PRAGA E LA LEGGENDA DEL GOLEM di Paolo Petitto

La leggenda del Golem è fatalmente connessa con un luogo dello spirito che è anche un luogo reale, cosa insolita e per questo tanto più affascinante: la città di Praga, o meglio il ghetto e la Sinagoga Vecchio-Nuova che caratterizzano la capitale ceca come uno dei centri più demònici d’Europa.
Golem
in ebraico significa zolla di terra, materia amorfa e senza vita: nel Salmo 139 indica un grumo informe, un pezzo di creta. Si potrebbe dire la materia allo stato puro, passivo, senza soffio vitale.

 

Così come il Dio ebraico forgia il primo uomo, con la polvere a cui è destinato a ritornare, allo stesso modo un rabbino creerà un uomo artificiale, un uomo d’argilla, un uomo senz’anima che serve pedissequamente il suo padrone. Il mostro del prof. Frankenstein, insomma, sub specie ebraica. E, come nel racconto della Shelley, anche nella leggenda del Golem il servo si ribella al padrone per ritornare da ultimo e ciclicamente alla terra da cui egli (esso?) proviene.
Il Golem è senza dubbio il simbolo vivente più famoso della Qabbalah e, in quanto simbolo, ha acquistato i significati più diversi e controversi. Per fabbricare un golem bisogna prima di tutto purificarsi. Non v’è simbologia esoterica o anche solo ascetica che non insista su questo punto fondamentale: la verità non si concede agli impuri, né tanto meno agli schiavi della materia, in quanto per dominare quest’ultima occorre esser giunti a un livello superiore di dominio di sé.

Si impasti dunque un fantoccio con terra vergine, si giri attorno ad esso più volte recitando le lettere cabalistiche del tetragramma. Si scriva sulla sua fronte la parola Emet, Verità (in altre versioni della leggenda il rabbino poneva in bocca al pupazzo lo schem hameforasch, vale a dire il foglietto col nome impronunciabile di Dio), e soprattutto si creda nell’assoluta corrispondenza tra suono e realtà, senza la quale ogni tentativo di dominare la natura, e dunque se stessi, è mera illusione.
Il potere della Parola infatti (del Verbo, diremmo noi cristiani avvezzi al Vangelo di Giovanni) è il potere della Mente, e il potere della Mente non può che esprimersi attraverso il linguaggio razionale: ma mentre per gli antichi greci ciò portava a una fiducia quasi religiosa nella capacità del linguaggio di decifrare i misteri della natura, per la mentalità e oserei dire per lo spirito ebraico tale fiducia rivela allo stesso tempo il potere dell’uomo di creare copie di se stesso, con tutti i pericoli e con tutte le tentazioni che ciò inevitabilmente comporta.

Ma torniamo a noi, o meglio al rabbino Löw, matematico, fisico, astronomo ed erudito inarrivabile che nel febbraio del 1592 trova udienza persino presso Rodolfo II, anch’egli appassionato di studi esoterici o comunque iniziatici. Pare che Löw abbia evocato davanti all’imperatore e alla sua corte le ombre dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe e dei suoi dodici figli. Dunque il mondo “altro” non era un mondo segreto per questo strano Faust ebreo.
Nel romanzo Il Golem del viennese Gustav Meyrink, pubblicato durante la Grande Guerra, si dice che il rabbi aveva ideato l’omuncolo “perché lo aiutasse a suonare le campane della sinagoga”. Negli studiosi (o appassionati che dir si voglia) di discipline esoteriche, tali reticenze o ingenuità non sono infrequenti, e mi pare tradiscano soltanto il loro timore che alcune verità possano essere fraintese.Comunque sia, l’opera di Meyrink rimane il tentativo letterario più famoso di dar vita estetica, diciamo così, al simbolo della Qabbalah per antonomasia: il Golem. «Ogni rumore nel nostro mondo di realtà è accompagnato dalla propria eco, così come ogni oggetto proietta la propria grande ombra insieme a molte altre più piccole.» [1] Siano i rami delle Sephirôt ovvero quelli reali di un albero, i simboli acquistano significato soltanto in rapporto ad altri simboli, ad altre ombre, ad altre effigi, in modo tale che il mondo intero non è che uno specchio del mondo divino. Le corrispondenze in tal senso sono infinite, come infinito è l’universo:

Sempre più mi convinco che quei sogni nascondono qualche profonda verità che luccica debolmente nella profondità della mia anima, come il fievole riflesso dell’arcobaleno di una favola, durante la veglia. Allora, non so come, mi torna in mente la leggenda del misterioso Golem, l’uomo meccanico che tanto tempo fa, qui nel ghetto [di Praga], un saggio rabbino creò utilizzando i quattro elementi; poi gli diede una sterile vita d’automa rinserrata in una formula magica che gli pose tra i denti. E, come quel Golem si irrigidì come creta nel momento in cui la frase misteriosa gli fu tolta dalle labbra, così, pensavo, questi uomini si riducono ad entità senz’anima appena si spegne in loro quella piccolissima scintilla di un’idea, quella specie di muto sforzo, per irrilevante che sia è già degradato in molti di loro a quanto sembra a pigrizia senza scopo e ad attesa inerte di un qualcosa di cui essi stessi ignorano la natura. Nascondersi e attendere… attendere e nascondersi… il terribile, eterno motto del ghetto“. [2]

Supponiamo, come il musicista Prokop nel romanzo di Meyrink, che la vita non sia altro che il misterioso turbine di cui parla la Bibbia, turbine che soffia dove vuole, ma di cui non sappiamo l’origine né la ragione; viviamo in un mondo in cui non sappiamo distinguere il grano dal loglio, l’apparenza dalla realtà, in cui proprio nei cuori più riservati il desiderio si fa più acceso: la Qabbalah avrebbe la funzione di rendere consapevoli di tutto ciò e di molto altro ancora, poiché i suoi strumenti, le lettere dell’alfabeto e la simbologia iniziatica, diventano una sorta di gioco metafisico attraverso il quale scoprire e, soprattutto, inventare, ricreare l’universo:

Ascolta e comprendi: l’uomo che è venuto da te, e che tu chiami il Golem, raffigura il risveglio dell’anima attraverso la vita più intima dello spirito. Ogni cosa sulla terra non è che un simbolo perenne rivestito di polvere. Impara a pensare con i tuoi occhi. Pensa con i tuoi occhi e osserva attentamente tutte le forme. Tutto ciò che ha preso forma era prima uno spirito. (…) Colui che è stato destato non si addormenta più. Il sonno e la morte sono una cosa sola“. [3]

 

«Un simbolo perenne rivestito di polvere…»

Conoscenza e memoria dunque sono una cosa sola: se esse contribuiscono alla felicità dell’uomo, lo fanno in quanto il misticismo non dev’essere per forza sinonimo di soppressione di ogni desiderio. Vale a dire che i simboli ci aiutano a scoprire noi stessi, giacché noi stessi siamo simboli. Solo uno stupido disprezza l’apparenza e non ne tiene conto, perché la profondità comincia dallo splendore (Zohar) della materia.

Hillel, genio del bene nell’opera di Meyrink, dice alla figlia Miriam che la Qabbalah ha due aspetti, uno magico e uno astratto, e che non bisogna confonderli. Quello magico include l’astratto, ma non viceversa: l’aspetto magico è un dono, mentre quello astratto si può imparare tramite un Maestro; se Hillel dovesse mai credere che i miracoli potessero svanire dalla propria vita, la sola idea lo ucciderebbe immediatamente. Gli uomini sono una razza impura, cui pure è concesso di errare: ma una volta consapevoli del fatto che l’immortalità non è un dono, bensì un’opera – una grande opera, direbbe un alchimista – da conquistare con fatica, allora non si hanno più scuse. Un altro personaggio del romanzo sentenzia:

Tutte le sue esperienze le deve considerare almeno parzialmente come simboli. (…) L’anima non è “una e indivisibile”; lo diventerà, e allora raggiungerà quello stato che si chiama immortalità; la sua anima è formata da un numero infinito di componenti, “ego” innumerevoli, come un formicaio è formato da innumerevoli formiche. Lei porta in sé le vestigia spirituali di migliaia di antenati, i progenitori originari della razza cui appartiene“. [4]

 

Un giorno, era un venerdì sera, il rabbi si dimentica di togliere lo schem dal suo golem: nessun ebreo lavora il sabato, e un fantoccio a maggior ragione. Nella Sinagoga  Vecchio-Nuova il golem pare conquistato dai dèmoni. Impazzisce, distrugge tutto quanto si trova sulla sua strada. Se il sabato fosse iniziato, il rabbi non avrebbe più potuto arrestare la tragedia, la quale coinvolgeva non solo un tetro quartiere della città d’oro, ma anche e soprattutto un luogo dello spirito umano. Il rabbi toglie il foglietto dalla bocca del servo, che stramazza al suolo.

Ho notato che nel film di Wegener, un classico del muto che sono riuscita a visionare non senza difficoltà, è l’innocenza di un bambino a “salvare” la situazione, un bambino che, dopo il primo timore di fronte all’orco, gli salta in braccio e gli sottrae scherzando la stella (che al cinema risultava evidentemente più suggestiva di un foglietto scritto in lingua ebraica). Il rabbi e i suoi assistenti allora compiono gli atti al contrario e pronunciano le parole cabalistiche all’inverso, un po’ come gli adepti delle messe nere, i quali recitano all’inverso il credo o tolgono significato al rito semplicemente rovesciandolo.

Qualche storico azzarda una spiegazione-giustificazione del genere: il golem non sarebbe altro che l’incarnazione dello spirito indocile, diciamo pure ribelle, degli ebrei, i quali hanno sempre tentato di difendersi dai pogróm che i cristiani, quasi fosse un rito religioso non meno che sociale, hanno scatenato a più riprese contro di loro. Il Golem in effetti a volte pare un genio (in senso metafisico, è ovvio) del  rione ebraico di Praga, un essere gigantesco e dai poteri sovrumani, per di più reso invisibile da un pentacolo di pelle di daino su cui sono incise formule cabalistiche. Come servo, a lui dunque non occorre l’intelligenza: esegue gli ordini alla lettera, come l’Es di Georg Groddeck che, dominandoci dall’interno, gioca tiri mancini all’Io (il padrone, il rabbi, la razionalità nel senso superficiale o comune del termine) non tanto perché la sua natura è perfida quanto perché deve bilanciare le colpe e le mancanze.

La colpa non a caso è un concetto, anzi un aspetto della nostra vita senza il quale l’Ebraismo non saprebbe vivere. Che poi la leggenda abbia assunto toni macabri o superomistici, dipende forse dal fatto che l’età romantica ha voluto vedere in essa soprattutto i lati in ombra, devastanti o dissolutori della personalità. Löw aveva fama di erudito serioso e al tempo stesso di astuto interprete della Qabbalah: la sua creatura pare un effetto del sapere non meno che del tentativo di forzare lo spirito ad abbassarsi. Tutti i simbolismi esoterici sono rispettati, nelle innumerevoli leggende del golem che sono state tramandate nella Slavia centro-orientale: dalla rivolta del manichino contro il proprio padrone (che significa anche rivolta della forza bruta contro l’intelligenza) al tema del doppio, del sosia, di quel che i tedeschi chiamano Doppelgänger e che mostra l’altra faccia dello studioso, dell’uomo religioso, dell’uomo in generale.

Il Golem di Meyrink non è un’ombra senza coscienza come nella leggenda che ho tentato, in poche parole, di evocare. Il Golem del teosofo Meyrink è uno Spuk, uno spettro, una presenza enigmatica e sfuggente che si rifà vivo ogni 33 anni nel ghetto praghese, come se ciclicamente una sorta di malattia spirituale potesse e dovesse ammorbare gli ebrei tramite l’incarnazione dei loro timori più reconditi. Come se la Qabbalah e il Buddhismo, le due bussole interiori dello scrittore austriaco, identificassero il Golem con l’Ebreo  errante, l’Eterno Ebreo che, come Cristo, vive o ritorna ogni 33 anni.

 

Immergendosi nella contemplazione dei simboli, delle lettere e delle combinazioni, il cabalista dunque svuotava il proprio spirito di tutte le forme materiali che potevano “disturbare” la sua concentrazione sulle cose celesti, sugli archetipi celesti. Ecco perché le lettere con le quali sono stati composti i testi sacri e con le quali si crea o si distrugge il Golem non sono semplici simboli arbitrari o convenzionali, ma vere e proprie espressioni della potenza divina. E in quanto tali hanno e acquistano significati occulti e magici. Ricercare i nomi di Dio o costruire un fantoccio imitando in tal modo Dio non  sono che due tentativi di strappare allo Spirito il suo segreto.

 

Angelo Maria Ribellino [5] ricorda che «non si finirebbe mai ad elencare tutti i fantocci inquietanti di Praga, le mummie dei suoi panottici, i simulacri sornioni che ornavano le sue vetrine. (…) Alla stirpe degli automi praghesi appartiene Odradek, il rocchetto da refe a forma di stella, che sta in piedi e va in giro nel racconto kafkiano Il cruccio del padre di famiglia».

E come dimenticare i ròbot (una delle poche parole ceche entrate nel nostro dizionario) di Karel Čapek?

 

 

Autore: Paolo Petitto
Messo on line in data: Dicembre 2006
Apparato iconografico a cura dell’Autore.

 

Note
[1] Gustav MEYRINK, Il Golem (1915), Roma, Newton Compton, 1994, pag. 52
[2] Idem, pag. 56
[3] Idem, pag. 89
[4] Idem, pag. 212
[5] Praga magica, Torino, Einaudi, 1973, pag.178.