WILLIAM BLAKE di Redazione

Blake e l’immaginazione esoterica

Spirito ribelle, anticonformista e visionario, William Blake si impose sul panorama culturale del XVIII secolo come caposcuola del pensiero romantico inglese.
Fin da piccolo guardò al mondo attraverso quello che Wordsworth nella sua Intimations of Immortality avrebbe chiamato, qualche anno più tardi, visionary gleam (barlume visionario). La sua personalità, complessa ed emblematica, germogliò fin dalla più tenera età, lasciando perplessi quanti, col bambino, venivano a contatto: ad appena nove anni, per esempio, l’artista confessò ai suoi genitori di aver visto un albero popolato da angeli, durante una delle sue passeggiate; qualche anno dopo raccontò di aver assistito alla scena di alcuni angeli che camminavano in un campo di fieno.

Nacque a Londra il 28 novembre del 1757 e mostrò, fin da subito, un talento artistico che il padre incentivò con ardore. All’età di dieci anni cominciò a frequentare la scuola di disegno di Henry Pars nello Strand e, portati a termine gli studi, iniziò l’apprendistato di incisore nello studio di William Ryland, uno degli artisti, a quel tempo, più noti. I pessimi rapporti col suo maestro condussero però Blake ad abbandonare Ryland per entrare nello studio di un altro incisore, meno noto ma a lui più congeniale: James Basire.
Qui lavorò per circa sette anni, apprendendo le tecniche classiche e sperimentandone di nuove e personali grazie alle quali, più tardi, si definì a ragione uno dei migliori artigiani di tutta Inghilterra. Fu Basire a commissionargli dei lavori per l’Abbazia di Westminster e fu in questo periodo che lo scrittore-pittore si entusiasmò per l’arte medievale e per quella gotica.

La sua passione per l’arte produsse presto i primi frutti e Blake divenne incisore al servizio di diversi editori, quali Thomas Macklin, Harrison e Joseph Johnson. Mentre lavorava come incisore si preoccupò anche della sua formazione come pittore, frequentando la Royal Academy of Art’s Schools of Design ma, perfino come studente, rimase fedele alla sua personalità ribelle e, nelle scelte artistiche, non smise mai di seguire il suo gusto personale. Quando, infatti, il custode della Royal Academy gli consigliò di studiare artisti dello spessore di Lebrun e Rubens – piuttosto che i lavori “rigidi” ed “incompleti” di Raffaello e Michelangelo – il giovane Blake replicò: “Questi lavori che tu definisci completi non sono mai stati nemmeno cominciati”.

Nella prima opera letteraria, i Poetical Sketches (1783, Schizzi Poetici), l’autore diede voce ad una musa ispiratrice dai toni freschi, originali e gioiosi, ma anche ad una tecnica scrittoria attenta alle metriche e alle tematiche stilistiche del suo tempo. Quando l’anno dopo il padre morì, Blake accolse nella sua casa il fratello minore Robert il quale, disgraziatamente, morì di tisi nel febbraio del 1787. Anche in questa triste occasione Blake raccontò di aver avuto una visione, in cui “lo spirito libero del fratello ascendeva verso il cielo, applaudendo per la gioia”.
La figura di Robert continuò ad ossessionare Blake, il quale si convinse che il fratello defunto gli apparisse per aiutarlo a risolvere i problemi relativi ad una nuova tecnica di stampa: ciò che premeva a Blake era, infatti, di “fondere” testi poetici ed illustrazioni su una medesima lastra, elaborando un nuovo metodo di stampa che rendesse possibile l’operazione. Egli battezzò questa tecnica “stampa miniata” e ne fornì un primo esempio nella raccolta poetica Songs of Innocence (1789, Canti dell’innocenza), nella quale la libertà della prosodia si combinò felicemente con un lirismo intenso e carico di emozioni. Pur figurando come testi semplici dall’aspetto ludico, le Canzoni presero in considerazione alcuni aspetti della società adulta dell’epoca.

A questo componimento, nel 1794, si affiancarono le Songs of Experience (Canti dell’Esperienza), in netto contrasto coi Canti dell’Innocenza, a causa dell’atmosfera cupa, greve di mistero e di senso del male, espressione di ribellione assoluta alle leggi morali. Secondo l’artista, le due opere illustravano esattamente gli “stati opposti dell’animo umano”: i primi furono, così, meditazioni sull’infanzia e i secondi, che comprendono il famoso “Tyger, Tyger”, finirono con l’identificare l’innocenza perduta dell’età adulta.
Fra queste due raccolte poetiche si colloca il più importante fra i lavori in prosa di Blake, The Marriage of Heaven and Hell (Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno), pubblicato nel 1793 come libro miniato. Si tratta di una complessa opera filosofica in cui l’autore esprime la rivolta contro i valori consolidati della sua epoca e cerca una mediazione tra le antinomie della vita.

Nel frattempo Blake non nascose il suo appoggio morale alle rivoluzioni americana e francese, in onore delle quali scrisse America (1793) e Europe (1794). A queste opere si affiancarono i famosi “libri profetici” – The Book of Thel (1789), The book of Urizen (1794), The Book of Ahania (1795), The Book of Los (1795), Milton (1804), Jerusalem (1804) – e The four Zoas (1795-1804, I Quattro Zoa) in cui Blake, che aveva affidato agli impulsi dell’uomo la capacità di liberare dalla tirannia della ragione e della legge morale, tornò ad una concezione cristiana in cui Dio e Satana interferivano con le azioni degli uomini.
Nel 1809 allestì una mostra nella casa natale, ma fu un vero flop: a cinquant’anni, quindi, Blake cominciò con l’apparire agli occhi del mondo un fallito.


Nell’immagine a lato,
“L’Eterno” (o “La vecchiaia”) di William Blake, una delle sue opere più note

Gli anni seguenti, infatti, furono tormentati e strazianti per il cuore del poeta-pittore, aggravati dalle pesanti difficoltà economiche che egli riuscì ad affrontare solo grazie all’appoggio del devoto Butts. Nel 1818 l’incontro col mecenate John Linnell, all’epoca ritrattista e paesaggista di un certo successo, gli regalò un periodo relativamente sereno e produttivo, durante il quale iniziò a lavorare alle tavole per Il libro di Giobbe e per la Divina Commedia, lavori però rimasti incompiuti a causa della morte avvenuta per itterizia. Blake diede il suo ultimo respiro il 12 agosto del 1827, all’età di sessantanove anni e fu sepolto nel cimitero di Bunhill Fields il 17 agosto.

Ancora fino a pochi anni fa, William Blake era conosciuto prevalentemente per la sua visionarietà e per il suo spirito eccentrico; di conseguenza, spesso, la sua poesia visiva veniva spesso ed ingiustamente svalutata. Come ricorda D’Alonzo:

La critica letteraria era quasi unanime nel rintracciare nella sua poesia il filo rosso che la univa con i grandi poeti romantici inglesi, come Byron, Shelley, Keats, facendo così di Blake un antesignano pre-romantico, se non addirittura uno dei primi esponenti della corrente”.

Nel Novecento si andò, invece, abbozzando una chiave di lettura complementare, che non dimenticava di certo la natura immaginifica della poesia di Blake, ma che considerava i germi del successivo “Io poetante” ottocentesco, sotteso da suggestioni derivanti da un fascino occulto. T.S. Eliot fu uno dei precursori che tentò di valicare l’idea riduttiva del “Blake visionario” e vi avvide le inclinazioni ad una letteratura mitologica. Tuttavia perfino Eliot circoscrisse la sua interpretazione nei limiti della sua credenza cristiana e non riuscì a cogliere, a mio parere, il vero senso delle visioni mistiche di Blake. Egli affermò, infatti:

La sua filosofia, come le visioni, l’intuizione e la tecnica, gli apparteneva naturalmente. E, di conseguenza, era incline ad attribuire a ciò più importanza di quanto non debba fare un artista: questo lo rende eccentrico e lo porta a cadere in espressioni prive di forma”.

Uno studio accurato del background culturale e scolastico di Blake non può non tener invece conto della sua educazione esoterica, approfondita sui testi di Swedenborg, di Böhme, di Alchimia e Cabala. Non va nemmeno dimenticata la sua partecipazione alla Società dei Rosacroce, che studiò con attenzione e cura. L’abisso, colorato da luci ed ombre, che sembrava fagocitare ogni singolo sentimento dell’animo del poeta, scorreva su un orizzonte magico e modellato da un linguaggio forse astruso ma profondamente accattivante, eredità delle suggestioni esoteriche in cui Blake credeva profondamente. Questo diventa palese se si confronta, per esempio, la sua vita concreta – così, forse, monotona e scandita da pochi eventi importanti – con quella interiore, in cui l’impasto di emozioni, entusiasmo e fervida passione, ne fece uno dei letterati più entusiasti di tutta la sua epoca. Come ricorda Raffaele Iannuzzi: “Le visioni di Blake, dunque, sono aspetti mitici e, ad un tempo, biblici del tutto interconnessi: l’uomo contiene in sé la notte dei dèmoni e la luce della salvezza”.
Se ci si addentra nel simbolismo intrinseco di una delle sue opere più piacevoli, The Book of Thel, il linguaggio di Blake risulta qui fortemente evocativo, in una commistione di tinte forti e frammenti arcani, e sottende una chiara lezione di filosofia umana. Quello che Pietro Prini definisce “il lato notturno dello spazio mistico” si evidenzia come sigillo di un’iniziazione sui generis, in cui l’uomo e la sua condizione acquistano un supervalore rispetto alla noiosa perfezione di un angelo. Il Libro di Thel si prefigura, così, in perfetta armonia col pensiero esoterico di Blake – secondo il quale Bene e Male concorrono in egual misura alla ricerca della verità – ma anche come un meraviglioso tramonto degli dei a favore di un’alba dell’uomo.

Autore: Redazione
Messo on line in data: Marzo 2006