RACCONTO: ILDEGARDE di Astfelia

Dalla carrozza, la giovane Ildegarde assisteva al duello col cuore in tumulto. Era accorsa sperando di fermare i due contendenti, ma era arrivata troppo tardi, la tenzone era già al culmine. Sapeva che il suo Bertran era un maestro della spada, ma la furia dell’avversario la terrorizzava. Egli roteava la sua arma lanciando urla rauche, prima di gettarsi contro il rivale. E c’era sempre quel ghigno di maligno piacere sul suo volto bruno. Ildegarde sapeva che egli era certo di vincere.
Il duello le parve protrarsi per un tempo infinito, in quella gelida alba sfumata di bruma. Si sentì quasi venir meno, vedendo Bertran schivare miracolosamente una stoccata, e socchiuse gli occhi per un poco, rivivendo in quegli attimi tutto il suo recente passato.
Era felice perché le sue nozze con Bertran erano ormai prossime. La sua famiglia di antica origine sveva aveva acconsentito, la potente famiglia di Bertran aveva dato a sua volta l’approvazione e ora le due nobili casate erano riunite nel palazzo in Aquitania, in cui Ildegarde era nata, per festeggiare il fidanzamento dei due giovani. Molti nobili erano presenti. I due promessi sposi avevano aperto le danze guardandosi teneramente negli occhi. Bertran era biondo e bello, in lui la dolce Ildegarde aveva trovato il suo sole e ora desiderava soltanto brillare di luce riflessa per tutto il resto della sua vita. L’avvenire non poteva apparirle più roseo ma, mentre danzava con Bertran, aveva avvertito uno sguardo insistente su di sé, uno sguardo sfrontato che non si staccava da lei. Lo aveva guardato, spiandolo di sottecchi e lo aveva riconosciuto: lui, il conte Roland, intrepido cavaliere del re.
La fissava con un sorriso scanzonato che si accentuò quando i loro sguardi si incontrarono. Ildegarde aveva provato una violenta sensazione nell’incrociare quegli occhi neri, piccoli come fessure. Il volto angoloso dell’uomo, incorniciato da un’incolta chioma corvina, non era bello e le parve animato da una luce perversa. Distolse subito lo sguardo, turbata.
Fu allora che tutto cominciò. Ildegarde era una giovane donna esile, dai lunghi capelli di rame e l’incarnato chiarissimo, molto bella. Era abituata agli sguardi ammirati degli uomini, ma nello sguardo di Roland aveva percepito qualcosa di più dell’ammirazione, qualcosa che la sgomentava. Quella stessa sera egli era sotto le sue finestre. Lo riconobbe, quando si affacciò per ammirare le stelle, nell’ombra nera che attraversava velocemente il cortile. Prima di ritirarsi frettolosamente e di chiudere la finestra, intuì il suo sorriso e i suoi gesti: un profondo inchino e un bacio sulla punta delle dita.
Non lo disse a nessuno e di ciò ebbe a pentirsi, non lo disse né a Bertran né ai suoi genitori, nemmeno in seguito, quando la presenza di Roland sotto le sue finestre divenne la consuetudine di ogni sera.
Egli era abile a non farsi scorgere dalle guardie e dai servi. Se ne stava lì, immobile nel silenzio, nera figura confusa con le tenebre. Di certo si sentì incoraggiato dal di lei fuggevole mostrarsi alla finestra e cominciò a parlarle sommessamente, sussurrandole parole d’amore e versi di poeti.
“Siete la fulgida scintilla del mio desiderio, Ildegarde”, le diceva ogni sera, anche dopo che lei era scomparsa dietro le tende chiuse. “Non bramo che voi…”
Lei non gli rispose mai una sola parola.
In una mattina assolata, all’improvviso, il conte le si fece incontro al limitare del grande parco che circondava il palazzo, mentre la giovane passeggiava insieme alle sue dame di compagnia. Le dame gridarono, ritraendosi spaventate. Ildegarde rimase immobile sfidando col suo sguardo d’ambra quel sorriso sfrontato. Roland accennò un inchino, poi con incredibile rapidità la prese fra le braccia e tentò di baciarla. Lei si divincolò rabbiosamente, senza poter tuttavia evitare che le avide labbra dell’uomo sfiorassero le sue. Egli, ridendo, fuggì fra gli alberi, e si dileguò con la stessa velocità con cui era comparso.
L’oltraggio era troppo grave e ormai Ildegarde non poteva più tacere. Bertran sfidò immediatamente a duello il conte Roland e ora i due rivali erano lì, nella nebbia densa della mattina invernale, a battersi per lei.
Ildegarde si sentiva attanagliare il cuore dai sensi di colpa, ma ormai non c’era modo di fermare quel duello. Riaprì gli occhi, si costrinse a guardare. Lo scenario le parve mutato. Sebbene Roland fosse un campione della spada, ora non stava combattendo al suo meglio. Il giovane Bertran riusciva a schivare i suoi assalti poco convinti e aveva iniziato ad incalzarlo. Era come se Roland avesse preso a fingere, anche le sue urla risuonavano false. Ildegarde pensò con terrore che forse egli stava solo giocando come il gatto col topo e che, da un istante all’altro, avrebbe dato sfogo a tutta la sua ferocia. Allora Bertran sarebbe stato perduto.
Inaspettatamente Roland arretrò, schivò con distrazione due colpi di Bertran, fece qualche finta e si volse verso la carrozza, gridando: “Ildegarde, io vi amo, ma voi non sarete mai mia, vero?”
Lei si ritrasse atterrita all’interno della carrozza. Bertran, ancora più infuriato per le ultime parole dell’avversario, approfittò della sua noncuranza e sferrò il colpo mortale. Ferito in pieno petto, il conte Roland lasciò andare la sua spada, compagna di tante battaglie vittoriose, e sorrise, mormorando: “Non ha senso vivere, né morire.” Poi cadde a terra morto.
Era incredibile, ma vero: il grande Roland si era lasciato uccidere e Bertran era salvo. Il sollievo e la sorpresa si avvicendarono nel cuore di Ildegarde nei giorni successivi. La giovane insistette per presenziare ai solenni funerali del conte Roland, celando un fiore per lui in una mano, un bocciolo di rosa bianca che lasciò cadere a terra dopo che il rito funebre fu terminato.
Si sentiva triste e svuotata, il gelo di quella mattina in cui grandi nubi di neve attraversavano il cielo le era entrato nell’anima.
“L’ho incoraggiato”, pensava con rammarico. “Se io non fossi andata alla finestra, se avessi chiamato le guardie fin dalla prima sera, forse ora lui non sarebbe morto.”
Il senso di colpa si trasformò in breve in qualcosa di molto simile a un dolore sordo.
Nel giorno delle sue splendide nozze la giovane Ildegarde era una sposa tanto bella quanto triste. Nessuno, tuttavia, si accorse della sua segreta mestizia, perché lei seppe nasconderla molto bene, e così iniziò la sua vita di moglie fra gioia simulata e inconfessato rimpianto. Bertran, dal canto suo, non poteva immaginare le inquietudini della sua sposa. Per lui Roland era ormai solo un occasionale ricordo, l’orgoglioso ricordo di un nemico sconfitto.
Passò del tempo. Ildegarde cominciò a sognare Roland quasi ogni notte. Nei sogni egli la guardava e le sorrideva, ma non rispondeva alla sua accorata domanda, quella domanda che la tormentava in modo ossessivo: “Perché ti sei lasciato uccidere?”
Era questo che il cuore inquieto di Ildegarde non riusciva ad accettare: che quel nobile cavaliere all’apice della gloria avesse scelto di morire per lei.
Ildegarde voleva trovar pace e pensò che l’unico modo fosse andare a visitare il sepolcro del conte. Adducendo un pretesto col marito, vi si recò da sola, una mattina.
L’inverno ormai scemava lentamente verso la primavera, ma l’aria non si era addolcita e il gelo tesseva ancora i suoi ricami sull’erba. Ildegarde rabbrividì nella sua pesante veste di lana dalle ampie maniche, ma continuò ad avanzare decisa nella nebbia mattutina col suo fascio di rose bianche fra le mani. Giunse al sepolcro e sostò a lungo presso la lapide, dopo avervi deposto le rose.
“Perdonami Roland”, sussurrò con gli occhi velati di lacrime. “Io non volevo la tua morte.”
Restò per un poco in silenzio, come in attesa d’una risposta. Era andata in quel luogo con la segreta speranza che lo spirito di Roland le si manifestasse e placasse il suo delirio, ma le rispose soltanto il silenzio nudo della morte.
“E’ tutto vano”, pensò tristemente Ildegarde. “Non può esserci alcuna comunicazione fra vivi e morti. Essi sono lontanissimi, persi nel nulla per sempre.”
Da quel giorno il suo animo sprofondò in un’angoscia ancora maggiore. La giovane donna non aveva più pace e cominciò anche a rifiutare il cibo. Il marito, in ansia per lei, mandò a chiamare vari medici, ma nessuno di loro riuscì a diagnosticare la misteriosa malattia della castellana.
Ildegarde cercò di rassicurare il marito, gli disse che il suo turbamento era dovuto al non aver ancora concepito un figlio, che non c’era altra pena nel suo cuore, che nessuna malattia l’affliggeva. In realtà il suo unico desiderio era tornare alla tomba di Roland e, per quanto si sforzasse d’ignorarlo, non vi riuscì.
Infine si recò di nuovo al sepolcro.
Presso la lapide, le sue rose bianche stranamente erano ancora intatte, ma appena lei si avvicinò, i petali cominciarono a staccarsi dagli steli e a volteggiare nell’aria fino a formare una bianca spirale che prese a turbinare intorno al corpo della donna. Trasognata, lei stava immobile al centro di quella girandola di petali che sfioravano le sue vesti, come a volerla accarezzare. Era un segnale, una risposta, Ildegarde lo sapeva.
“Egli gradisce la mia presenza qui”, pensò felice, allargando le braccia e alzando lo sguardo al cielo, avvolta nella danza dei petali di rosa. “Tornerò qui ogni giorno!” E il suo cuore si schiuse finalmente al sollievo.
In quel momento seppe di essere incinta.
Passò del tempo e, malgrado la gravidanza, il corpo di Ildegarde si assottigliava sempre più. Per recarsi ogni giorno alla tomba di Roland ormai non aveva quasi più bisogno di camminare, era il vento che la portava con sé. Sostava sempre più a lungo presso la tomba, invocando in silenzio lo spirito che lei bramava e che tuttavia non le aveva più dato alcun segno.
Tuttavia una mattina trovò una bella bambina tutta vestita di bianco, seduta presso la tomba.
La bimba la guardò con i suoi tristi occhi cerulei, identici a quelli di Bertran, e le tese una rosa bianca. Sorpresa, Ildegarde si chinò su di lei per prendere il fiore, ma quando aprì le labbra per parlare alla bimba, lei svanì. Ildegarde ebbe un capogiro e cadde svenuta sulla lapide. Restò riversa a lungo, in preda a un sogno.
Si trovava al centro d’una grande sala lucente di candelabri d’argento e un armonioso suono d’arpa le arrivava all’udito. All’improvviso le appariva Roland. Le regalava il suo sorriso scanzonato, si inchinava profondamente e la invitava a danzare. Lei si muoveva con grazia, seguendo la musica, con gli occhi persi in quelli di lui ed egli finalmente rispondeva con voce roca alla sua antica domanda: “Mi lasciai uccidere, mia Ildegarde, perché ero stanco. Stanco di me, della mia stessa gloria, e avido solo di te che non potevo avere. Ma, morendo, spregiai la morte insieme alla vita, così entrambe mi rifiutarono e ora vago solo fra vita e morte, aspettando te. Vieni con me, Ildegarde, saremo insieme per sempre…”
“Sì, Roland, sì…”, sussurrò Ildegarde, rinvenendo.
Il sogno svanì e lei tornò faticosamente a casa. Si sentiva distrutta e quella sera stette molto male. L’indomani seppe d’aver perso la sua bambina. I medici la costrinsero a restare a letto, il marito si mise al suo capezzale per vegliarla amorevolmente. Ildegarde non smetteva di piangere e non pronunciava una sola parola. Ma non piangeva per la perdita della sua creatura, piangeva per non essere potuta andare, quel giorno, alla tomba di Roland.
A notte fonda il sonno colse Bertran.
Facendo appello alle sue ultime forze, Ildegarde si alzò dal letto, corse allo scrittoio, vergò in fretta alcune righe, poi fuggì via.
Al sepolcro di Roland tutto era solitudine e silenzio. Ildegarde attese, immobile e sospesa. Il suo respiro era sempre più debole e infine le mancò. Stava per cadere a terra, quando due braccia forti, la sorressero. Alzò gli occhi, prima che la luce li abbandonasse, incontrando lo sguardo cieco di Roland. Svanirono nel buio in un convulso abbraccio, smarrendo il proprio essere per poi ritrovarlo e perderlo di nuovo…
“Mio dolce Bertran”, diceva il breve biglietto lasciato da Ildegarde a suo marito. “Non sono mai appartenuta né a te, né a questo mondo, per questo ora vado via, verso un regno senza nome, dove la vita si confonde con la morte. Perdonami e non piangermi. Ildegarde”

Autore: Astfelia
Messo on line in data: Gennaio 2006