RACCONTO: LIBRO NASCOSTO NELLA DIMORA di Giovanni Soriano
Ho fatto un orribile sogno: due mantidi enormi entravano nella mia stanza mentre me ne stavo sdraiato a letto.
Si sono curvate su di me, immobili e letali; mi hanno scrutato a lungo con quegli orrendi bulbi che avevano al posto degli occhi.
Io sono rimasto immobile, paralizzato dalla paura; alla fine si sono allontanate dal mio capezzale e, lentamente, sono uscite dalla stanza.
Poi ricordo vagamente che stavo in piedi dinanzi allo specchio e vedevo la camicia che portavo addosso brulicare di schifosi ratti neri.
Mi sono tolto la camicia e l’ho gettata via assieme ai ratti.
Cosa possono significare queste immagini allucinanti?… Per ora non voglio pensarci; da troppi mesi i sogni mi ossessionano.
Ho bisogno di uscire da questa casa vuota.
Più tardi
Sono andato in centro per prendere un caffè, ma non è stata un’idea felice: quando sono ritornato nel vicolo dove avevo parcheggiato la macchina, l’ho trovata con la fiancata destra sfregiata da una lunghissima taglio irregolare che dal bagagliaio giunge fino al fanale anteriore.
Qualche idiota s’è divertito.
Molto bene, non ci voglio più pensare. Tornerò per strada questa notte e forse incontrerò altri fantasmi.
Notte fonda
Lo sapevo che qualcuno si sarebbe fatto vivo!
Sono sceso in strada verso mezzanotte e quasi subito, appena svoltato l’angolo, sono stato fermato da una vecchia malata: m’ha mostrato una mano grinzosa orrendamente deformata dall’artrite e m’ha chiesto soldi.
Ho rifiutato, probabilmente soltanto per grettezza. Altre volte mi sono mostrato generoso, molto più spesso meschino.
Io, comunque, non sono un redentore o un salvatore.
Detesto partecipare alle miserie altrui. Se lo faccio, è solo per liberarmi da presenze importune.
Passerò il resto della notte vegliando e quando finalmente riuscirò a dormire, certo dopo l’alba, tornerò alla regione remota che tanto mi è familiare.
Posso, volendo, anche viaggiare indietro nel tempo o scorgere dei vaghi sprazzi di futuro.
In realtà, il tempo è qualcosa di simile ad un cerchio, senza principio né fine.
Verso l’alba
Sono stanchissimo ed esasperato da questo vuoto senza forma che mi incombe addosso.
L’ultima ed estrema libertà me la sono guadagnata: la libertà di vagare nel nulla sconfinato.
Il silenzio stesso di questa casa è un fantasma vivo e fremente come una piaga aperta.
I sensi del mio corpo sono così limitati… dovrò affidarmi ad altre percezioni; prendere su di me la croce di questo silenzio così profondo ed estenuante.
Secondo giorno
Un cane rabbioso sta in agguato nei miei sogni; stanotte mi strappava a morsi dalle mani un fascio di fogli dattiloscritti nei quali stava racchiusa tutta la mia vita.
L’oblio del tempo è ciò che mi da più pena.
Aver vissuto bene ed essere dimenticati: il paradosso più comune. Non ci voglio pensare…
Ma sarà un bene o un male che ogni traccia della mia vita vada perduta?…
Questa prospettiva mi fa infuriare. Forse è proprio per questo che mi ostino a scrivere: per tentare ancora e sempre di vincere il tempo ed il destino.
Ho il massimo della tecnologia a mia disposizione ed un talento non disprezzabile in molti campi: sono un osso duro da distruggere.
Purtroppo il mio orizzonte è limitato, ma a questo inconveniente posso benissimo ovviare con la fantasia.
L’unico mio problema attuale è che non so bene neanch’io che cosa sto cercando.
Pomeriggio
Niente più sogni: soltanto la piatta realtà.
Ma in questo squallore ci devono essere dei pertugi, delle piccole crepe nel muro granitico della banalità quotidiana ed io sono come un grande fiume in piena che travolge gli argini e dilaga sulle vaste pianure dell’infinito.
Notte del terzo giorno
Sono le quattro del mattino ed io mi sono appena svegliato di colpo da un sogno che ho già dimenticato; soltanto un particolare ricordo: subito prima di svegliarmi sentivo una voce che mi chiamava.
Era una voce fioca e raschiante di vecchio che, con immensa fatica, si sforzava di sillabare il mio nome.
Fuori la notte è buia e fa freddo, ma ho deciso d’uscire; tanto so che non riuscirei comunque a riaddormentarmi; porterò con me questo diario nel caso dovessi annotare di getto qualche incontro insolito.
Più tardi
Per strada ho incontrato uno strano tipo: sembrava un vecchio guerriero mongolo. Aveva i capelli d’un bianco spettrale, la pelle olivastra ed era completamente vestito di nero.
Mi si è parato davanti di colpo proprio quando stavo per girare un angolo ed ha avvicinato il suo volto al mio fissandomi dritto negli occhi; io mi sono spaventato perché m’è parso che i suoi occhi non avessero la sclera: erano due nere cavità senza fondo, sprofondate nella grigia e devastata superficie della sua faccia.
Ha schiuso la bocca sdentata ed ha sillabato a stento il mio nome:
– Giovanni Soriano!…
– Che cerchi da me, vecchio?…
– Sono venuto a prenderti per la prova.
– Quale prova?…- gli ho chiesto cercando di non tradire l’apprensione che m’aveva preso.
– Dovrai morire!…-
– E’ venuto il mio tempo?…-
– Dovrai morire e rinascere!…-
Non disse altro, mi volse le spalle e s’incamminò per la strada deserta e buia. Senza neanche rendermene conto, mi ritrovai a seguirlo.
Camminammo a lungo in silenzio; oltrepassammo un ponte sotto il quale percepii la sciacquio monotono del fiume.
Proseguimmo per un’interminabile labirinto di vicoli grigi e squallidi fino ad un angusto cortile, al centro del quale stava un vecchio pozzo in disuso da secoli.
Il vecchio trasse di tasca una chiave arrugginita e la usò per aprire il lucchetto che serrava la grata sull’imboccatura.
Si calò all’interno per primo, facendomi cenno di seguirlo.
Incastrati nella parete calcarea vi erano degli appigli di ferro arrugginito; li usammo per calarci fin sul fondo del pozzo.
L’oscurità era assoluta ma, d’un tratto, la fiamma d’una candela baluginò fra le mani del vecchio.
Vidi uno stretto pertugio nella parete davanti a me; era talmente basso che per entrarvi dovetti curvare la testa.
Il Mongolo mi faceva strada tenendo alta la candela con la sinistra.
Procedemmo così per una ventina di metri circa lungo un cunicolo umido e soffocante, finché sbucammo dinanzi ad una porta di bronzo sprangata con un catenaccio.
Il vecchio schiuse anche quello con un’altra chiave e così penetrammo in una cella angusta interamente scavata nel calcare, al centro della quale s’ergeva un sacello sepolcrale con sul coperchio l’effigie d’un antico cavaliere coperto da uno scudo crociato.
Mi sono avvicinato di più e, su un lato del sarcofago, ho letto un’iscrizione:
Jacques de Molay
1244-1314
Grand Maìtre du Temple de France
Il vecchio mongolo dagli occhi vuoti mi ha poi costretto a sedere in un angolo, mi ha consegnato la candela sgocciolante ed ha sussurrato:
– Resterai qui finché la larva non si muterà in farfalla. Ogni notte manderò qualcuno a portarti del cibo e da bere. Non ti servirà null’altro!
Subito dopo è letteralmente svanito nell’oscurità.
Sono rimasto solo a fissarmi le mani nella luce fioca della candela.
In principio non mi rendevo ancora conto di dove fossi capitato e di quale destino m’attendesse. Per fortuna avevo con me il mio quaderno e la penna stilografica. Ormai sono passate circa due ore da quando il vecchio m’ha lasciato; scrivere m’ha aiutato a restare sveglio, ma adesso la stanchezza comincia a farsi sentire. All’esterno deve essere ormai l’alba.
Non credo che riuscirò a dormire sdraiato su questo pavimento polveroso ed umido.
Comincio a sentirmi soffocare; andandosene, il vecchio ha sbarrato l’uscita dietro di sé.
Sono sepolto vivo nella tomba d’un’ antico cavaliere templare e devo aspettare che qualcuno si degni di venire a tirarmene fuori, forse domani o forse fra cent’anni, quando i topi avranno finito da un pezzo di rosicchiare le mie ossa.
Proprio una bella prospettiva!…
Molto più tardi; forse ore o giorni.
Ho dormito poco e male e mi sono svegliato con dolori lancinanti alla testa.
La candela era quasi consumata e ne ho usato ciò che restava per esplorare la camera sepolcrale.
Sulla parete di fondo, all’altezza della mia testa, ho scoperto una scritta rozzamente scalpellata nell’arenaria:
HOMO VANITATI SIMILIS FACTUS EST.
DIES EIUS SICUT UMBRA PRAETEREUNT.
E poi, poco più sotto:
MOX NOX.
Proprio in quel momento la candela si è spenta, l’oscurità m’è piombata addosso come una cappa ed il panico m’ha colto, facendomi brancolare nel buio mentre una specie di gemito rauco m’usciva dalla gola. Mi sono scaraventato verso la porta sbarrata della cella cercando di smuoverla con tutte le mie forze, ma tutti i miei tentativi sono risultati inutili: i massicci cardini, benché arrugginiti, sono comunque troppo solidi.
Ho continuato a battere i pugni sul legno massiccio fino a farmi sanguinare le nocche e sono quasi diventato afono a furia di gridare.
Tutto inutile: nessuna pur vaga risposta s’è fatta udire.
Ad un certo punto, credo d’essere crollato a terra in preda ad un collasso nervoso. Perduto in una sorta d’incerto dormiveglia, ho visto schiudersi la porta della cella ed una figura indistinta, ammantata di grigio, è entrata per un momento per poi chinarsi su di me.
Non ricordo il suo volto; assomigliava forse ad una delle mantidi del mio sogno. Ricordo vagamente due orbite vuote in un volto senza espressione che mi scrutavano con fredda indifferenza.
Sul mio capo pendeva la fiamma rossastra e crepitante d’una candela; la figura grigia depose a terra un fagotto e si perse nell’oscurità silenziosa senza che io trovassi la forza di fermarla o di parlarle.
Comunque aveva lasciato la candela e, rimasto nuovamente solo, quella luce incerta e tremolante fu sufficiente a ridarmi coraggio. Ho frugato nel fagotto e vi ho trovato una scodella di riso bollito ed una bottiglia d’uno strano liquore color rubino, assai aspro ma gradevole; ho trovato anche una pesante coperta di lana.
Più tardi; in un tempo indefinito
Quel liquore rossastro m’ha fatto uno strano effetto: ho cominciato a sentirmi tutte le membra rigide ed inerti, gli occhi mi si chiudevano a causa d’una sonnolenza improvvisa.
Mi sono avvolto nella coperta e mi sono sdraiato sul coperchio del sacello; il contatto col marmo gelido ha acuito l’estrema tensione dei miei arti.
Strane forme geometriche scorrevano davanti ai miei occhi chiusi sopra uno sfondo di macchie luminose; poi, all’improvviso, una strana luce azzurra è scaturita dai miei piedi e, formando un arco iridescente sopra il mio corpo, ha raggiunto la mia fronte, proprio alla radice del naso.
La corrente luminosa ha cominciato a vorticare creando attorno a me una specie di bozzolo bluastro; ho fatto un estremo, penosissimo tentativo per alzarmi; ho percepito nitidamente un piccolo schianto secco alla base del cranio e subito dopo mi sono ritrovato in piedi accanto al sacello del Templare su cui stava disteso il mio corpo ravvolto nella coperta.
Un sottile cordone luminoso dai vaghi riflessi argentei si allungava dalla testa del corpo fino alla sommità del mio cranio tenendoci collegati; questo cordone pulsava d’energia seguendo il ritmo del mio respiro.
Per l’emozione, le gambe non mi ressero ed io barcollai e caddi lentamente all’indietro per ritrovarmi infine a galleggiare supino a mezz’aria.
L’ambiente attorno a me prese a mutare con rapidità sorprendente; mi sentii sospingere in alto da uno strano vortice.
Una marea informe di nebbia grigia mi si addensò attorno e, quando infine si diradò, mi scoprii a volteggiare nel cielo terso del mattino verso l’orizzonte orientale che già s’illuminava del chiarore dorato dell’alba.
Volai su valli e pianure fino alla riva del mare e proseguii oltre, lasciandomi trasportare dal vento.
Non provavo più né freddo né fame o fatica; mi sentivo leggero e libero come un uccello che ha spiccato il volo.
Non avendo più cognizione del tempo, non so dire quanto ne impiegai per raggiungere la terraferma.
Dopo un lungo o forse brevissimo viaggio, atterrai sugli scogli d’una terra fredda e deserta, perennemente battuti da violenti marosi.
Sopra di me, il cielo era carico di nubi pesanti ed opache; a parte il suono ossessivo e monotono della risacca, laggiù il silenzio era totale.
M’allontanai dalla riva per inoltrarmi in una sterminata distesa di dune sabbiose, spazzate da un gelido vento di tramontana; vagai a lungo, col vento che mi soffiava negli occhi la sabbia finissima e grigia. Alla fine le scorsi avanzare da lontano: erano le due mantidi del mio incubo. Indietreggiai istintivamente, ma dietro di me non c’era che il mare e loro continuarono ad avvicinarsi implacabili, fissandomi con quei loro strani globi oculari immobili e spietati.
D’improvviso …
Nota del curatore
Il testo contenuto in queste pagine è la fedele trasposizione di alcune pagine manoscritte, ritrovate fortuitamente fra le carte del defunto cellista Giovanni Soriano. Non essendo in grado di giudicare se i fatti narrativi si debbano considerare reali o frutto della delirante fantasia d’una mente sconvolta, mi sono limitato a riordinarne approssimativamente l’ordine cronologico senza alterare una sola parola del testo.
Il resoconto di questa incredibile serie di visioni, sebbene incompiuto, getta una nuova inquietante luce sulla misteriosa scomparsa del musicista.
Attualmente non sono ancora riuscito a reperire alcuna traccia scritta del finale della narrazione. Venerdì 13 Marzo 1998.
Autore: Giovanni Soriano
Messo on line in data: Ottobre 2000