RACCONTO: GRACE di Astfelia

Grace era rimasta orfana di padre quando era poco più d’una bambina e da allora non aveva fatto altro che assistere sua madre che era molto cagionevole di salute. Poiché gli unici beni lasciati in eredità dal padre erano la vecchia casa e un piccolo appezzamento di terreno affidato a un mezzadro, Grace non aveva mai conosciuto la vera agiatezza, né la serenità dell’adolescenza. La sua gioventù trascorreva tristemente al capezzale di sua madre, come del resto era inevitabile non avendo né fratelli, né sorelle che potessero aiutarla.
La giovane Grace se ne stava seduta accanto al letto della madre col ricamo in mano e la mente persa in un turbinio di sogni e di desideri: un marito giovane e bello, dei figli, una casa allegra e luminosa, tanto diversa dalla sua…
Ma come avrebbe potuto trovare uno sposo, se non poteva allontanarsi quasi mai dal suo posto presso la genitrice inferma?
“Ricama, ricama, Grace”, le diceva la madre con la sua flebile voce. “Così avrai un bel corredo per le tue nozze.”
“Sì, madre cara”, rispondeva la ragazza, senza convinzione.
Appena la madre si assopiva e non aveva bisogno di lei, Grace scappava via da quella stanza intrisa di malattia, correva verso il bosco che si apriva alle spalle del suo paese e si fermava in riva a un ruscello ad ascoltare il tranquillo mormorio delle acque. Qui le asrai, le fate dell’acqua, avevano cominciato a manifestarsi alla ragazza e a farle coraggio.
“Non perdere la speranza, dolce Grace”, le dicevano, affacciandosi alla riva e mostrandole brevemente i loro volti diafani, le loro fluenti chiome azzurrine. “Se continuerai ad essere buona, un giorno la vita ti sorriderà”.
Erano state le asrai ad insegnarle tutti i segreti delle erbe del bosco. Da loro Grace aveva imparato a ricavare delle medicine adatte a lenire i dolori di sua madre, a darle un po’ di sollievo.
“Ma quando, quando la mia vita potrà cambiare?”, chiedeva Grace alle fate, prima di tornarsene mestamente a casa sua, ma a questa domanda le creature dell’acqua non avevano mai risposto.
Il tempo passava e le condizioni della madre di Grace si aggravavano di giorno in giorno. Ormai la donna non poteva quasi più muoversi dal letto per la debolezza e per i dolori e si lamentava continuamente. Il medico del paese, che veniva sovente a visitarla, aveva tuttavia sentenziato che l’inferma non rischiava di morire in breve tempo. La sua era una malattia lunga e logorante che avrebbe potuto trascinarsi ancora per degli anni.
“Devi rallegrarti”, dissero le fate dell’acqua alla malinconica Grace. “Tua madre rimarrà in vita ancora a lungo.”
“Ma soffre molto e ormai non posso più lasciarla un attimo sola”, mormorò la ragazza, guardando la propria immagine riflessa nell’acqua limpida del ruscello.
I suoi lineamenti erano sottili e delicati, i suoi occhi grandi e profondi, ma i segni di stanchezza solcavano il suo volto, offuscandone la bellezza, le vesti informi e dimesse celavano l’armonia del suo corpo, una severa acconciatura raccoglieva strettamente la sua lunga chioma bruna. Il tempo stava passando su di lei, presto la gioventù sarebbe stata soltanto un ricordo…
Sospirando, Grace raccolse le erbe per preparare le medicine di sua madre, salutò le fate e si avviò in fretta verso casa. Sulla strada incontrò un mercante a cavallo che veniva da un paese lontano e che le chiese un’indicazione. Lei gliela fornì gentilmente e l’uomo osservò a lungo la modesta bellezza della giovane donna, i suoi grandi occhi scuri, e ne rimase affascinato. Grace colse quel lampo d’ammirazione nello sguardo dello sconosciuto, ma non ne diede segno. Lo salutò con un veloce cenno del capo e si allontanò, sapendo che il mercante sarebbe rimasto a guardarla finché non fosse scomparsa alla sua vista.
La madre di Grace morì improvvisamente nel sonno qualche giorno dopo. Il medico rimase sorpreso da quella fine repentina, ma sapeva che qualcosa può sempre sfuggire alla scienza medica. Probabilmente il cuore della povera donna aveva infine ceduto.
Ormai Grace era rimasta sola. Corse piangendo dalle fate dell’acqua, subito dopo i funerali di sua madre, e le chiamò dalla riva del ruscello, ma esse non vennero e da quel giorno non le si mostrarono più.
Pian piano Grace ricostruì la sua vita nella vecchia casa ormai in rovina, con la sua modesta rendita fondiaria.
Il mercante che aveva incontrato sulla strada poco prima che sua madre morisse si chiamava Jonathan e aveva deciso di stabilirsi in quel paese. Trascorso il conveniente periodo di lutto, prese a corteggiare la giovane donna di cui si era innamorato fin dal primo sguardo e in breve tempo le chiese di sposarlo. Grace accettò di buon grado. Non era innamorata di quell’uomo non più giovane e già un po’ appesantito, ma non le importava molto dell’amore. Ciò che contava per lei era poter cambiare in meglio la propria vita. Jonathan era un uomo onesto e abbastanza ricco, le avrebbe offerto una vita discreta, lontano da quella casa ancora impregnata dell’odore della malattia.
Il bambino di pochi mesi urlava nella culla. Dalla camera da letto, Jonathan gridava alla moglie di portargli dell’altro vino. Grace chiuse gli occhi, desiderando non vedere, né sentire più nulla. In poco tempo la sua vita era precipitata di nuovo in un abisso d’infelicità.
Jonathan aveva avuto vari rovesci di fortuna e aveva perso ingenti somme di denaro. Incapace di far fronte alla situazione, si era lasciato andare e aveva cominciato a bere. In quel periodo era venuto al mondo il loro bambino che avevano chiamato Martin.
Grace aveva sperato che la nascita del figlio avrebbe spinto suo marito a reagire e a smettere di bere, ma non era stato così, anzi le cose erano andate sempre peggio. Jonathan non aveva tratto alcuna gioia dalla nascita del bambino, ma piuttosto si adirava per il suo continuo piangere e beveva sempre di più, minando con l’alcol la propria salute già precaria.
Grace stava immobile al centro della cucina, tenendo in mano il boccale di vino che suo marito reclamava urlando. Le grida dell’uomo si sovrapponevano a quelle del bambino che non smetteva mai di piangere e Grace si sentiva impazzire. Sapeva che non avrebbe dovuto portare altro vino a suo marito, ma che se non l’avesse fatto, egli l’avrebbe nuovamente picchiata, come accadeva quasi ogni sera. Si diresse stancamente verso la camera da letto dalla quale ormai Jonathan non si muoveva quasi più, cercando di ignorare le urla strazianti di suo figlio.
Suo marito se ne stava semisdraiato sul letto disfatto.
“Alla buonora, donna!”, disse, strappandole dalle mani il boccale di vino che lei gli tendeva. Grace lo guardò con disgusto. Il suo forte odore di alcol misto a sudore le faceva rivoltare lo stomaco. Fece per allontanarsi, ma egli non glielo permise. La trattenne, tenendola saldamente per un polso, la tirò verso di sé, facendola cadere sul letto e, vincendo la sua disperata resistenza, la violentò.
Verso l’alba, lasciando il marito e il figlio finalmente addormentati, Grace sgusciò fuori di casa e corse nel bosco, al suo ruscello. Là si gettò riversa nell’erba e pianse tutte le sue lacrime, invocando le sue antiche alleate, le fate dell’acqua. Ma anche ora le asrai la ignorarono, non le diedero alcun segno della loro presenza e della loro pietà. Grace, sentendosi infinitamente sola, strinse fra le mani un ciuffo d’erba e dall’erba le parve di ricevere un briciolo di forza. Respirò profondamente, asciugandosi le lacrime col dorso della mano e cominciò a raccogliere con cura quelle erbe con le quali un tempo preparava le medicine per sua madre e di cui conosceva tutti i segreti.
Il marito di Grace morì qualche notte dopo nel sonno, dopo aver bevuto ancor più del solito. Il medico che venne a constatare il decesso non ebbe dubbi: erano stati gli eccessi d’alcol a stroncare quella vita.
Ora Grace era sola col suo bambino che non smetteva mai di piangere. Suo marito le aveva lasciato in eredità un cumulo di debiti. Per saldarli fu costretta a vendere la sua casa di sposa e a trasferirsi in quella di sua madre che ormai era poco più di un tugurio dalle pareti ancora permeate di malattia. Qui ricominciò la sua triste esistenza con il figlioletto, vivendo della sola rendita derivata dal modesto appezzamento di terreno lasciatole dai genitori.
Il piccolo Martin urlava di dolore, mentre la madre gli immobilizzava con due stecche di legno la gamba destra fratturata. Ormai Grace aveva imparato a immobilizzare i deboli arti di suo figlio, poiché il bambino soffriva di una rara malattia che rendeva le sue ossa molto fragili e soggette a continue fratture. Naturalmente il piccolo non poteva avere una vita normale, non poteva giocare con gli altri bambini, perché ogni urto e ogni caduta lo mettevano in serio pericolo. La madre non poteva mai perderlo di vista e lo teneva sempre in casa, ma a quattro anni Martin non sopportava già più quella prigionia che soffocava la sua infantile vivacità. Piangeva, piangeva tutto il giorno, perché voleva uscire a giocare con gli altri bambini e si agitava in casa, trovando il modo di farsi male comunque.
Al centro di questo nuovo incubo, Grace aveva adottato come abito mentale una finta rassegnazione alla sventura ma, nascondendolo al suo stesso cuore, continuava a sognare un marito e dei figli sani e allegri, una casa piena di luce, di profumi, di risate. Tuttavia lo strazio della sua esistenza dilaniava anche i suoi sogni più segreti, mentre il tempo passava su di lei, logorando inesorabilmente il suo corpo e il suo spirito.
Il giorno del suo quinto compleanno, Martin si arrampicò in cima alla credenza della cucina, mentre la madre era impegnata a rifare i letti.
“Mamma, mamma guarda dove sono!”, gridò euforico, ma quando Grace accorse era già troppo tardi e il fanciullo era ormai caduto rovinosamente a terra, fratturandosi entrambe le gambe, le braccia e due costole.
Il piccolo Martin era costretto a letto, nell’immobilità più totale e si lamentava piangendo e gridando senza requie giorno e notte. Ancora una volta nella sua sventurata esistenza Grace desiderò perdere la ragione per non doversi più rendere conto di tutto quel che la circondava. Le parve che le pareti della vecchia casa si ripiegassero su di lei, versandole addosso il loro eterno odore di malattia e di morte. Si sentì mancare il respiro e corse fuori di casa, ignorando i richiami del figlio.
“Anche se cadesse dal letto”, pensò piangendo “non potrebbe farsi molto più male di così e, se una buona volta si spaccasse la testa, sarebbe meglio”.
L’esasperazione le dettava quei pensieri e lei scoprì di non vergognarsene nemmeno un po’. Ancora una volta cercò tregua al suo affanno nel bosco, presso il ruscello, ma non invocò le asrai, certa che esse non le avrebbero risposto. Invece si aggrappò nuovamente all’erba e ai suoi oscuri segreti, riuscendo ancora a trarne vigore. Raccolse con cura le erbe che le servivano, poi tornò lentamente verso casa.
Pochi giorni dopo le grida strazianti del piccolo Martin cessarono, perché il fanciullo morì improvvisamente nel sonno, com’era successo a suo padre e a sua nonna prima di lui.
Il medico del paese in cuor suo provò sollievo per quella morte, sapendo che non si poteva augurare di vivere a quel povero bambino straziato da una devastante malattia che gli disgregava lentamente le ossa.
Grace era di nuovo sola, ma non c’era afflizione nel suo animo per la perdita del figlio. Il suo cuore desiderava chiudersi per sempre al dolore e aprirsi finalmente alla quiete e al sollievo.
“Sono sola e libera”, pensò Grace. “Forse non è troppo tardi per ricominciare a vivere”.
I sogni, i vecchi sogni d’una famiglia felice, d’una casa calda e serena le si ripresentarono, sovrapponendosi ai tristi ricordi del passato che continuavano a tormentarla. E di notte, fra il sonno e la veglia, le pareva di udire i lamenti della madre, le urla del marito, il pianto di suo figlio, le sembrava di vederli tutti e tre con i loro enormi occhi colmi di dolore e le bocche aperte nell’invocare il suo nome. Allora si svegliava ansante e madida di sudore, in preda a un terrore senza fine, e tutte le sue notti trascorrevano così, fra atroci incubi, mentre i suoi giorni si perdevano fra inerzia, solitudine e vane speranze.
Arrivò il giorno della festa annuale del paese e Grace, facendosi animo, si impose di parteciparvi. Forse avrebbe incontrato qualcuno, forse quel giorno la sua vita sarebbe cambiata…
Indossò il suo abito migliore, sebbene anch’esso fosse ormai consunto e fuori moda, si sistemò i capelli, poi si guardò attentamente nello specchio.
Sul suo volto segnato dalle lunghe pene si intravedevano solo rare vestigia della sua giovanile bellezza e fra i capelli bruni spiccavano già molti fili bianchi. Era come se l’immagine che le rimandava lo specchio le dicesse: “No, è troppo tardi per te”.
Grace gettò via lo specchio e corse fuori di casa, accecata dalle lacrime. Era troppo tardi, era troppo tardi per lei, non c’era più nulla da fare.
Dalla piazzetta del paese, il festoso vocio della gente si mescolò al tormentoso ricordo dei suoi cari estinti. Fuggì verso il ruscello nel bosco, verso l’aria pura, i vivaci colori dei fiori, il fresco mormorio dell’acqua che l’aveva sempre consolata. Sedette sulla riva, invocando un’ultima volta le asrai.
“Mie dolci fate, vi prego parlatemi”, le supplicò accorata. “Ho bisogno del vostro aiuto per trovare la forza di continuare a vivere.”
Allora i volti perlacei delle fate dalle chiome azzurre comparvero sotto la superficie dell’acqua e le loro voci non umane sussurrarono in coro: “Non possiamo aiutarti, Grace, le tue colpe sono troppo gravi. Se non riesci più a sopportarne il peso, ricorri ancora una volta alle erbe, come hai sempre fatto, ma stavolta fallo per te stessa.”
Le fate tacquero e svanirono e Grace sfiorò con la mano il tappeto d’erba, sapendo ancora una volta quel che doveva fare.
La trovarono morta nel suo letto alcuni giorni dopo. Sul comodino c’era un bicchiere che conteneva ancora qualche goccia di un potente veleno ricavato dalle erbe, lo stesso che Grace aveva usato per togliere la vita a sua madre, a suo marito, a suo figlio. In quel modo aveva posto fine alle loro sofferenze, desiderando soprattutto affrancare dalla sofferenza se stessa, ma ciò non le era stato possibile.
Grace non era mai stata religiosa e aveva sempre creduto che dopo la morte non ci fosse più nulla, nessuna forma di sopravvivenza ultraterrena. Invece, alle soglie dell’altro mondo, il suo spirito sbigottito fu accolto da un vecchio dal volto ilare e benevolo che le indicava la via da seguire.
“Allora esistono gli angeli…”, pensò Grace, cominciando a nutrire la speranza che un mondo migliore le stesse schiudendo le sue porte auree.
“Vieni, Grace”, le disse dolcemente il vecchio. “Non devi aver paura, loro sono qui, ti stanno aspettando…”
Le mostrò tre piccole stanze contigue con tre letti, in ciascuno dei quali giaceva un’ombra scura. E tre voci distinte risuonarono nei regni silenziosi della morte:
“Figlia mia, ho bisogno di te, mi sento male!”
“Moglie, portami da bere, sto male!”
“Mamma, stai vicino a me, ho tanto male!”

 

Autore: Astfelia
Messo on line in data: Gennaio 2006