POESIE DEL CAOS di Giovanni Corbetta

 

CAOS E LOGOS

Rimbomba il caos nella caverna dell’abisso,
drago di lava che si contorce senza posa
e mai la luce della parola lo sconfigge,
dura in eterno la sua contesa con il senso,

stelle infuocate agonizzano oltre il sole
e piove cenere sul bordo dei millenni,
scandisce il suo ordine il potere nella storia
ma si attorciglia all’ambiguo filo della lama,

e la menzogna si annida dentro il vero,
le rocce si sbriciolano lentamente in sabbia,
la clessidra nel suo esausto sfinimento
misura il segmento che ci distanzia dalla fine,

sapienti cartografi con il metro del dolore
appongono nomi sull’anima del mondo,
la pelle del cosmo come tamburo trema,
moto in cui danzano la pietra e la rugiada,

interne a ogni masso geografie ineffabili
narrano il parto dell’oro e dell’argento
ed il teatro dei minerali nel silenzio
rappresenta la stanca sorgente della vita,

la storia si perde nel labirinto degli specchi,
comete solcano l’oscurità dell’infinito,
dentro al crogiolo del cuore della terra
il tempo cuoce e si distilla nell’istante,

e insidia la ruggine le inafferrabili radici
che ramificano strati ancestrali nel profondo,
il fuoco e il gelo le lacrime e il respiro
si condensano in un singhiozzo senza voce,

ed il tramonto distende il suo mantello
sul mondo intero nel brivido del vuoto,
l’agonia che lo trapassa come spada
diviene un sospiro di languore estremo

diviene epitaffio del nostro atroce tradimento.

OPPRIMENTE GRAVITA’

Quando il destino stringe le dita sul tuo cuore
e chiude il giogo della fatica attorno al collo
e una sorte decrepita trascina il passo sul sentiero,
allora schiumano grigi giorni verso il fondo,
si rovescia il bicchiere a mezzo della notte
e cade inerte la mano stanca sopra i fogli,

fatali dunque tremendi e sublimi quei momenti
in cui la morte come un ladro ci sorprende
ed apre squarci improvvisi dentro l’anima
in cui irrompe come tempesta l’infinito,

lontane galassie collassano in un rantolo,
sbiadiscono i secoli in un baratro di cenere
e le ossa scricchiolano di una terra che vacilla,
così lontana l’esuberanza primigenia,
ma sul confine della luce del crepuscolo
fiammeggia maestoso il sembiante di Lucrezio
e sempre vigila lo spirito suo indomito
sui flutti del nulla che sommergono ogni vita,

perché il dolore come cordone dell’ombelico
da che siamo nati ci segue come un’ombra
e insidia lo spirito come il verme con il frutto,
la paura il veleno che ci ha ridotto a esser devoti,

dentro la polvere della ragnatela dei millenni
si spegne lo sguardo d’una imbelle umanità
e invano strepita l’arroganza della storia
ciarlando d’un fulgido progresso illimitato
che frana poi come castello sulla sabbia,
e quanto folle la nostra vana frenesia
mentre tutti marciamo in un funebre corteo,
l’ossequio ai potenti ci ha condotto alla rovina,

ma ancora resistono lontano da ogni strepito

voci sommesse di antiche memorie addolorate,
braci che languono e sono ricordi senza pace,
ombre in mestizia travolte dal rimpianto,
nell’oblio degli dei l’intera terra è ammutolita,
ogni misura dissolta in febbre di possesso,
solo la luce della stella di Lucrezio
la via ci rischiara della più ripida saggezza
che come lama spezza la morsa dell’angoscia
e ci libera delle vaghe illusioni religiose,

perché fatali tremendi e sublimi quei momenti
in cui la morte come un ladro ci sorprende
ed apre squarci improvvisi dentro l’anima
in cui irrompe come tempesta l’infinito.

TERRA E MEMORIA

Rotola il tempo sul lieve velo della carne,
profondi solchi le rughe che s’incidono,
fiammelle danzano sulla punte delle dita
stanchi ricordi di misere ore consumate,

il cielo si specchia negli occhi della terra,
sentieri si srotolano quali molteplici telai,
respira il suolo polverose orme infinite,
sorvolano i corvi i cancelli della sera,

tenui figure di mondine dentro l’acqua,
le loro ombre risucchiate dal tramonto,
lento trascinano i camminanti il passo
per poi sparire oltre i bastioni d’un pioppeto,

perché dei poveri il castello sono i boschi,
i loro volti incoronati dalle stelle,
anime antiche abbacinate dall’istante,
e questa per certo è sovranità sincera,

gravate le braccia da mille cicatrici
i vagabondi tra felci ed erbe dormono,
m’appaiono esili nella nebbia serotina,
e dentro il cuore festeggia la memoria,

geografie arcaiche s’oppongono al presente,
rivi e sorgenti dove il sacro si nasconde,
tracce profonde delle zampe dei cinghiali,
interne ai ciotoli schegge di fossili conchiglie,

nel silenzio d’un morto binario della storia,
la ruggine dell’esperienza nelle ossa,
io ed il mio cane sogniamo umili gesti,
fatica di aratri zappe stivali e curve falci,

e refrattari agli squilli del futuro,
alle lusinghe d’un progresso senza fine,
onoro i viandanti che s’inoltrano nei campi,
resistere sempre urla il vento in aspre voci.

FURIA

Antico vulcano che erutta nelle viscere
ruggisce la furia in un vortice infuocato,
volano urla come dardi incandescenti,
si specchia il dolore nel profilo delle lame,

la carne a brandelli impastata nella terra
solo un relitto della nobiltà del corpo,
occhi accecati spalancati dentro il nulla
spargono lacrime ed anelano la fine,

cavalli galoppano in un turbine di vento,
i denti affondano nelle membra in uno spasimo,
sul ciglio impossibile d’un orizzonte desolato
i lupi ululano il loro funebre lamento,

e apre voragini nel suolo il terremoto,
gli artigli del mare frantumano gli scogli,
imbizzarriti i fiumi devastano i villaggi,
le Erinni festeggiano assaporando l’aspro fiele,

quale martello sull’incudine brunita
rimbomba la furia nel labirinto dei pensieri,
s’attorciglia la sua serpe attorno al cuore
e instilla il veleno d’una brama che distrugge,

e come lava brucia la pelle in cicatrici,
amaro acido che corrode l’intestino,
poi in nera estasi erutta rosse risa,
niente distingue più le vittime e i carnefici,

colosso che domina sulla trama dei millenni
pungolo è l’ira della volontà dei popoli,
l’ardente laccio della sete di vendetta
strangola l’anima in un ferale abbraccio,

la vita stessa si divora dal principio,
sovrana ingiustizia che governa ogni creatura,
vane speranze ammutolite dalla morte
coperte di sangue le ombre raggiungono il tramonto.

OMNES MORTALES

Si spegne il ricordo del caro volto degli amici
ghermito da un’ombra più scura della tenebra,
in grigia foschia si dissolve la coscienza,
lo sguardo sprofonda Ofelia dentro l’acqua
e cosa mai vedono le sue pupille spalancate?

un muro di cenere soffoca il mio cuore
né si può scorgervi un varco od un pertugio,
migrano i sogni come uccelli nell’autunno
e in un singhiozzo si muta il soffio del respiro,
sulle sponde del nero fiume attende Cerbero,

Virginia Woolf si abbandona alla corrente
e i suoi pensieri quali torce vacillanti
annaspano e gemono fumigando dentro al gelo,
piomba il destino come un masso sopra l’ora,
piange il tramonto mendicando una speranza,

nuvole grigie messaggere di sconforto
von Kleist sorvolano in piedi presso il lago,
cadaveri orribili ormai camminano tra i vivi
e sempre più arduo trovare ciò che li distingue,
lo specchio interiore riflette miseri detriti,

sbiadisce indistinto in rapace lontananza
il palcoscenico del greve orizzonte quotidiano
e tremando l’afflitta memoria si dibatte
nella marea del diaccio vuoto che s’espande
l’anima agghiaccia l’apparizione della fine,

e languono immobili le lancette del mio tempo
e si disperde pure la febbre del rimpianto
in questa perfida notte atroce senza fine
in questa notte che cancella ogni illusione

noi tutti essendo solo ostaggi della morte.

In memoria di un mio caro amico recentemente passato nell’oltremondo.
Caro Sergio R.I.P., e ci vedremo non so dove ma ci rivedremo.

 

Autore: Giovanni Corbetta
Messo on line in data: Dicembre 2010