RACCONTO: DOPO LA GRANDE BATTAGLIA di Giovanni Soriano

Io vivo nella Sfera e sono un demone. Ho fondati motivi per ritenere che questo corrisponda alla verità. La Sfera è il mio mondo: io le appartengo ed essa, in qualche modo oscuro, mi protegge. Ogni ricordo delle mie esistenze precedenti è ormai svanito quasi totalmente; tutto ciò che io sono, e non è molto, si manifesta soltanto all’ interno di questa forma perfetta ed anomala. La sfera ha poteri notevoli, anche se non illimitati: può distorcere il tempo e lo spazio. Essa possiede anche una sua volontà propria alla quale io mi devo adeguare ed una forma d’intelligenza assai elevata. Infine, la Sfera si nutre di energia vitale che assorbe da forme di vita inferiore, soprattutto esseri umani. Per questo la Sfera è un’entità predatrice ed ha le sue zone di caccia preferite nei luoghi in cui le passioni più violente e distruttive si manifestano nel modo più devastante: soprattutto sui campi di battaglia, le città colpite da catastrofi ineluttabili, i luoghi dove regnano desolazione e sgomento. La Sfera ama il sangue e la violenza e ne va continuamente alla ricerca vagando forse a caso attraverso le ere e gli spazi siderali. Le mie facoltà mnemoniche si vanno progressivamente indebolendo, ma ricordo ancora con relativa precisione una pianura presso il delta del Nilo chiamata Kadesh, dove le armate di Ramses si scontrarono con gli ittiti. Ricordo la moltitudine di anime gementi che la Sfera risucchiò dal campo di battaglia nella notte successiva allo scontro e che alimentarono la sua forza demoniaca. Ricordo che la Sfera quella notte si fece più rossa del solito: l’ esito della caccia era stato più che mai favorevole. Adesso la Sfera è nuovamente alla deriva attraverso il tempo: esplora nuovi regioni in cerca di prede. Alla mia vista interiore appaiono nuove immagini, dapprima figure indistinte che poi si fanno sempre più nitide. In un gabinetto sfarzoso vedo un uomo di bassa statura, sulla cinquantina, veste con pantaloni grigi attillati, stivali militari ed una camicia di seta bianca sbottonata per tre quarti sul petto. Gli occhi sono grigi e freddi, lo sguardo vibra d’energia ed intelligenza ma un’ ombra scura sembra sovrastarlo. In lui percepisco rabbia e sgomento. Accanto a lui c’è qualcuno: un individuo più anziano, con lunghe basette grigie. Indossa una marsina scura e se ne sta rigido dinnanzi al suo interlocutore che invece è assiso su una poltrona perfino troppo grande per la sua persona. L’uomo in camicia tiene in mano una lettera e si capisce chiaramente che il testo di quel foglio lo disgusta. I due sono soli e discutono a bassa voce. L’uomo in poltrona sospira e mormora qualcosa:

“Anche questo devo subire!… Carnot, lo sapete da dove proviene questo foglio?… Da Vienna, e mia moglie lo ha scritto! Tutte queste infamie contro di me le ha vergate di suo pugno la madre di mio figlio…”
“ Maestà,” risponde il vecchio, “ le vostre spie sono troppo zelanti. Avrebbero potuto evitare di mettervi a conoscenza di una verità così squallida. Proprio ora, con la situazione che s’aggrava ogni giorno di più, avrete bisogno più che mai di tutto il vostro sangue freddo e se quella lettera vi ha turbato a tal punto…”
L’ altro scatta in piedi e prende a sbuffare come una bestia ferita.
“ Maria Luisa!…Io l’ ho amata sul serio, anche se era una straniera e figlia dei miei nemici. E lei così mi ripaga: concedendosi ad un ufficiale austriaco!!! Che ne sarà di mio figlio, in mezzo a quei barbari?!…”
“ Ciò che è fatto è fatto.”
L’uomo più piccolo, spaventosamente pallido, torna a sedersi e con un altro sospiro chiede:
“ Come è andata oggi in parlamento?”
“ Vogliono la Costituente.”
“ Proprio adesso sono presi dalla smanie democratiche! Adesso più che mai avrei bisogno del potere assoluto!…”
“ I tempi sono cambiati. Dopo quindi anni di guerre, il popolo è stanco.”
“ E chi lo dice? Quel bastardo di Fouchet e quell’altro rimbambito: Lafayette!…”
“ Qualche cosa dovrete pur concedere!…”
“ Sì, una nuova vittoria fulminante!…”
“ Ancora guerra, dunque!…”
“ Mio caro Carnot, alla resa dei conti, la guerra è l’unica cosa che so fare bene!“

A questo punto la mia visione s’oscura. La Sfera si rimette in cerca di nuovi personaggi per la tragedia che prossimamente si dovrà rappresentare. Non passa molto tempo e la ricerca ha successo. Ora l’ambiente è cambiato: vedo un palazzo sfavillante di luce nel centro di Bruxelles in una quieta sera di giugno. E’ in corso una grande festa con dozzine di eleganti dame e cavalieri. Si danza, si amoreggia e si chiacchiera piacevolmente, ma c’è tensione nell’aria. Tutti sanno più o meno consciamente che presto dovrà accadere qualcosa ed hanno paura. Proprio per questo la padrona di casa, la duchessa di Richmond, ha organizzato questa festa: per tentare di rasserenare gli animi, ed ora si sta dando da fare per convincere a danzare un ufficiale in alta uniforme: un uomo alto e dinoccolato dal naso aquilino, con l’espressione assorta tipica degli anglosassoni.

“ Duca, la prego! Mi permetto di insistere!”
“Madame, sono un pessimo ballerino!”
“Questo non ha importanza. Ciò che conta è che gli ospiti la vedano ballare con me come se niente dovesse accadere.”
“Anche voi, dunque, siete convinta che qualcosa dovrà accadere presto?”
“Lo so io come lo sapete voi e come lo sanno tutti, ma sarebbe uno sbaglio imperdonabile abbandonarci all’apprensione. Ballate dunque!…”
L’ufficiale si rassegna e si lascia trascinare dalla dama nel vortice d’una gavotta. E’ verissimo che non sa ballare; ci prova con tutto il suo essere, ma la sua goffaggine lo fa assomigliare ad un orso ammaestrato. Un domestico in livrea giunge a salvarlo:
“ Mylord, è giunto un ufficiale che chiede di parlarvi con urgenza.”
Per Wellington è una liberazione. Si defila dal ballo con discrezione e segue il domestico in un salotto appartato dove un altro ufficiale in uniforme rossa lo attende in preda all’agitazione.
“Dunque, Lord Hill, ci sono notizie?… Come mai tanta fretta di vedermi?…”
Il giovane aiutante di campo si torce nervosamente le mani.
“Mylord, è giunta una staffetta!… Due giorni fa, Bonaparte ha varcato il confine con centoventimila uomini e si dirige proprio verso Bruxelles.!…”
Gli occhi di Wellington per un attimo si dilatano. Ecco il destino che si fa avanti, in quella quieta sera di giugno in cui tutto doveva sembrare normale. Il duca ha un moto di stizza.
“Dovevo aspettarmelo!… Quel figlio d’un cane non ha perso tempo e m’ha rubato un giorno di vantaggio!…”
“ Mylord, quali sono gli ordini?…”
“ Mobilitazione immediata! Bisogna accorciare il fronte. Tutti i corpi d’armata pronti a partire prima dell’alba. Più tardi preparerò un dispaccio per il maresciallo Blücher che dovrà partire immediatamente. Napoleone è maledettamente furbo: vuole raggiungerci prima che arrivino i prussiani. “
“ La nostra destinazione?”
“ A diciotto chilometri da qui c’è un piccolo villaggio: Waterloo. Ci attesteremo lì per dare il benvenuto ai francesi.”

Passano due giorni, almeno secondo il computo degli umani, perché il tempo all’ interno della Sfera scorre in un modo assai diverso. In questi due giorni la Sfera ha esplicato il suo potere al fine di preparare l’atto finale del dramma. Ha indotto alcuni uomini a compiere errori irreparabili sfruttando le loro segrete debolezze. Il maresciallo Ney, comandante della cavalleria francese, aveva ricevuto l’ordine di conquistare Quatre Bras, la postazione dove inglesi e prussiano debbono riunirsi. L’ ha conquistata ma poi, inspiegabilmente, s’è ritirato. Grouchy, comandante dell’ ala destra, doveva tenersi pronto ad intercettare i prussiani di Blücher ma, giunto in vista del nemico, s’è limitato ad un breve e fiacco combattimento per poi sparire inspiegabilmente nel nulla.
L’esercito di Napoleone resta dunque pericolosamente scoperto sul fianco destro. Lo stesso imperatore, senza alcuna motivazione plausibile, si decide a dar battaglia soltanto verso le undici e trenta di quel tragico 18 giugno 1815. Anche in lui, la Sfera aveva smosso i demoni della disperazione riportandogli alla mente ciò che aveva letto nella lettera infame di Maria Luisa. E l’imperatore ha ceduto per qualche ora allo scoramento: un indugio imperdonabile. Comunque, la nuova scena che m’appare è strabiliante nel suo sinistro realismo. A cinque chilometri dal piccolo villaggio di Waterloo, su una collina denominata Mont Saint Jean, il grosso delle truppe inglesi se ne sta asserragliato in una fattoria opportunamente fortificata. Dinnanzi a loro, sull’ opposto altopiano sta l’armata francese. Una piccola conca divide i due schieramenti; prima di sera, quell’avvallamento sarà colmo di cadaveri. La vera battaglia finale comincia solo poco prima di mezzogiorno e anche allora un altro fatto assurdo si verifica. I francesi, invece di puntare decisamente verso Monte Saint Jean, perdono ore preziose per assediare il castello di Hougmount, sulla destra degli inglesi: un’operazione inutile e mal condotta che costerà un prezzo spaventoso. I fanti francesi vengono mandati allo sbaraglio senza neanche un fuoco di copertura; sotto i colpi dei tiratori inglesi cadono a frotte senza riuscire ad avanzare d’un metro. Dal suo osservatorio presso la locanda della Belle Alliance, Napoleone li guarda correre verso la morte e non può far nulla per evitare la strage. Suo fratello Gerolamo, che comanda l’assalto, ha interpretato gli ordini a modo suo e si intestardisce a tentare d’espugnare una postazione irrilevante. Il massacro continua per ore fino a quando, verso le tre del pomeriggio, il maresciallo Ney si decide ad ordinare la carica della cavalleria verso Mont Saint Jean. In quel momento, su tutta la vallata cade un silenzio irreale rotto soltanto dallo scalpitio sempre più frenetico dei cavalli lanciati al galoppo nel fango ancora molle. Nel frattempo, gli inglesi cominciano a sparare nel mucchio ed i dragoni francesi a cadere come mosche assieme ai loro cavalli. Napoleone osserva la carica ordinata da Ney e diviene pallido come un cadavere.

“ Come può quell’idiota ordinare una carica senza l’artiglieria che lo protegga?…”
Quelli che lo circondano non possono che restare muti.
Lui rovescia con un gesto rabbioso il tavolo che gli sta dinnanzi e grida:
“ Non è possibile!… Sono circondato da imbecilli!!!…”
Di fatto la carica di Ney s’infrange contro un muro invalicabile di baionette, ma il maresciallo non desiste: riesce a dominare lo sconquasso e tenta un’altra carica, poi un’altra e un’altra ancora. Così per dodici volte! Un coraggio sovrumano, ma del tutto inutile: le giacche rosse inglesi non mollano. Si racconta che ad ogni nuova carica, i dragoni francesi ed i fucilieri inglesi si riconoscessero ormai a vista fra di loro e si scambiassero insulti sanguinosi in mezzo al caos della battaglia.
Verso le cinque, dal suo punto d’osservazione alla Belle Alliance, Bonaparte distingue verso nord est una nube di polvere in avvicinamento. Per un attimo s’illude che siano i trentamila uomini di Grouchy misteriosamente spariti nel nulla e dei quali ha un disperato bisogno, ma subito si rende conto della terribile realtà: non è il corpo d’armata di Grouchy ma i prussiani del feldmaresciallo Blücher che giunge a dar man forte a Wellington. A questo punto il maresciallo Soult che gli sta a fianco, trova il coraggio di dire quello che tutti pensano:

“ Maestà, dovete far intervenire la Guardia!…”
Gli ussari della Guardia Imperiale: fidatissimi e fanatici pronti alla morte, fino ad ora erano rimasti nelle retrovie. Sono l’ultima carta che Bonaparte può giocare, Ma l’ imperatore esita, ancora non riesce ad accettare la possibilità d’una sconfitta incombente. Quella stessa mattina aveva detto ai suoi ufficiali:
“Questo affare non dovrà durare più del tempo necessario a far colazione!” La notte a venire, contava di dormire a Bruxelles. A quanto pare, per la prima volta nella sua lunga carriera di giocatore d’azzardo, ha sottovalutato il nemico.
Napoleone esita ancora per mezz’ora, poi dà l’ordine e gli ussari della Guardia, con le baionette innestate, si lanciano all’attacco di Mont Saint Jean. Per l’ultima volta si sente un grido che non verrà mai più lanciato:
“Vive l’ Empereur! À la carghe!…”
Il pendio è lieve, ma il fuoco delle giacche rosse falcia senza pietà gli ussari baldanzosi. Alla fine, un primo manipolo riesce a raggiungere il frutteto antistante la fattoria e dinnanzi ai francesi perplessi non vi è apparentemente più alcun ostacolo. Ma subito da ogni cespuglio, da ogni fratta, da ogni feritoia sbucano i fucilieri britannici e gli ussari cadono come marionette dai fili spezzati. Le file serrate dei francesi si scompigliano, la Guardia indietreggia. In un attimo per tutta la vallata si propaga un nuovo grido, stavolta colmo di terrore:
“La Guardia si ritira!…”

È il panico. In pochi minuti quello che resta dell’ armata francese si trasforma in una folla di uomini allibiti ed annientati dallo spavento. Se la Vecchia Guardia si ritira, allora veramente tutto è perduto. La formidabile macchina bellica di Napoleone, l’armata invincibile che per quindici anni aveva messo a ferro e fuoco l’intera Europa, cede al panico: i battaglioni si sfaldano: fanti, corazzieri ed artiglieri fuggono a casaccio calpestando morti e feriti. Proprio in quel momento sulla sommità di Mont Saint Jean appaiono due ufficiali a cavallo: sono Wellington col suo attendente Hill.
Wellington sventola il capello e grida:
“Adesso è il momento! Inseguiamoli!”
Una marea di giacche rosse si precipita dalla collina ad inseguire i francesi sbandati. Il duca è radioso e, per la prima volta da molti giorni, Lord Hill lo vede sorridere. Poi si ode un ultimo colpo isolato d’ artiglieria. Qualcosa come una saetta rabbiosa passa accanto al cavallo del generale smovendo l’aria all’ intorno. Tutto si compie nello spazio di pochi secondi: il volto sorridente di Wellington diviene improvvisamente terreo, anche se egli resta immobile sulla sella. Con una voce roca e quasi irriconoscibile si rivolge al suo compagno e mormora:
“Lord Hill, temo che la mia gamba sia andata!…”
Hill dà di sprone e si precipita sul fianco opposto del generale appena in tempo per sostenerlo mentre scivola lentamente dalla sella e quello che vede lo riempie di orrore: la gamba sinistra di Wellington è stata tranciata di netto sopra il ginocchio assieme alla guarnizione della sella; al suo posto non resta che un moncone sanguinante.

Qualche ora più tardi, quando il sole è ormai tramontato, una pallida luna piena s’affaccia nel cielo stellato ad illuminare d’una luce spettrale il campo di battaglia dove giacciono ammucchiati più di cinquantamila corpi senza vita oltre ai moribondi ed ai feriti. Un cavallo smarrito vaga senza meta fra i mucchi di cadaveri, gli affusti divelti dei cannoni e le bandiere stracciate. Il profondo silenzio è rotto a tratti da gemiti di chi invoca aiuto nelle lingue più diverse. Fra poco, dai villaggi circostanti, giungerà una torma di avvoltoi in sembianze umane: i bravi contadini di Mont Saint Jean verranno a spogliare i cadaveri; la miseria non ha riguardi neanche per la morte.
L’ultimo atto del dramma si è compiuto. Napoleone e la sua formidabile armata sono in rotta verso Parigi ed giorno seguente Wellington, mutilato ma vittorioso, si farà trasportare in barella sul colle Saint Jean e lì, contemplando lo spettacolo apocalittico, pronuncerà una frase che passerà alla storia:

“Dopo una battaglia perduta, non vi è niente di più terribile che una battaglia vinta!”
Questo è ciò che accadrà domani o che almeno dovrebbe accadere, poiché a questo punto entra in scena un’ entità imprevedibile e quasi onnipotente: la Sfera. Durante tutta quella terribile giornata del 18 giugno 1815, io ho visto migliaia di corpi astrali strappati brutalmente al loro involucro fisico librarsi colmi di terrore nell’etere al disopra del campo di battaglia. Ho udito le loro grida senza suono e li ho osservati dibattersi inutilmente mentre la Sfera li risucchiava dentro di sé. Adesso, nel silenzio irreale della notte, so che la Sfera sta per compiere qualcosa di tremendo, anche se ancora non riesco a percepire chiaramente l’intenzione che la fa muovere. Io non posso fare nulla per impedirglielo; la Sfera ha una volontà propria, spesso maligna ed io non sono che un suo strumento, ancora per poco dotato di volontà cosciente, ma solo uno strumento.
In pratica, per un lungo intervallo di tempo non accade nulla ma poi, in un modo quasi impercettibile ma irrevocabile qualcosa si verifica. Prima di tutto , all’ orizzonte appare una densa coltre di nubi che in breve oscura del tutto la luna. Comincio a distinguere un rombo di tuoni persistente e monotono, poi vedo apparire folgori multicolori in numero sempre maggiore. Scariche elettriche di intensità indescrivibile prendono a saettare nel cielo verso terra e in poco tempo tutta la vallata ne è letteralmente pervasa. Parecchi degli spogliatori di cadaveri ancora intenti alla loro opera, prendono a scappare terrorizzati. Soltanto un paio di loro, rimasti indietro sulla via di casa, potranno vedere quanto si verifica e credo proprio che le loro deboli menti umane non reggeranno a ciò di cui saranno involontari testimoni. Di fatto, più che mai fulgida di luce sanguigna e carica di energia vitale la Sfera si rende di colpo visibile al di sopra della vallata. In que preciso momento comincia a cadere una pioggia fitta e l’aria è talmente impregnata d’elettricità che scariche elettriche miste a fuochi di S. Elmo scaturiscono senza posa dalla terra stessa. A questo punto, i morti cominciano a levarsi in piedi. Dapprima con movimenti goffi ed incerti, poi mentre il loro numero aumenta sempre più col passare dei minuti, vedo progressivamente una marea di esseri lividi e stracciati rialzarsi dal fango misto a sangue e muoversi incerti nel buio in cui saettano folgori verdastre. Fanti, granatieri, ussari, francesi ed inglesi, prussiani e olandesi, barcollando sotto la sferza della forza sovrannaturale che la Sfera induce in loro, riprendono le armi; i tamburini morti si levano a battere la carica e la battaglia, conclusa ormai senza possibilità d’appello, riprende invece nella luce spettrale dei fulmini. L’inaudito spettacolo s’interrompe di colpo poiché la volontà della Sfera proprio in quel punto oscura la mia visione, ed io naufrago lentamente nelle nebbie del sonno.

Adesso sono nuovamente cosciente e non posso fare a meno di chiedermi: fino a dove la Sfera oserà portare avanti questo suo gioco perverso? Che ne è stato di quella moltitudine di corpi che essa ha dotato di vita apparente solo per il piacere di sconquassare i cicli del tempo? Stanno ancora lottando o la battaglia è stata nuovamente perduta e vinta? Ci sono vincitori e vinti o la morte li ha riaccolti tutti nel suo grembo oscuro? Ma soprattutto, se i vincitori vagano adesso nelle tenebre della notte, dove li condurrà domani l’ infido potere della sfera?…
19 luglio 2004.

 

Autore: Giovanni Soriano
Messo on line in data: Gennaio 2005