ritrova a sfiorire, piano, o a slanciarsi, con voracità, verso quel traguardo che egli sembra aver segnato definitivamente e che, man mano che il poema scorre, appare sempre più come l’unica salvezza.

Ovviamente non dirò altro del testo, perché significherebbe rovinare una lettura che non è per niente difficile – quella di Byron – ma che va gustata in ogni suo dettaglio ed esplorata in tutti gli angoli nascosti. Ma quello che possiamo fare è consigliare vivamente la lettura di questo capolavoro della letteratura gotica, con pochi altri che lo superano in bellezza.
Sarebbe invece interessante cercare di intuire la relazione segreta che ha unito Byron e Manfred a quel mondo etereo fatto, da un lato, di atmosfere magiche e tonalità color pastello e, dall’altro, di tinte forti ed esaltanti./p>

E’ una dimensione contrastante che non deve sorprendere, poiché rifugio in cui deities e demons si alternano in interventi alternativi, tesi a sopraffare la coscienza dell’eroe. Se sembra assodato, quindi, che il poema tragga spunto da elementi metafisici ed astratti, è altrettanto indubbio che i riferimenti alla vita concreta dell’autore riecheggino e rimbalzino di riga in riga. Nel suo Alpine Journal – una raccolta di lettere indirizzate alla sorella Augusta -, per esempio, Byron riporta un’analisi dettagliata del suo viaggio fatto assieme ad Hobhouse sulle Alpi, ma lo fa in una forma deliziosamente narrativa. I torrenti, i ghiacciai e le vette delle montagne, inaccessibili, sono descritti con incanto e passione e quello scenario, piacevole e stupefacente, deve averlo sopraffatto.

Fu durante tale viaggio che Byron e l’amico sperimentarono gli aspetti più o meno piacevoli della Natura, quelli per cui non si mai cosa aspettarsi e che danno vita a sorprese continue, nel bene e nel male. I sentieri abbandonati da Dio, le strade a malapena tracciate lungo i declivi, gli avvallamenti improvvisi, le cascate dirompenti, le violente tempeste di neve, le valanghe: tutto doveva apparire ai suoi occhi così affascinante e al tempo stesso spaventoso! Le sensazioni che derivavano dal contatto profondo con l’anima della Natura confondevano e lasciavano senza parola. Questo nuovo mondo evidentemente gettò le radici ad un nuovo Byron, fatto di presente, futuro e passato, dove il passato veniva però da lui rielaborato alla luce delle nuove scoperte della sua anima. Il suo umore si alternava tra momenti di estrema dolcezza ed altri di profondo sconcerto.

Egli stesso scrive che un giorno: “(he) heard the Avalanches falling every five minutes nearly – as if God was pelting the Devil from Heaven with snow balls (sentì le valanghe cadere ogni cinque minuti, come se Dio stesse bombardando il Demonio facendo cadere pesanti palle di neve dal cielo)” e un altro: “(he) would see a very fine Glacier – like a frozen hurricane… and clouds… like the foam of the Ocean of Hell during a springtide… white & sulphury and immeasurably deep (scorse un bellissimo ghiacciaio – che sembrava un uragano di ghiaccio… e le nuvole… sembravano la schiuma degli Oceani infernali durante una marea… bianca e sulfurea ed incommensurabilmente profonda)”.

Ma conclude dicendo: “I am a lover of nature – and an admirer of Beauty… and have seen some of the noblest views in the world. But in all this – the recollections of bitterness – & more especially of recent & more home desolation – which must accompany through life – have preyed upon me here – and neither the music of the Shepherd – the crashing of the Avalanche – nor the torrent – the mountain – the Glacier – the Forest – nor the Cloud – have for one moment – lightened the weight upon my heart – nor enabled me to lose my own wretched identity in the majesty & the power and the Glory – around – above – & beneath me (ho scoperto di essere un amante della Natura e un devoto ammiratore della Bellezza… e credo di aver visto alcune delle cose più nobili esistenti al mondo. Ma in tutto questo il ricordo dell’amarezza – e più precisamente quella legata ai problemi della mia vita e della mia famiglia, quella che attraversa l’intera esistenza – mi ha travolto spesso mentre ero qui – e nemmeno i pastori, il fragore delle valanghe, né i torrenti, le montagne, i ghiacciai, le foreste, né le nuvole… mai, nemmeno per un momento sono riusciti ad alleggerire il peso che grava sul mio cuore, né mi hanno aiutato a sconfiggere la mia condizione di naufrago sospeso nella grandezza del creato. Né la forza, né la gloria di tutto ciò che mi circonda, sono riuscite a benedire il male che ho dentro)”.

Tutta l’infelicità, il senso di colpa e le frustrazioni della sua vita gli bruciavano dentro e chiedevano di venire fuori per trovare voce nella scrittura. Manfred diventa così simbolo di tutto ciò, in un’altalena di emozioni che oscillano tra il fascino ed il compiacimento per il paesaggio attorno e l’immensa tristezza che abita il suo cuore, tra il rimpianto per aver fatto soffrire e aver rinnegato l’unica donna che amava e la consapevolezza di una giusta punizione inflitta, però, da sé stesso: la mano del “peccatore” è l’unica a sapere dove colpire per tramortire il corpo. E questo miscuglio di stati d’animo rende il poema criptico e seducentemente oscuro.

Se dovessimo descrivere la scrittura di Byron potremmo definirla “sublime”, ma non nell’accezione solita e popolare del termine, bensì in quella filosofica tratteggiata da Edmund Burke nel suo A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and the Beautiful. Essa è individuale e solitaria, ma al tempo stesso terribilmente accattivante e facilmente comprensibile, frutto di una tra le più fervide immaginazioni dell’epoca. Per individuale non intendo certo qualcosa di elitario o di inaccessibile, ma semplicemente un tentativo personalissimo di raggiungere il proprio stato emozionale più alto. Se lo scrittore può essere paragonato ad un pittore, allora evidenzia i punti del paesaggio che in lui rievocano le sensazioni più forti; lo fa in base alla propria fantasia e al proprio mondo interiore che, nel momento stesso in cui si offre all’ “Altro” diventa fruibile e, come tale, condivisibile.

E in tutto questo c’è magia. Perché se Byron ha contribuito a creare uno stile, l’ha fatto pur senza inchinarsi ai capricci di un’oggettività prepotente che reclama esclusivamente bellezza e luce e non da voce al “diverso”, all’oscuro. Forse involontariamente o forse semplicemente sobillato dai demoni che in lui si guerreggiavano, egli ha mostrato con delicatezza estrema quanto di affascinante ci sia nel nostro “buio”: quella parte di noi, straniera per i più, che si agita e non si dà pace, che è legata ai ricordi rimossi e alle colpe taciute, ma anche quella più sensibile all’ambiente circostante e alle sue suggestioni.

Il potere e la marcia in più che l’artista possiede, sia egli scrittore, poeta, musicista, pittore, è quindi quello di non avere paura di affrontare le tenebre, di saper andare dietro le quinte, affondando con la sua spada – la scrittura, la pittura, la musica – la patina dorata che copre molte delle cose “belle” della vita. Grazie alla sua eccezionale sensibilità egli scardina la porta del cuore e vi entra, di soppiatto, senza temere ciò che incontrerà sul suo percorso. E, alla fine del suo viaggio – quasi abbia compiuto un’endoscopia del cuore -, tira fuori ogni cosa e la comunica al mondo, per renderci visibile l’invisibile, per ricordarci che: “conoscere i nostri demoni ci dà l’arma per combatterli” (Dostoevskij). A noi, poi, la scelta: se lasciar loro la strada libera, mettendo nelle loro mani lo scettro della nostra vita; dichiarare loro guerra sperando di avere noi la meglio… o semplicemente conviverci, imparando a voler loro un po’ più di bene. Magari questo è l’unico modo per sconfiggerli, lasciando che dal cuore emergano per poi dissolversi, prima che accada a noi di svanire nella luce dell’orizzonte.

 

Autore: Redazione
Messo on line in data: Maggio 2005