RACCONTO: LA TARANTOLATA di Lilith

Storia di Santina “La Pazza”

Non fu Taranta, né fu Tarantella
Ma fu lo vino della garratella.
Dove te mozzicò dill’amata dove fu?
Sotto la Pudia della vunnella

 

Il sole sorgeva e Donna Santina, detta “La pazza”, si levava dalla sua alcova, spalancava la finestra per bere la luce e il vento, a piedi nudi si lanciava per il corridoio sino alla porta d’ingesso, con foga sollevava il chiavistello e schizzava fuori, correndo sul tratturo sterrato. Ad un certo punto, come se avesse udito un misterioso segnale, s’arrestava al centro del viottolo, in preda ad un’immobilità innaturale, fino a quando la danza non s’impadroniva di lei. Era sempre la prima ad arrivare al luogo del convegno, ma ben presto, alla spicciolata, s’univano frotte di donne.
Dall’animato consesso si levavano mugugni e lamenti quasi animaleschi, sempre più urlati e imperiosi, che si placavano solo all’arrivo dei musicanti, con il loro strumentario di violini, cornamuse, cimbali e tamburelli. Allora l’iniziale frenesia sembrava placarsi, ma solo per cedere il posto ad un’altra frenesia, più disciplinata e proprio per questo più potente, un terremoto di carne, di voci, di vibrazioni, di sudore. I musici ripetevano la stessa melodia incessantemente, scandita in modo ipnotico dai battiti dei tamburelli, che penetravano nel sistema nervoso e s’impadronivano della coscienza.

La volontà delle tarantolate soggiaceva al morso venefico del ragno. Ballavano dal sorgere del sole alle undici del mattino. Facevano delle pause non tanto per stanchezza, quanto per segnalare ai musicisti che i loro strumenti erano scordati. Il cessare della musica veniva allora accompagnato da singhiozzi e disperazione, che duravano fino a quando gli strumenti non venivano raccordati, ed allora riprendeva la danza. Verso al mezzogiorno, quando il sole era allo zenit e l’arsura diventava insopportabile, questo esercizio cessava e le donne venivano messe sotto le coperte perché espellessero il sudore, e rifocillate con brodo caldo o altro cibo leggero. All’una o al massimo alle due del pomeriggio, le tarantate riprendevano a danzare e continuavano incessantemente fino a sera. Salutavano così il sorgere della luna, che attraverso la musica muoveva le loro acque interne, fino a quando la risacca della danza non si placava naturalmente, con lo spegnersi degli accordi ormai logori.

Da quando aveva ricevuto l’iniziazione del morso, Santina ripeteva periodicamente questo rituale: la frenesia della taranta si risvegliava in primavera, vedeva il suo acme in estate, mentre nella stagione invernale la lasciava svuotata, in stato letargico. Danzare per lei era come volare in una dimensione di leggerezza euforica e di potenza. Ogni giorno, attraverso l’orgia della danza, viveva l’ebbrezza dell’orgasmo, che non si spegneva attraverso gli evanescenti sussulti del corpo, ma si amplificava attraverso i ritmi evocati dai musici, in un crescendo senza respiro, che mordeva la vita nel suo farsi e disfarsi. Perdendosi nel flusso cosmico, la sua vita personale si sfaldava, e non rivestiva più alcun interesse per lei. Si sentiva sempre più creatura della Terra e del Vento. Non poteva fermarsi, perché la Vita non si ferma mai, e lei era solo un Suo strumento.

Danzò anche durante tutto il 29 giugno 1649, che era il giorno della magia, come le aveva detto Don Giuseppe. Quella sera prolungò la danza fino a mezzanotte, perché era una notte di luna piena. Sentì il suo magnetismo salire, sino a raggiungere il suo culmine. Si ruppero le acque interne e Santina cadde al suolo con un grido. Rimase immobile, mentre le compagne formarono un cerchio attorno a lei, continuando a danzare in modo forsennato. Si sentì rotolare nel vuoto e amplificare in un moto a spirale. Ciò che sperimentò non poteva essere descritto a parole. Fu un immergersi nella Grande Acqua, fecondata dal Grande Vento. Toccò il punto in cui la Luce, nella sua massima intensità, si distendeva in ali di Tenebra. Dopo un tempo imprecisato, riaprì gli occhi e vide le compagne, paonazze in volto, brindare alla luna: “Lunga vita alla Dea!”, intonarono all’unisono e così l’accolsero nel grembo della Madre.

Da quel giorno, Santina, detta “la pacc”, ebbe fama di santità. Se ne dicevano tante sul suo conto: correva voce che compisse prodigi e guarigioni miracolose imponendo le mani. Ogni giorno vi era una lunga fila di pellegrini davanti all’ingresso della sua umile casa. Santina riceveva tutti con semplicità, dispensando speranza e amore. Ma ogni tanto, con cadenza stagionale il morso della taranta si risvegliava, e così ricominciava a danzare ininterrottamente al sole e alla luna. La gente non comprendeva quei deliri, ma tributava loro il rispetto che si prova di fronte al mistero. La fama di Santina la guaritrice si sparse anche fuori dal paese, e il suo seguito si estese a macchia d’olio. S’incominciò a parlare di lei nelle chiese, e nel popolo di Dio si diffuse la convinzione che fosse uno strumento della Grazia divina; le tante testimonianze che circolavano sui suoi miracoli ne erano la prova inconfutabile.

Infine, dopo essersi dedicata per molti anni alla cura del prossimo, Santina si spense serenamente in estrema vecchiaia. Si diceva che fosse morta in preghiera, anche se nessuno poteva dire con certezza chi avesse invocato mentre spirava. I maligni sostenevano che avesse dedicato una misteriosa litania alla Dea. Ma sul punto non si fece mai chiarezza.
E’ certo, invece, che fu avviata la procedura per la sua beatificazione. Non se ne hanno notizie attendibili, ed è pertanto verosimile che la pratica giaccia ancora negli archivi vaticani. Forse, dopo un numero imprecisato di anni, l’ecumenico olimpo cattolico avrebbe accolto un’altra santa.

 

Autore: Lilith
Messo on line in data: Gennaio 2006