IL RITORNO DEL DIO CHE BALLA di Andrea Romanazzi

Il ritorno del Dio che balla. Culti e riti del Tarantolismo in Italia di ANDREA ROMANAZZI
Venexia Edizioni, Roma, 2006
www.venexia.it

 

Il Ritorno del Dio che balla tratta di un fenomeno antichissimo: il tarantismo (o tarantolismo), che affonda le proprie radici tra le ataviche paure dell’Uomo Antico che vede il Dio Vegetazionale, resosi immanente nella pianta, perire per mano propria e che dunque ha timore che la stessa divinità, offesa ed usurpata, si vendichi con tutta la sua forza. E’ il momento in cui si genera la mistica crisi umana, è il contadino stesso, in realtà, causa della morte del Dio falciato e dunque della sua stessa disperazione, ponendo termine alla vita vegetale e così prostrandosi alla punizione del dio.
Unica soluzione è la ricerca di un capro espiatorio, l’animale sacro che, come novello agnello, possa lavare dalle ataviche colpe e nascondere il misfatto camuffandolo e trasformando l’uomo da assassino in assassinato. Sarà così che nel corso della pagine del libro ci imbatteremo in antiche divinità e numerosi animali totemici, come il lupo, il toro, la capra, il coniglio, espressioni essi stessi dell’immanenza del divino ed allo stesso modo colpevoli esecutori della morte del dio. Sarà durante questo excursus che giungeremo al cospetto dell’aracnide, la mistica Taranta dal duplice aspetto: espressione del Nume che deve esser ucciso, ma anche temibile capro espiatorio sul quale riversare le ancestrali colpe.

 

Dall’introduzione:
Nell’ultimo decennio, finalmente sotto la spinta di una nuova ricerca delle origini, si assiste a un ritorno alle antiche tradizioni popolari, a quei ricordi di un mondo regolato da leggi ove la vita era scandita dal susseguirsi del giorno e della notte, dall’apparizione di un frutto o dallo sbocciare di un fiore, dall’arrivo di uno stormo di uccelli e dal loro tipico cinguettio, dal momento della semina e da quello del raccolto, dall’avvizzirsi e dal successivo rinverdirsi delle foglie del vecchio noce. E’ in questo mondo antico che affonda le proprie radici il Tarantismo, ricordo di vetusti rituali mai del tutto cancellati, espletati nel “bosco della rimembranza”, dove il dio silvano, imperterrito, continua a danzare.

Anche la nostra epoca ha certo le sue contraddizioni e le sue colpe, ma oggi la tradizione, dopo il violento impatto dovuto all’avvicendarsi delle varie religioni, dopo essere scampata all’illuministico e “perbenistico” periodo in cui tutto ciò che era legato al campo, e dunque alla vita agreste, era disdicevole o almeno indice di scarsa cultura, sembra fortemente rinvigorirsi. Quando la “pianta” sembrava ormai ingiallire e morire, ecco che, coltivata nuovamente dai propri figli, improvvisamente mette gemme e foglie; quando sembrava cancellata e sommersa dalle onde della dimenticanza, ecco che rinverzica sull’antico, sempre pronto a rinascere perché continuamente è stato nutrito, anche se spesso solo inconsciamente. E’ questa la riviviscenza della tradizione.

Non è solamente sopravvivenza o ricordo, l’immagine di un qualcosa di oramai morto che permane solo nella narrazione e non più nell’anima dell’uomo; non è la reminiscenza, relitto superstizioso che perdura nelle “genti villane”: è la rinascita di una manifestazione che mai ha abbandonato i nostri cuori. Nel generale riavvicinamento alle culture tradizionali, si nota una curiosità sempre più crescente verso uno strano quanto mal definito fenomeno, quello del Tarantismo, che forse rimane troppo spesso legato all’idea della danza, che ne costituisce comunque una parte notevole, per dare un’idea completa del rituale. Spesso lo si fa derivare dalle credenze greche che influenzarono quella terra salentina nota anche come Greca, in realtà lo stesso mondo classico ereditò il fenomeno, lo conobbe, lo tollerò, in qualche modo lo adattò alle proprie esigenze, tentando anche di cancellarlo, considerandolo come pura sopravvivenza, a sua volta, di un paganesimo primitivo.

Sono i “paganalia sacra” di Plinio, subdole superstizioni e grossolane credenze messe sempre in ridicolo dai dotti del tempo, di qualunque epoca si trattasse, ma in realtà mai sconfitte, mai cancellate, tanto che ci si dovette inchinare, piegare al loro volere, perché davvero provenienti dall’intimo sentimento umano. Le origini del Tarantismo affondano così nella notte dei tempi, tra le spire di quella crisi umana che uccide il suo dio e che, dunque, ha timore che la divinità stessa, offesa e usurpata, si vendichi con tutta la sua forza. L’antico va alla ricerca di un capro espiatorio, fino all’apparizione dell’animale sacro, che, come novello agnello, lava dalle colpe ataviche. Sarà così che ci imbatteremo negli animali dei campi, il lupo, il toro, la capra, il coniglio, espressioni essi stessi dell’immanenza del divino e allo stesso modo colpevoli esecutori della morte del dio, come avviene nei campi quando tali animali, rosicchiando, calpestando, possono rovinare la pianta. Ma la punizione è in agguato, l’onta al dio non si lava facilmente: ecco che molte tradizioni, quando per esempio un mietitore si ammala, giustificano l’evento dicendo che “il cavallo bianco gli passa vicino”, o ancora che “ha la cagna bianca”, oppure, e questo è il riferimento più esplicito, che “la cagna bianca lo ha morso”.

Siamo di fronte a un rituale di possessione, una cerimonia nel corso della quali gli adepti incarnano entità sovrannaturali. E’ in questo momento che avviene la discesa di un demone/genio nel corpo del posseduto, il “malato” diviene giumenta del dio che la incarna, un termine dai risvolti anche erotici, una “cavalcata” che spesso ha anche significato dell’atto sessuale mimato dalla danza e dai furibondi movimenti. E’ l’esser-agito-da, e l’unione con l’entità può concludersi con l’allontanamento di questo (esorcismo) o con la sua collaborazione (adorcismo). Ovviamente quando parliamo di Demone, ci riferiamo al Daimon della tradizione greca, un essere espressione intermedia tra l’uomo e la divinità, ed è qui che fa la sua comparsa l’aracnide, la mistica taranta, la vendetta del dio verso l’uomo che, non senza crisi, si fa esecutore della morte divina. Questa, seppure ancora nascosta, è l’idea del passaggio della crisi: nascondere il misfatto camuffandolo, trasformandosi da assassini in assassinati, da boia in vittime. Questa l’intima essenza della taranta e del suo morso, l’immagine delle ataviche paure umane, ove musica e ballo altro non diventano che semplici tecniche per distogliere l’attenzione da qualcosa di ben più grave, una colpa repressa ma mai cancellata, quel timore reverenziale verso un qualcosa che garantisce la vita della comunità che non è mai sparito, neppure nell'”irrazionale illuminismo” dei tempi odierni.

Ecco il perché dell’universalità mediterranea, seppur in forme differenti, della tradizione: a nulla servirà la “esorcistica presenza”, tra i diafani fili del ragno, di san Paolo o di san Domenico: l’aracnide continuerà a mordere finché l’uomo, attanagliato dalle proprie paure, vedrà nel proprio comportamento distruttivo il seme del Peccato originale, la mela raccolta e rubata dal corpo del dio vegetazionale, smembrato e privato del suo stesso frutto. L’uman dolore si rende così manifesto attraverso la musica, da sempre l’elemento topico di un rito o di una tradizione. Basti pensare ai ripetitivi e ossessivi ritmi d’Africa, per non parlare della “bassa musica” immancabile in ogni festa popolare del nostro paese. E’ dunque il suono che rende sacro l’evento, e che riesce ad alleviare le “colpe” umane. Così Dante, rivolgendosi a Casella, nel Purgatorio fa dire:

Se nuova legge non ti toglie memoria od uso a l’amoroso canto che mi solea quetar tutte le doglie, di ciò ti piaccia consolar alquanto l’anima mia che, con la sua persona venendo qui è affannata tanto“[1] e D’Annunzio, qualche secolo dopo, ripropone l’idea nel suo “dolce cantare spegne ciò che nuoce“.[2]

Musica e danza diventano allora il tramite con il mondo numinoso, la mutevole via che conduce all’estasi primordiale della circolarità. Tra le spire dell’Eterno serpente, come novelli nati testimoni della Teofania primordiale, l’Antico dio continua a offrire il Frutto ai suoi figli, che timorosi lo colgono. E all’apparire della crisi stagionale, all’ondeggiare delle spighe di grano al soffio del vento, l’uomo vedrà il ritorno del “dio che balla”, e con lui ballerà fino allo scomparir del chiaror di luna, quando avrà finalmente termine l’estenuante “Notte della taranta” (Recensione di Titti Fumagalli).

 

1] Dante, Purgatorio, II, 106-111.
2] D’Annunzio G., Francesca da Rimini, Atto IV, Scena II.

 

Andrea Romanazzi, laureato in ingegneria civile con indirizzo Geotecnica e specializzato in Ingegneria della Sicurezza, da più di tredici anni si interessa a varie discipline, come l’antropologia e l’archeomitologia. Si occupa, effettuando ricerche sul campo, di manifestazioni religiose, magico popolari e folklore, quello che ritiene essere quod superest di una cultura millenaria oramai persa. Interesse principale è la ricerca delle tracce dell’antico culto della Dea Madre e le sue evoluzioni tra storia, mito, religione e tradizioni.
Il suo primo libro, La dea madre e il culto betilico, è stato recensito su diverse riviste specializzate del settore come il magazine Hera, Graal, Hicarus, nonché su quotidiani locali. E’ stato argomento di studio in due manifestazioni, una organizzata dall’Archeoclub di Italia, sede di Bari, dal titolo “La Dea Madre e il culto delle Pietre Sacre” e una seconda nell’ambito della Settimana della Creatività organizzata dal comune di Bari.
E’ coautore della pubblicazione scientifica Instabilità dei versanti nei centri storici di grande interesse storico artistico monumentale: il caso di Acerenza (Basilicata), lavoro presentato al I Congresso AIGA, Chieti, 19-20 febbraio 2003.
Suoi articoli sono stati pubblicati su quotidiani e riviste specializzate, come Puglia d’Oggi, Hicarus: le ali del mistero, Stefano Salvatici editore, e L’altra scienza, Sibilla editore. Ha partecipato a numerosi Seminari e Convegni; collabora attivamente con vari siti web e riviste (compreso lo Spaziofatato).
Con Boopen Edizioni ha pubblicato Il magnetismo umano.
Con le Edizioni Venexia ha pubblicato Guida alla Dea Madre in Italia (2005), Il ritorno del dio che balla (2006), La stregoneria in Italia (2007), Guida alle streghe in Italia (2009) e Guida alla stregoneria del deserto (2011).

Con Anguana Edizioni ha pubblicato Lo Sciamanesimo afroamerindio  (2013) e La borsa dello Sciamano (2016).

 

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