SANTI CRISTIANI E TRADIZIONI PAGANE di Andrea Romanazzi

I Santi cristiani e le tradizioni pagane: antichi ricordi all’ombra del Cristianesimo

Come i rami e le gemme crescono e sbocciano su ruvidi e secolari tronchi, così spesso capita che aspetti di una nuova religione attecchiscano su vetusti legni di passate credenze, assorbendone usi e tradizioni. Nel Cristianesimo, religione fortemente intrisa di elementi pagani, pur nel suo opporsi a tali pratiche, tale consuetudine è fortemente presente. Esempio potrebbe essere Sant’Antonio, l’abate anacoreta su cui si sono accumulate e stratificate antiche credenze e remoti rituali in questo modo poi assorbiti dalla mistica figura attraverso un’operazione di sincretismo religioso.
La vita del Santo ci è nota attraverso la biografia scritta da Sant’ Atanasio nel IV secolo ed ampliata da San Girolamo. Antonio, nato presso Eracleopoli in Egitto nel 251, dopo la morte dei genitori distribuisce tutti i suoi averi ai poveri per poi ritirarsi, nel 270 d. C., nel deserto della Tebaide dove comincia la sua vita eremitica. Se questa è in breve la storia del santo, molto importanti sono le caratteristiche “pagane”, retaggio di svariati culti precristiani, ben presenti nei tratti iconografici del santo.

 

Sant’Antonio e Lug: la Cannibalizzazione del Divino

Il Santo è spesso conosciuto con l’epiteto di Antonio “de lu purcelle”, caratteristica che lo lega indissolubilmente a questo animale, ed in generale agli animali domestici di cui è protettore.
Il rapporto tra il santo e il maiale in realtà non appartiene all’agiografia di Antonio ma è introdotto successivamente. E’ nella Antonianae Historiae del 1534 che troviamo per la prima volta un riferimento al porco. L’episodio narra che mentre il santo si trova a Barcellona viene raggiunto da una scrofa che aveva tra le fauci un piccolo porcellino zoppo e malato. Deposto davanti al santo in atto di preghiera, quasi a chieder la grazia per l’animaletto, l’animale viene guarito dal Santo con un segno della croce che, grazie a questo prodigio, converte tutta la città. Da allora egli viene raffigurato con ai piedi un maialino.
Questo episodio è ancora ricordato nella tradizione popolare (vedi la festa di sant’Antonio).

Il maialino ha, nella tradizione popolare, una valenza terapeutico-sacrale; le carni del porcellino di Sant’Antonio erano distribuite tra i fedeli e si credeva fossero medicamentose, un esempio, dunque, di cannibalizzazione del divino, un rituale da sempre presente nelle civiltà antiche. L’uccisione del maiale altro non è che un ripresentarsi dei rituali di smembramento della divinità e la seguente dispersione nei campi delle sue “parti”.
A Creta, durante la celebrazione della morte della divinità, si sbranava a morsi un toro vivo, mentre in Grecia, durante i rituali dionisiaci si usava cibarsi di un capretto. Le ragioni di tali pasti sono semplicissime: il selvaggio mangiando la carne di un uomo o, in questo caso di un animale, crede di acquistarne le qualità caratteristiche, non soltanto fisiche ma anche morali. Se, come in questo caso, si tratta di un essere divino o direttamente a lui collegato, l’uomo antico pensa di assorbire, con la sostanza materiale, una parte di divinità. Pertanto il bere vino nei riti di una divinità della vite, come Dioniso, o il cibarsi di animali sacri al dio non è una gozzoviglia ma un sacramento solenne.

Successivamente, il legame tra Sant’Antonio e gli animali diventa ancora più forte e generico tanto da farlo diventare loro protettore. Era così in uso infiggere all’interno delle stalle immagini raffiguranti il Santo nella forma iconografica che lo rappresenta tra gli animali e con il fuoco in mano. Ci sono così tutta una serie di scongiuri popolari per la loro protezione, vere e proprie formule magiche che ancora sono presenti nelle tradizioni popolari.

O Vero miracolo degli Anacoreti, gloriosissimo Sant’Antonio, eccoci prostrati innanzi a voi a venerare con le altre vostre eroiche virtù quella prodigiosa fortezza con cui resisteste alle tentazioni del demonio e le vinceste dopo lungo travaglio. Liberaste con la sola potenza del vostro nome, l’aria, la terra, il fuoco e gli animali dalle sue maligne influenze. Deh! Fate che, imitando noi anche la vostra invitta fermezza negli assalti dei nostri spirituali nemici, otteniamo da Dio di partecipare in Paradiso alla vostra gloria e qui in terra alle vostre benedizioni, che invochiamo sull’aria, sulla terra, sul fuoco e su gli animali che servono alla nostra alimentazione”.

La spiegazione del legame tra il Santo e il porcello potrebbe però essere anche un’altra. Quando i Crociati trasferirono le sue spoglie in Occidente e in particolare ad Arles, in Francia meridionale, il culto del Santo si diffuse a macchia d’olio, ma proprio nella sua veloce diffusione si scontra con il culto pagano di una antica divinità celtica, il dio Lug, rappresentato come un giovane che reggeva un cinghiale, animale particolarmente sacro ai Celti. Il perché di questo animale è facilmente spiegabile: il cinghiale, vagando per i boschi, si ciba e danneggia alberi e piante, in realtà espressione dell’immanenza della divinità. Nell’idea antica solo il dio poteva cibare o danneggiare se stesso, dunque l’animale altro non poteva essere che aspetto totemico della divinità. Del resto il legame Antonio-Lug potrebbe essere rafforzato proprio dalla data in cui il santo viene festeggiato, il 17 gennaio, il periodo dei rituali dedicati a Lug. La chiesa così, con un’operazione sincretica, trasforma il cinghiale in un maialino con un campanello, altro simbolo pagano, immagine dell’utero della Grande Madre, di cui Lug era figlio, dicendo che era un diavolo ammansito dal santo. Ecco così presentarsi un altro importatene tema iconografico-popolare: Sant’Antonio e il diavolo.

 

Il Demonio nelle Tradizioni Popolari

Proverbiali sono poi le lotte tra il santo e il Diavolo presentateci nella Historia Sancti Antonii di Attanasio. Gli episodi che legato il Santo al diavolo possono essere facilmente sintetizzati: conoscenza da parte del Santo di essere stato concepito in maniera peccaminosa e dunque sua appartenenza al demonio, eremitaggio e discesa negli inferi, lotta con il diavolo e sua trasformazione sotto le sembianze di donna, vittoria finale.
Ebbene, fuor di metafora, anche in questo caso l’episodio si presta ad una doppia interpretazione, sincretico-sacrale e popolar-taumaturgica. Le fatidiche lotte altro non sarebbero che la metafora del combattimento del Santo con le divinità pagane alle quali, dunque, preleverà le caratteristiche.
Queste epiche lotte sembrano però davvero distanti da quelle che ritroviamo poi narrate nel folklore popolare ove, più che dispute teologiche sembrano veri e propri screzi di vita quotidiana.
Troviamo così narrazioni che descrivono vicende di tutti i giorni, veri e propri “dispetti” fatti al Santo dal Diavolo che gli ruba periodicamente forchette, bastoni ed altri oggetti di uso comune.

Sant’Andone nchi na scodelle, si magnève li tajuline, le demonie belle belle j s’ arrobbe la furcine, Sand’Andone p’allore n’zi ngagne, ngli mane se li magne

oppure

Sand’Andone vecchiaridde s’appiceve ru fucurune, ru demonie tentatore j’ pijeva ru zufflatore

oppure

Sand’Andone è un secchione li tene’ nu belle bastone, lu demonie a ppoch’ a ppoche j’li brusce tutt’a lu foche”.

Se dunque a livello sincretico-sacrale il combattimento è una strenua lotta al mondo pagano, nella vita dell’uomo antico l’interpretazione è ben differente, il Santo viene quasi declassato da asceta ad campione della plebe contadina. Il demonio a sua volta, da signore del male, assume la metaforica sembianza delle contrarietà comuni della vita quotidiana, dalle morie degli animali alle malattie, ai semplici imprevisti.

Interessante è anche il legame tra il Santo ed il Fuoco, la fiamma viva sempre raffigurata nel palmo del Santo. Vi sono anche in questo caso varie spiegazioni a tale iconografia. Se teologicamente la rappresentazione è legata alla vicenda del fuoco sottratto al Demonio e donato agli uomini, in una interpretazione popolar-taumaturgica il Sacro Fuoco, come ignis sacre, è legato ad uno stato di malattia chiamata proprio “fuoco di Sant’Antonio”.
In Sicilia il Pitrè segnala una preghiera di richiesta di guarigione al santo:

Sant’Antoniu autu a putenti, Mmau aviti lu focu ardenti, comu jistivu pilivanti e punenti, comu ammanzistivu li porci di Tubia, ccussì ammanzisti li cristiani a vogghia mia“.

Se dunque una prima valenza dell’elemento igneo può essere quella terapeutico-sacrale legata alla malattia, macrocosmicamente questa “guarigione umana” viene trasposta a quella dei campi, la fiamma diventa così il fuoco rigeneratore della tradizione pagana. Da tempo immemorabile infatti vi è così l’usanza, in particolari periodi dell’anno, di accendere falò.
L’idea della rappresentazione in terra del ciclo solare deriverebbe da una serie di usanze come il far ruzzolare una ruota infuocata giù per una collina, e può esser ben applicata anche alle torce, in quest’ottica il correre per i campi con fiaccole accese è semplicemente un modo per diffondere la luce nelle campagne. E’ dunque un rituale di fertilità e purificazione, la luce e il calore sono necessari ai vegetali per rinascere dopo il Signor Inverno e dunque la tradizione altro non sarebbe che un rito apotropaico per assicurarsi il ritorno della bella stagione.

 

San Giuseppe e i Cerealia

Altro interessante santo strettamente legato a ricordi pagani è Giuseppe, il padre putativo del Cristo. La festa del santo, che si tiene il 19 Marzo, ripropone in tutto il territorio nazionale dei temi comuni, tra cui il banchetto o “invito di San Giuseppe”, tradizione che vuole le tavole del paese imbandite con ogni bene, proprio ad rappresentare l’abbondanza, e il pane benedetto.
La festa del santo si sovrappone così, acquisendone le caratteristiche, alle feste pagane per l’arrivo della primavera e dei rituali per propiziare un buon raccolto. Sarebbe questo il ricordo della Dea dei Cereali, le cui prime tracce troviamo nella lontana Creta ove, per indicare le specie di grano si usava proprio la parola “Deai”, la cui etimologia ci ricorda senza alcun dubbio il nome della divinità.

Tradizioni simili le troviamo presso i Romani durante i festeggiamenti per Persefone e Kore, metafora del ritorno della natura, festeggiate durante i Cerealia, feste agricole ove folle festose eran uso lanciare noci, grano e dolci sulla processione in onore della Dea. Era così in onore della Madre del grano che venivano offerti cereali, pani, in una tradizione poi riassorbita da varie festività cristiane come appunto San Giuseppe. L’usanza del sacro pane è presente su tutto il territorio nazionale, soprattutto nel Centro Sud, ma davvero molto radicate sono le tradizioni siciliane, ove il santo è uno tra quelli più fortemente venerati nell’isola. Ecco che si manifesta prepotentemente il sincretismo cristiano, San Giuseppe va proprio ad attestarsi laddove il culto pagano per le divinità dei cereali era molto forte come testimonierebbe la presenza sull’isola del culto di Cerere, protettrice della Trinacria.

Successivamente, come è stato per tutte le altre festività, anche in questo caso il Cristianesimo ha effettuato un’operazione sincretica andando a sovrapporre al rituale pagano una propria tradizione. Ecco così che i banchetti e gli “inviti” di San Giuseppe deriverebbero dall’ospitalità che la Sacra Famiglia ricevette durante la sua fuga dall’Egitto mentre cercava di sfuggire ad Erode. Alimento tipico della festività sono i legumi e il famoso “pane di San Giuseppe”, un alimento che rende la festa un ponte tra le precedenti e le feste del “grano” dedicate al risveglio di Persefone di cui ci occuperemo in seguito.
La pagnotta diventa una vera e propria reliquia, in alcune tradizioni viene sbriciolata nei campi per assicurare fecondità, in altri casi nel caso di fortunali i marinai la gettano nelle acque per calmare le tempeste, molto più comunemente è utilizzata come cibo benedetto, un modo di assorbire quella scintilla di divino che è racchiusa nell’alimento. Della stessa matrice sono le frittelle o zeppole, il tipico dolce della festa, una specie di tarallo fritto che si avvicina molto a quei cibi rituali del Maggio. Anche in questo caso per dare una spiegazione al rituali pagano della “ciambella” ecco che viene introdotta la leggenda che pur di guadagnare qualcosa, proprio durante la fuga in Egitto San Giuseppe avesse fatto anche il venditore di frittelle, da cui il nomignolo popolare di “San Giuseppe frittellaio”.

Verrebbero così allestiti banchetti ed altarini, chiamati in vari modi a seconda del paese, cena, cummitu, artaru, tavulata, costituiti da assi di legno disposte a tre o cinque gradini addobbati con fiori, frutta e ricolmi di pani. Esso è dunque un banchetto ma anche un altare, in una mistica commistione di immagini che lega l’atto del nutrirsi a qualcosa di sacro. Tutto è regolato da un ben preciso rituale, in Sicilia la collocazione sull’altare dei pani spetta al capo famiglia, e ogni posizione sull’altare è ben codificata. Al centro, attorniato da pani a forma di cuore è la “spera” un pane dolce, nel centro dell’altare erano posti i “cucciddati” di enormi dimensioni, tanto che il Pitré descrive “essere così grandi che per mettersi in forno esigono lo allargamento della bocca di esso” , mentre nella parte più bassa si trovano i pani votivi destinati a parenti ed amici.
Il pane è così cibo e fonte di salvezza, un modo per cibarsi del divino e assorbire una scintilla di esso, raffigurato in forma antropomorfa proprio come nei rituali pagani. Ecco così che troviamo le più svariate forme, vegetali e animali, fiori, galli, conigli, fino a sembianze umane, i “pupi di San Giuseppe”, espressione dell’antropizzazione del divino. Se il pane è così cibo sacrale esso è anche reliquia, conservata per guarire malattie o per allontanare tempeste in mare come testimoniato da numerose tradizioni popolari marinare.

Altro interessante elemento del tutto simile alla tradizione di Sant’Antonio è la presenza dei fuochi di gioia, rituale che, proprio a causa dell’estraneità di Giuseppe con le malattie precedentemente descritte, avvalora lo strano legame tra tali falò e le tradizioni di fertilità dei campi. In tutta Italia vengono così accesi fuochi, in Molise, ed in particolare a Santa Croce di Magliano sono chiamati “Marausce”, in Basilicata troviamo i “focarazzi” di ginestre, come è abitudine nei paesi di Ripacandida, Castelsaraceno, Castel luccio Inferiore o Garaguso, mentre in Puglia troviamo i “fanoia” di San Marco in Lamis, nomi molto differenti tra loro ma che racchiudono un’idea comune: l’allontanamento del male e il risveglio della natura. Non è poi estraneo neanche il tema taumaturgico, ecco così il santo legato ad una importante malattia, la galattoforite. E’ questo un altro elemento che ci permette di legare il santo a quella divinità pagana femminile già descritta.
La leggenda narra che San Giuseppe chiese del pane ad una donna che glielo negò rispondendo che si stava pettinando. Il santo si strappò un pelo di barba lasciandolo cadere sulla mammella della donna che fu così colpita da tale malattia. Allora la donna chiese al santo di guarirla in cambio del fatidico tozzo di pane e Giuseppe disse “pilu di minna vattini di ccà, e ti ni venì ‘ntra la barba mia. Figghiolu a durmiri, mammella a ripusari” in una espressione che ricorda le formule magico-popolari, antiche testimoni di culti pagani mai dimenticati.

 

Autore: Andrea Romanazzi
Messo on line in data: Giugno 2005