I TESORI MALEDETTI DEI PIRATI di Devon Scott

Un fascino che non tramonta mai

Antonio Tabucchi, alla domanda quale fosse un’opera da non perdere assolutamente, rispose: “Se devo scegliere un libro, IL libro, scelgo senz’altro L’Isola del Tesoro, di Robert Louis Stevenson. Perché è pieno di vento, di immaginazione, di avventura, d’infanzia“.
Alzi la mano chi, leggendolo, non ha sognato di essere nei panni di Jim e di partire per mare con una mappa alla ricerca di un favoloso tesoro nascosto dai pirati.
Nel caso del libro, la vicenda fu ispirata da un fatto reale: nel 1750 il carico del galeone Nuestra Señora de Guadalupe, 55 forzieri pieni di monete d’argento, fu nascosto dai pirati in una caverna a Norman Island, nell’arcipelago delle Isole Vergini Britanniche. Nel 1883, grazie a una tempesta, fu ritrovato da un pescatore e poi recuperato dal governo: lo scrittore fu colpito dalla storia e ne trasse idee per il libro.

Nell’immagine a lato,
la copertina dell’edizione del 1911 del libro

Si usano indifferentemente i termini pirata, corsaro, filibustiere e bucaniere, come se fossero sinonimi, ma non è così: il pirata, da qualunque paese provenisse, lavorava solo per se stesso; il corsaro era al servizio di un governo; il filibustiere apparteneva alla Filibusta, la fratellanza che operava nella Antille e attaccava le navi spagnole con particolare abilità, astuzia e purtroppo anche con estrema crudeltà. In quanto ai bucanieri, erano i filibustieri che avevano il compito del “boucanage”, cioè di trattare le carni degli animali per approvvigionare le navi, cuocendole alla griglia e affumicandole in modo tale che non si guastassero durante il viaggio diventando immangiabili. Il metodo era stato inventato dagli indigeni caraibici, che lo chiamavano “barbacoa”: l’origine del moderno barbecue.

La pirateria esiste da sempre, anche se anticamente non si distingueva la guerra contro un nemico, condotta per mare depredando e affondando le navi, da quella per terra. Quando fu inventata la pirateria “indipendente”, cioè non collegata a guerre tra specifiche nazioni, spuntarono pirati nei mari della Cina, in Indonesia, nel Mediterraneo (i temutissimi Barbareschi), attorno alle Azzorre, nel Golfo Persico, attorno alle coste del Madagascar, ma nell’immaginario, quando si parla di “pirateria classica”, si intende quella condotta dai pirati dei Caraibi tra il 1600 e il 1700. Avevano le loro roccaforti nelle isole di Port Royal, in Giamaica, Tortuga e Hispaniola (che adesso appartiene ad Haiti e alla Repubblica Dominicana).

Perché le navi spagnole erano le vittime predestinate dei pirati dei Caraibi?
La scoperta dell’America mise a disposizione degli Spagnoli ricchezze immense: furono depredati palazzi e templi che contenevano grandi quantità di tesori in oro, argento, pietre preziose, ma anche statue di divinità e gioielli magnifici. Questi in gran parte furono privati delle pietre e fusi per farne lingotti: così abbiamo perso manufatti importantissimi per studiare le civiltà precolombiane. Le notizie sui galeoni che tornavano in patria stracarichi attirò tutti quelli che volevano arricchirsi in fretta.
I pirati non avevano molte remore: come dicevano nell’antica Roma, pecunia non olet, il denaro non puzza, e appropriarsi di tutto era una buona cosa, ma… i marinai di ogni tempo e paese erano superstiziosi: se capitava un guaio, se una bonaccia fermava la nave, se si scatenava un’epidemia o se c’era un guasto voleva dire che i carichi erano sicuramente maledetti e talvolta la maledizione passava anche a loro.
Così nel primo film de’ “I Pirati dei Caraibi” l’intera ciurma paga il fatto di aver rubato l’oro che gli Aztechi avevano consegnato a Cortès in un forziere di pietra: 882 pezzi d’oro sui quali gli dei avevano scagliato una maledizione. Apparentemente vivi, con l’arrivo della Luna Piena i membri dell’equipaggio diventano mostri non-morti; la maledizione sarà spezzata solo quando tutti i pezzi torneranno nel forziere.

Perché la maledizione?
In primo luogo c’era il sangue di innocenti indigeni massacrati che copriva le mani dei conquistadores; poi altro sangue innocente veniva versato quando i pirati assaltavano una nave, sterminando l’equipaggio. Inoltre gli dei non gradivano la spoliazione dei loro templi: le più fosche leggende sulle pietre maledette, oltre che su metalli preziosi, riguardano furti compiuti in luoghi religiosi in varie parti del mondo.
Il diamante Hope, rarissimo per il peso (più di 45 carati) e il colore blu intenso, fu tolto dalla statua di Rama-Sitra in India. Il dio maledisse la pietra e i proprietari, che finirono morti prematuramente per malattie, suicidio o omicidio. La catena di interruppe quando il gioielliere Harry Winston lo fece tagliare e lo donò allo Smithsonian Institute di Washington, dove è esposto.
Anche il diamante nero Orlov, sottratto a un idolo indiano, si lasciò dietro una fila di suicidi prima di essere tagliato e incastonato in una collana. Da allora non si hanno notizie di altre morti. I rubini davano al proprietario salute e protezione per sé e per la casa: rubarli equivaleva a togliere vita e salute, quindi la maledizione li colpiva invariabilmente.

Nell’immagine sotto,
veduta di Port Royal nel XVII secolo

Gli smeraldi sono tra le pietre più maledette, in particolare quelli più belli, i colombiani, che ornavano i templi di Maya, Aztechi e Inca. La leggenda dice che se uno li ruba, prima o poi torneranno indietro, purché il legittimo proprietario non si sia macchiato le mani di sangue per ottenerli; su questa base molti musei del Centro e Sud America hanno chiesto la restituzione di manufatti ornati di smeraldi, trafugati e finiti nei musei europei. Tentar non nuoce…
Si conosce anche una ametista maledetta, rubata dal tempio in Indra durante un’insurrezione: dopo suicidi, disgrazie, malattie e fallimenti finanziari, fu gettata via, ma fu ritrovata e restituita al proprietario. Che fare per liberarsene una volta per tutte? La pietra fu incastonata in argento con simboli magici a protezione e rinchiusa in sette scatole una dentro l’altra. Consegnata a una banca, rimase nel caveau fino a 33 anni dopo la morte del proprietario, ma dopo averlo ereditato la figlia non si fidò ad aprirlo: regalò il pacchetto ancora sigillato al Museo di Storia Naturale di Londra, avvertendo della pericolosità della pietra, che “portava sangue e disonore” e anche che sarebbe stato meglio buttarla in mare. Il Museo aprì il pacchetto e ancora oggi l’ametista è esposta nella sezione di mineralogia, dove ha smesso (per ora) di fare danni.

Assalti legali
Discorso diverso, invece, per i corsari: dotati di una “patente di corsa” governativa, potevano assaltare le navi dei nemici con i quali erano in guerra.
Tra i corsari inglesi più noti ci furono Thomas Cavendish e Francis Drake, che ottenne dalla regina Elisabetta I il titolo di “Sir” per la sua bravura e il suo coraggio nella lotta contro gli Spagnoli.
In Francia Jean Fleury e Jean Ango andavano all’arrembaggio delle navi spagnole, Robert Surcouf di quelle inglesi: pur essendo sprovvisto di una patente ufficiale, per i suoi meriti gli fu lasciato tutto il bottino e Napoleone gli offrì un posto da ufficiale, che egli rifiutò perché, pirata nell’anima, pensava di arricchirsi di più (divertendosi nella sfida) aggirando i blocchi economici tra le due nazioni in guerra.
I tesori dei corsari non erano mai soggetti a maledizioni: quando andavano all’arrembaggio colpivano navi nemiche, quindi era considerato un atto di guerra su altri soldati avversari del loro paese.
Ma guai a cambiare idea.
William Kidd (1645-1701) era un corsaro specializzato nel recupero delle merci rubate dai pirati e nell’attaccare navi francesi, che secondo lui trasportavano materiale che veniva da azioni di pirateria. Però la vista dei tesori lo convinse che diventare egli stesso un pirata sarebbe stato decisamente più redditizio. Riuscì ad accumulare ben 400 tonnellate d’oro, che nascose a Gardiners Island vicino a Long Island (New York), ma sul tesoro pesava una maledizione: era stato ottenuto permettendo, dopo l’arrembaggio, ogni tipo di atrocità da parte del suo equipaggio. Catturato e processato, per salvarsi la vita rivelò il nascondiglio del tesoro, ma lo impiccarono comunque.

Nell’immagine a lato,
il pirata Capitano Scarfield dal libro illustrato di Howard Pyle
Una curiosità: nel film “Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar” lo stesso nome fu dato al capitano (interpretato da Geoffrey Rush) che combatteva contro Jack Sparrow

Non subì maledizioni la più famosa piratessa della storia, Jean de Belleville. Resa vedova dal duca Charles du Bois, pretendente al trono di Francia, giurò di versare sangue francese per vendicare il marito. Prese la cosa tanto sul serio che armò tre navi, ne fece dipingere gli scafi di nero, si scelse una bandiera rosso sangue e si guadagnò il soprannome di “Leonessa sanguinaria della Bretagna”.
Era sua abitudine attaccare solo le navi francesi, sterminare tutto l’equipaggio e lasciare in vita una sola persona che potesse raccontare gli orrori di cui era stata testimone. Non tenne denaro per sé, lasciando tutto al suo equipaggio e agli ufficiali, e forse per questo la sua storia ebbe un lieto fine: conobbe Walter Bentley, militare al servizio del re d’Inghilterra Edoardo III, lo sposò e vissero felici e contenti nel loro castello di Hennebont, sulla costa bretone.

Libri e film ci hanno regalato uno stereotipo del cattivo pirata tipico: sporco, brutto, con una lunga barba e orecchini, talvolta menomato fisicamente, in particolare con una benda su un occhio e una gamba di legno, pezzi perduti in battaglia. Spesso è in compagnia di un pappagallo parlante il cui linguaggio non è adatto a orecchie delicate. Sulla nave pirata sventola il Jolly Roger, la famosissima bandiera con il teschio e le tibie incrociate, che riempiva di sacrosanto terrore chi se la trovava davanti.
Abbiamo visto al cinema pirati simpatici, belli, palestrati, affascinanti, spesso cavallereschi con i deboli e le donzelle in pericolo: uno per tutti, il celebre “Capitan Blood” interpretato da Errol Flinn, medico condannato alla deportazione per aver curato un giovane che si era ribellato al re Giacomo II; liberatosi, diventa pirata, ma alla caduta del re il nuovo sovrano, Guglielmo d’Orange, lo grazia e Blood diventa corsaro per il re, sconfigge i Francesi e sposa l’amata dopo essere stato nominato governatore dell’isola.

Ma la realtà era così rosea? In alcuni casi sì, sicuramente alcuni pirati riuscirono a vivere bene dopo essersi ritirati, con il frutto del loro lavoro, ma in altri no.
Il gallese Henry Morgan (1635-1688) fu dapprima pirata, poi corsaro. Si arricchì a dismisura minacciando le città spagnole e chiedendo un riscatto per non attaccarle. Negli ultimi anni della sua vita combatté la pirateria e fu perfino nominato governatore della Giamaica.

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ritratto di Henry Morgan tratto dal libro di Alexandre Exquemelin Piratas de la America, 1681, The New York Public Library

Non subì maledizioni in vita, ma una leggenda diceva che la sua tomba sarebbe scomparsa per pagare il male fatto alle sue numerose vittime: fu seppellito a Port Royal, ma quattro anni dopo la città fu colpita da un terremoto e tutto il cimitero sprofondò in mare, compresa la sua tomba.
È il pirata che ha riscosso più simpatie nel mondo e anche in Italia: nei libri di Salgari era il luogotenente del Corsaro Nero e ne sposò addirittura la figlia Jolanda; il calciatore Francesco Morini era chiamato “Morgan” per la sua abilità nel portar via il pallone agli avversari. Il cantante italiano Morgan (Marco Castoldi) gli ha reso omaggio col suo nome d’arte. Fu dato il suo nome a una marca di rhum, a un manga, a un album di canzoni. John Steinbeck, che nel 1962 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura, nel suo primo libro La Santa Rossa fece la sua biografia romanzata. Inoltre fu inserito in molti film e romanzi come personaggio marginale. I venezuelani non lo amano: ancora oggi per definire una persona ignorante e stupida usano il termine Muérgano (dal suo cognome).

Edward Teach (1680-1718) divenne famoso come Barbanera e nei due anni prima della morte spadroneggiò in tutti i Caraibi e anche vicino alle coste del Nord America, guadagnandosi una fama terrificante forse esagerata, perché fece spesso un intelligente uso della guerra psicologica per spaventare i nemici, oltre alla violenza come tutti i suoi colleghi.

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il suo ritratto fatto da Joseph Nicholls nel 1736

Nella sua breve vita catturò più di centotrenta navi e si sposò ben quattordici volte.
Il suo nome è sinonimo di pirata crudele e sanguinario, ma in verità trattava bene il suo equipaggio e nessun prigioniero preso come ostaggio fu mai da lui torturato o ucciso.
Una maledizione molto moderata lo colpì: il suo fantasma è condannato a girare per le spiagge della Carolina del Nord, ma la cosa non lo disturba più di tanto; anzi, si dice protegga le coste dagli invasori.

Un altro famosissimo pirata fu Jean Baptiste Lafitte (1776-1826); nato in una famiglia di aristocratici, vide tutti i suoi cari ghigliottinati. Raffinatissimo e coltissimo, parlava perfettamente francese, inglese, spagnolo e italiano.
Oltre che con la pirateria nella zona di New Orleans, si arricchì con il commercio degli schiavi; si comportò più da corsaro e non attaccò mai navi americane. In Louisiana lo si considerava un eroe, perché aggirava l’embargo degli USA verso Francia e Inghilterra, contrabbandando i beni di lusso di cui la raffinata città era avida. Fu protagonista di un divertente episodio: quando il governatore Claiborne mise sulla sua testa una taglia di 500 dollari per la sua cattura, in tutta New Orleans furono affissi manifesti in cui Lafitte offriva 500 dollari per la cattura del governatore. Anche se nei film fa sempre la parte del cattivo, su di lui non ci furono maledizioni: riuscì a fuggire, si sposò e visse non si sa dove, probabilmente in Texas o forse in Colombia. Un secolo dopo un uomo che diceva di essere il suo pronipote affermò di essere in possesso del diario del bisavolo.

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ritratto di Jean Lafitte di pittore anonimo, Rosenberg Library, Galveston, Texas

Codice d’onore
I pirati avevano un rigido codice da rispettare e regole che non potevano essere infrante pena la morte o l’abbandono in un luogo deserto. Ne abbiamo alcuni esempi, rari, perché i documenti venivano distrutti per non essere utilizzati nei processi contro di loro. Il più noto codice piratesco fu quello del gallese Bartholomew Roberts, detto Black Bart, curiosa figura di pirata cristiano che riposava la domenica e amava la musica, tanto da portarsi appresso due violinisti.
Egli stabilì che tutti avevano diritto di dire la propria e di votare; il bottino andava diviso tra tutti e solo i gradi più alti avevano una quota extra; chi si feriva aveva diritto a un indennizzo; ciascuno era responsabile dello stato delle proprie armi; sulla nave non si giocava per soldi; le luci si dovevano spegnere alle otto di sera; eventuali duelli dovevano essere fatti a terra e non sulla nave; non si toccavano donne e bambini e non si portavano a bordo, in particolare donne vestite da uomo. La regola può sembrare strana, ma vi furono casi di donne che si travestirono da uomini per fare le piratesse o per seguire i loro amati; probabilmente alcune finirono male, ma due ottennero quel che volevano e divennero famose: Mary Read e Anne Bonny.

A rendere affascinante la figura dei pirati non è solo lo stile di vita avventuroso, ma i tesori accumulati. Di questi, alcuni furono recuperati, almeno in parte, ma altri sono scomparsi, forse usati dagli stessi pirati per vivere agiatamente o forse tanto ben nascosti che nessuno li ha ancora trovati.
Si ipotizza che nei mari di tutto il pianeta siano più di tre milioni le navi affondate, centinaia solo al largo della Martinica. Molte furono spogliate prima di essere fatte colare a picco, ma un numero enorme affondò col carico completo: merci, tessuti preziosi, mobili, spezie, gioielli, generi alimentari (tra cui cacao e zucchero), ma anche tanto oro, argento e pietre preziose.
Dove sono finite queste navi?

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pirati che combattono tra loro a terra, dal libro illustrato di Howard Pyle


Alcune sono probabilmente irrecuperabili perché affondate in acque troppo profonde; inoltre nel caso in cui sia impossible sapere il luogo esatto dell’affondamento e avere i manifesti di carico che possano dire se quel che si trova nella stiva è conveniente da recuperare, il gioco non vale la candela, ma altre sono molto appetibili perché affondate in luoghi accessibili e con un carico sicuramente prezioso. Alcune società si occupano di scovare e riportare a galla i tesori sottomarini; se le navi sono nelle acque territoriali di un paese, bisogna dare una buona percentuale al governo, ma in acque internazionali ciascuno tiene quello che trova.
Ogni tanto qualcuno è fortunato: ad esempio, la Odyssey Marine Exploration, che ha sede a Tampa, in Florida ed è una della più famose società di ricerche sottomarine, ha recuperato i tesori della fregata Nuestra Señora de las Mercedes, affondata nella battaglia del Capo Santa Maria vicino alle coste portoghesi, e la SS Gairsoppa, che non era una nave pirata, ma una nave mercantile che conteneva un tesoro di lingotti d’argento del valore di 150 milioni di sterline. Ci sono stati anche ritrovamenti piccoli fatti da privati e perfino colpi di fortuna insperati.
Nel 1750 la Nuestra Señora de la Conception, un galeone che cercava di sfuggire ai pirati, si incagliò davanti alle coste della Carolina del Nord. Il tesoro fu trasferito, forse a terra o forse da qualche altra parte, per alleggerire la nave nelle operazioni di riparazione: sparì il tesoro e sparì anche la nave. Convinti che la nave avesse avuto una grave avaria, che fosse affondata e che il relitto dovesse trovarsi molto vicino a riva (nessuno aveva visto la nave prendere il largo), in molti lo cercarono fin da subito, spendendo denaro, tempo ed energie, senza arrivare a nulla.
Però… negli ultimi anni del 1800 un pescatore della zona raccontò ai colleghi di aver intravisto una caverna sotterranea piena di quelli che sembravano tesori: tutti lo presero in giro. Senza dire nulla a nessuno egli cambiò radicalmente vita: si trasferì con la famiglia, comprò una tenuta nell’isola di Saint Thomas e visse nel lusso per tutta la vita, così come i suoi discendenti. E l’ubicazione della misteriosa caverna non fu mai rivelata.

Il tesoro più famoso della storia piratesca, gravato dalle più orribili maledizioni, è quello di Olivier Levasseur (1689-1730), pirata francese, detto La Buse (la poiana), uccello rapace che aveva in comune con lui la caratteristica di catturare velocemente la preda dopo averla osservata da lontano e di eliminarla senza pietà. Corsaro per la Francia, divenne poi pirata e fece dell’Oceano Indiano il suo luogo preferito di scorrerie; era noto per la crudeltà, anche quella inutile, con cui trattava i prigionieri. I suoi arrembaggi gli portarono immense ricchezze, a cui non volle rinunciare: quando il governo francese gli offrì una amnistia a patto di consegnare il frutto delle sue ruberie, rifiutò. Catturato in Madagascar, fu impiccato per pirateria. Ma a questo punto comincia la leggenda.
Si sa che egli aveva nascosto un tesoro, ipotizzato in più di un miliardo e mezzo di sterline attuali, non si sa dove. Sul patibolo si tolse una collana che aveva al collo e che conteneva un crittogramma (purtroppo non una comoda mappa, come nei romanzi) per accedere al nascondiglio. Esclamò: “Trovi il mio tesoro, colui che può capirlo!” E lo gettò alla folla venuta per assistere alla sua esecuzione.
A decine provarono a decifrare lo scritto, incuranti della maledizione. Nel 1923 una vedova, la signora Savy, notò degli strani simboli scolpiti sulle rocce di una spiaggia dell’isola di Mahé, nell’arcipelago delle Seychelles, affiorate a causa del basso livello dell’acqua; risultò che la zona era stata di proprietà di Lavasseur. Decifrando i simboli si scoprirono due bare e un terzo corpo di pirati, ma nessun tesoro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale un inglese, Reginald Cruise-Wilkins, perse anni sul crittogramma del documento e sui simboli incisi sulle rocce, ipotizzando collegamenti con la Massoneria, con il grimorio della Chiave di Salomone, con l’astrologia e perfino con le dodici fatiche di Ercole, che dovrebbero dare una sorta di percorso obbligato per arrivare al nascondiglio, e tornare, vivi e in grado di portare via il tesoro. Un compito degno di Indiana Jones! Alla sua morte il testimone passò a suo figlio, che non ebbe miglior fortuna. Il crittogramma (nell’immagine sotto) conserva i suoi segreti e, per ora, la maledizione non ha ancora colpito nessuno.

Bibliografia
Bessière Richard – Trésors Maudits et trésors interdits, Edizioni Dangles, 2004
Condingly David/ Johnson Charles – Pirates: A General History of the Robberies and Murders of the Most Notorious Pirate, Osprey Publishing, 2017
Condingly David – Seafaring Women: Adventures of Pirate Queens, Female Stowaways, and Sailors’ Wives, Random House Trade Paperbacks, 2002 
De Tervagne Simone – Gioielli magici e pietre maledette, Edizioni MEB, 1984
Konstam Angus – Pirati e corsari. Uomini e navi 1660-1830, LEG Edizioni, 2013





Autore: Devon Scott
Messo on line in data: Aprile 2023
Immagini Wikimedia Commons